Psicoanalisi contro n. 3 – IL SI BEMOLLE DORATO

dicembre , 1993

Una persona che, tempo fa, era in analisi con me, mi raccontò di una sua precedente esperienza psicoterapeutica, interrotta un po’ bruscamente, per la reciproca insofferenza e profonda avversione venutesi a creare nel rapporto analitico.
Il paziente in questione era un musicista e, come spesso accade ai cultori di quest’arte, era un po’ chiuso nei confini del suo mondo sonoro: si esercitava allo strumento, andava alla ricerca di brani inediti o poco noti del passato, possedeva un’ottima preparazione filologica, in particolare sul periodo di cui si considerava uno specialista, oltre che una grande conoscenza di tutta la storia della musica. Suonava, leggeva e ascoltava musica, studiava su trattati e partiture preparava con cura i suoi concerti, scriveva per alcune riviste musicali: il suo mondo era, ed è tuttora, la musica. Un mondo vasto, immenso, uno smisurato universo, con tanti soli, costellazioni e cose ancora ignote e meravigliose da scoprire. Spesso però questo universo è rinchiuso in barriere molto rigide e compatte, poco permeabili da altre realtà, e spesso il musicista vive nel suo mondo, restando un po’ troppo assorbito da questo linguaggio. Ciò si percepisce talvolta in esecutori ed interpreti, compositori e direttori d’orchestra, e le loro stesse esecuzioni e composizioni ne risentono negativa-
mente. La musica deve sorgere, certamente, da uno studio accurato e approfondito, da esercizi tecnici assillanti e ossessivamente ostinati, ma deve scaturire anche, oltre che dalle profondità abissali dell’animo umano e dell’universo, dal quotidiano confronto con la realtà; e questo credo valga per ogni arte.

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Ritornando alla persona che era in analisi conme: mi raccontò del precedente analista che, dopo aver cercato di mostrarsi indifferente, non riuscì più a non manifestare la sua insofferenza per quei discorsi che non capiva; anche per questo l’analisi si era interrotta. In effetti raccontava i suoi sogni in termini inconsueti: «…ho visto un gran mi bemolle blu e poi un sol alla distanza di una terza maggiore, e poi un si bemolle dorato, una terza minore…». E giù una valanga di parole sui significati che per lui aveva il mi bemolle maggiore: «…il sol schizzò lontano, alla distanza di due ottave… i rivolti… una cadenza…». Seguivano lunghe associazioni su alcune difficoltà tecniche della diteggiatura, su certi abbellimenti, sui registri: «…abbellimenti, bellezza… registri, registri di scuola». E via con lunghe descrizioni della meccanica dello strumento, antico e affascinante, i problemi di accordatura; e poi, subito dopo aver parlato di un ragazzo basso: «…il basso continuo…». Se non parlava di musica, improvvisamente non sapeva più di che parlare; o meglio: le cose che riusciva a dire non erano mai quelle che realmente gli erano affiorate per prime alla mente. Se si lasciava andare ai suoi pensieri, pensava alla musica, al suo strumento, ai concerti, a vecchi fogli ingialliti.
Spesso, seduttorio, soggiungeva: «Come è bello che con lei, che è musicista come me, io possa parlare tranquillamente di tutto questo. Lei mi segue e non la sento irritato». Debbo dire che qualche volta ci scappavano vivaci discussioni su problemi di tecnica od estetica musicali che, forse, con l’analisi avevano poco a che fare, ma riuscivamo comunque a recuperare tutto, anche mie e le sue resistenze, e il lavoro poté proficuamente continuare.
Aveva iniziato l’analisi con me, con affrettato entusiasmo, senza neppure aver letto nulla di mio e senza avermi mai ascoltato, soltanto perché gli avevano detto che io ero un musicista.
Sentii però come una vittoria il giorno in cui mi accorsi che le barriere di quell’universo musicale si stavano abbassando e il mondo irrompeva, con inarrestabile intensità, con la ricchezza di una realtà fatta anche di cose che non erano solo musica.

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Io non ho mai creduto e non credo che si debba necessariamente essere musicisti per fare psicoanalisi con un musicista, perché allora lo stesso problema si porrebbe con un fisico nucleare, con un pescatore o con un motorista, con un chimico o un odontotecnico: tutti infatti avrebbero bisogno dell’analista specializzato nella materia. Vi possono essere indubbiamente esperienze di vita o culturali che allontanano il terapeuta dal paziente, ma non vi si può rimediare pensando a un analista con una conoscenzaenciclopedica. Èvero però che più l’ analista sa, meglio può svolgere il proprio lavoro. Giova a questo fine la curiosità del terapeuta verso il mondo e tutto ciò che il mondo può contenere, verso gli uomini e l’infinita possibilità delle diverse situazioni esistenziali, dei diversi linguaggi con cui l’umanità si esprime. La curiosità deve portare lo psicoanalista a scrutare, con abbandono quasi totale, ciò che gli sta intorno e a risentirne l’eco dentro di sé.
Proprio per questo, l’analista troppo chiuso nel mondo della sua scienza, non solo non è un bravo psicoanalista, ma neppure esiste come psicoanalista: non c’è. Perché la psicoanalisi è scienza dell’uomo e l’uomo non è un’entità astratta- è sempre questo o quell’uomo, inserito in questo o quel gruppo sociale, che ha avuto queste o quelle vicende. Lo psicoanalista deve sapere imparare, quando ancora non sa, dalle esperienze dei propri pazienti. Ecco perché l’arte è quanto mai utile. Sono utili anche l’astronomia e la cibernetica: tutto giova all’analista, ma è fondamentale che egli sappia cogliere il significato dell’esperienza artistica. Non tanto perché così sarà meglio in grado di gestire analisi con pazienti artisti, conoscendone le problematiche poetiche, estetiche e tecniche e l’influsso che hanno sulla vita quotidiana, ma perché solo se sarà capace di immergersi profondamente in questo duplicato del mondo che è l’arte, saprà riconoscere questo duplicato dell’arte che è il mondo.
Non credo che sia nata prima l’arte e poi l’uomo o prima l’uomo e poi l’arte.

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L’espressione artistica è nata con l’uomo: l’uomo è un’opera d’arte, o meglio: l’uomo si esprime e si costruisce attraverso la ricerca dell’espressione artistica. Nessun gesto è privo di finalismo; non è vero – come si diceva un tempo – che i bambini prima si muovano in modo scoordinato e poi lentamente coordinino i gesti dando loro un significato e uno scopo. Ogni gesto, anche il più «istintivo», è inserito in una organizzazione teleologica; ma il fine è sempre il soddisfacimento di un piacere che già il gesto in sé tenta di realizzare; se così non fosse, non potrebbe neppure avere inizio il gesto. Il piacere del gesto è quel di più, apparentemente inutile e quindi assolutamente essenziale, che fa sì che, con quel gesto, si esprima qualcos’altro che il semplice tentativo di raggiungere lo scopo. Ogni gesto erra per un momento nell’aria, come per raccontare una storia, per dire ad un tempo ciò da cui trae origine e ciò cui tende.
L’arte, allora, sarebbe «raccontare storie»? Ma che cosa è la vita umana se non una grande e tragicomica storia? Se l’arte è un gesto che racconta la vita, o meglio: che fa diventare vita il racconto, come fa la musica, che con puri suoni si articola in vicende e conosce avventure, è allora un momento di disimpegno, di piacere fine a se stesso?
Non ha senso distinguere tra piacere e piacere fine a se stesso: ogni piacere è fine a se stesso. Si potrebbe dire allora che l’arte è autocentrica, che non ha altro scopo al di fuori di sé, a differenza, ad esempio, della scienza, che tende a realizzare qualcosa che è al di fuori.
In questo senso, la psicoanalisi – che è scienza – sarebbe quanto mai lontana dall’arte, e tutte le scienze sarebbero cose diverse e lontane dall’arte.

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L’arte, come la scienza, parte dall’uomo e ritorna all’uomo: racconta una storia verosimile, né più né meno di quanto faccia la scienza. Dov’è infatti l’obiettività della scienza, se non nell’illusione degli scienziati? L’arte inventa un mondo che, almeno per un poco, ha una sua autonoma validità: un agglomerato di suoni, colori, forme, parole e gesti che è vero, non perché imiti la realtà, ma perché ha una sua verità che permette all’uomo di capire qualcosa di se stesso, del suo presente e del suo futuro. Lo stesso fanno gli scienziati, quando parlano delle stelle e degli atomi. Èvero che, ad un certo punto, le strade dell’arte e della scienza divergono: diversi interessi e diversi modi di esprimersi determinano le scelte. La psicoanalisi ha la possibilità, e il dovere, di snidare la cattiva coscienza di tutti, ma deve poi avere l’umiltà di rimettersi in riga e permettere che l’arte dica quello che lei non saprà mai dire; né dell’uomo, né del mondo.
Solo se lo psicoanalista sarà così curioso da voler guardare il mondo, cercando di capire, poco o tanto, la realtà dell’arte, potrà sperare di andare oltre i limiti angusti di una piccola scienza, per diventare uomo capace di curare se stesso e di prendersi cura degli altri.