Psicoanalisi contro n. 3 – A CAPO SCOPERTO

dicembre , 1993

E inutile andare alla ricerca del significato etimologico della parola artei è inutile perché sarebbe troppo facile e sarebbe ozioso perché non porterebbe a nessuna conclusione. Ogni parola esprime un concetto che si evolve nel tempo, le parole sono instabili come gli esseri umani: oggi stanno a significare una cosa, domani avranno un altro significato e in futuro potranno averne un altro ancora. Oggi la parola arte designa un gruppo di attività umane abbastanza identificabili, anche se non definibili con assoluta precisione.
Gli artisti sono coloro che producono arte: alla parola artista corrisponde un concetto difficile a definirsi, ma è un termine che nella pratica può venire utilmente usato. Tutti sanno chi è l’artista: è colui che produce l’arte. Tutti sanno che cosa è l’arte; ma nessuno riesce a definirla.

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Se si parla di arte bisogna distinguere almeno due categorie: una è quella dell’arte colta e l’altra è quella dell’arte popolare. L’arte colta ha una sua storia, che si ritrova sui testi che ne tracciano il percorso nei secoli: storia della musica, storia dell’arte figurativa, storia del teatro e così via. L’arte colta ha una sua importanza economica poiché sostiene la vita di istituzioni teatrali o musicali, tiene in piedi una parte dell’industria editoriale e permette il commercio di galleristi e mercanti d’arte. L’arte colta viene considerata l’Arte con la A maiuscola.
Accanto all’arte colta sopravvive un’arte popolare detta anche arte folclorica, fatta di tabernacoli affrescati, perduti tra le campagne, dove sono effigiati Santi e Madonne con sguardi penetranti, mani anchilosate e rozze come quelle dei contadini, colori indecenti: rosa, azzurri, neri e violetti improbabili. È anche l’arte dei cantastorie che cantano seguendo ancora gli schemi di un’antica musica modale e che si servono di versi in ottava rima. Quest’arte è stata fiorente sia nel Nord sia nel Centro e Sud dell’Italia, ha prodotto opere splendide. L’arte colta, quella dei teatri e delle gallerie d’arte ha subito negli ultimi due secoli una grande evoluzione: Barbizon e Wagner, Webern e Der Blaue Reiter: linguaggi diversi si sono susseguiti, opponendosi gli uni agli altri, ciascuno affermando che i predecessori non avevano capito qualcosa, che il passato significava anche arretratezza culturale e che il presente soltanto sapeva trovare il linguaggio migliore perché più evoluto.

Nello stesso periodo, invece, l’arte popolare è rimasta immobile, costretta a trovare in questo suo deliberato rifiuto di ogni trasformazione la sua possibilità di sopravvivere in quanto espressione autonoma senza essere cancellata dall’incalzante processo di omologazione culturale. Questa immobilità dell’arte popolare ha fornito un alibi ai borghesi in cattiva coscienza. Etnologi, musicologi, antropologi ed etnomusicologi, specialmente di indirizzo pseudo-rivoluzionario, hanno potuto così esaltarsi davanti alla supposta purezza e verginità di affreschi votivi o di canti ispirati dalla venerazione per qualche Madonna miracolosa, proponendoli alla curiosità degli altri borghesi come fenomeni da baraccone, reperti sopravvissuti di civiltà estinte, senza nessun rispetto per la dignità umana e culturale delle realtà che si trovavano loro di fronte, mantenute in posizione di inferiorità culturale e anche poetica: i buoni selvaggi irrimediabilmente inferiori.

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Accanto a queste due forme d’arte se ne è venuta, dal diciannovesimo secolo in poi, affermando un’altra: l’arte di massa. L’arte di massa è iniziata coi romanzi d’appendice e coi melodrammi ottocenteschi, possenti e deliranti, spesso, nella loro capacità di coinvolgimento. Aristocratici, borghesi, proletari e persino sottoproletari erano affascinati da storie e da melodrammi espressi in linguaggi letterari e musicali a volte di orrendo cattivo gusto, ma altre volte di indiscutibile valore poetico e di raffinata musicalità. La compresenza nell’arte di massa della buona e della pessima qualità non è che una delle contraddizioni di ogni sistema culturale, mai riconducibile a schemi estetici assolutamente validi.
In seguito, l’arte di massa si è espressa soprattutto attraverso il linguaggio cinematografico esaltando e moltiplicando la possibilità di dirigersi a settori di pubblico sempre più ampi, raggiungendo addirittura tutti, con effetti epici senza precedenti. L’immaginario collettivo si è così da allora nutrito di fascinose figure di attori e attrici, belli e brutti, angelici e rudi, impomatati e sciocchi e le storie proiettate su grandi schermi in sale buie acquistavano la stessa valenza dei sogni Ancora oggi chi racconta un sogno spesso dice: «…a quel punto del film…» Anche la musica si è diretta verso masse sempre più vaste, sono nati i complessi musicali e le grandi orchestre di musica leggera: talvolta proponendo musiche eccellenti, più spesso producendo pessima musica; rumori indecifrabili; e il percorso è giunto oggi alle grandi combinazioni video-musicali proposte negli stadi. L’arte di massa si è venuta sempre più incuneando tra l’arte popolare e quella colta ed oggi ha un rilevante peso culturale ed economico. Dall’arte di massa gli artisti hanno qualcosa da imparare: per esempio a non essere troppo astrusi e chiusi nel loro aristocratico olimpo e ciò vale sia per i raffinati artisti colti, sia per quei narf chiusi in moduli antichi, sempre meno comprensibili al di fuori delle isole culturali in cui stanno abbarbicati. L’arte di massa non solo riesce quasi sempre a coinvolgere trovando denominatori comuni sempre più ampi, ma è in grado di produrre opere quanto mai valide e significative per tutti.

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Queste tre forme di arte: colta, folcloristica e di massa, non sono nella sostanza molto diverse tra loro. L’arte colta, e l’arte di massa seguono però l’evoluzione del gusto, mentre invece l’arte popolare-folcloristica è rimasta e si sforza di rimanere immobile, nel tentativo di mantenere una propria identità. Anche se col tempo cambiano molte cose che stanno alle spalle delle rappresentazioni dell’arte, nella sostanza, i riti dell’arte mantengono i caratteri di sempre. Pur nella varietà e diversità delle culture e delle economie, pare essere dominante una intrinseca, unità dell’arte, che si poggia probabilmente sulla sostanziale identità degli esseri umani. La cosa importante è, a mio avviso, cogliere questa doppia caratteristica di specificità e unità dei fenomeni artistici per tentare una comprensione sempre approfondita, che non sia viziata da una tentazione di appiattimento, ma che non si arresti di fronte all’alibi di una diversità incomprensibile. I diversi significati che la manifestazione dell’arte può assumere in conformità alle diverse situazioni storiche, geografiche ed economiche, non sono in contraddizione col significato che l’arte ha per l’uomo in quanto tale.

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Io credo che tutti gli uomini e le donne siano simili: nelle fantasie, nei desideri e nelle paure. Credo anche che abbiano tutti una uguale dignità. Nel loro essere uguali in quanto uomini sono tutti diversi in quanto individui, ma la diversità non lede la loro integrità di esseri umani. Sentire le culture troppo diverse, troppo distanti l’una dall’altra e credere che un gruppo sociale non possa capire la cultura di un altro gruppo vuol dire sanzionare definitivamente il razzismo. Gli uomini sono diversi tra loro; è inutile profondersi in elogi sul valore dell’intatta natura del buon selvaggio; io ritengo che il buon selvaggio, se mai è esistito, si sia estinto ormai da tempo immemorabile, ancora prima che l’Illuminismo potesse cercare di interessarsi alla sua morale, alla sua cultura e alla sua arte.
Oggi siamo tutti simili anche nel desiderio di potere, nella smania di lottare per la supremazia di un sesso sull’altro; ma la lotta, che pure è una realtà, non deve impedirci di credere che sia possibile la comprensione tra gli uomini. Solo i vigliacchi si arroccano nella comoda posizione di chi si rifiuta di capire. A quegli antropologi che si ostinano ad archiviare reperti raccolti sul campo, che continuano a comportarsi come osservatori estranei alle culture che incontrano, io consiglio di buttare via gli strumenti di cui si servono, perché sono strumenti fasulli in mano a persone dalla falsa coscienza.

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Oggi l’arte che desta più perplessità in chi si ritiene colto, raffinato e anche politicamente accorto è l’arte di massa. La disco-music, le canzonette, le telenovelas che coinvolgono milioni di persone, sono manifestazioni dell’arte o sono l’odierno «oppio dei popoli»? Io non credo che esista una forma di comunicazione che non sia anche oppio, cioè stordimento e suggestione, soprattútto se si rivolge ad un elevato numero di persone. Anche la Cappella Sistina, più o meno malamente restaurata, col suo incombere di nudi, di fiamme, di gesti magniloquenti, di occhi smarriti, suggestiona e turba, condiziona e anche plagia. L’arte è sempre strumento di plagio: risucchia l’uomo e lo porta in mondi stratosferici. Sofocle e Beethoven sono plagiatori sottili, che con il loro potere di suggestione hanno condizionato migliaia e forse milioni di persone. Certo, l’arte di massa di pessima qualità, quella dei film di terz’ordine e delle brutte canzonette, ha influenzato e influenza ancor più dell’Edipo Re o della Grande Fuga per quartetto d’archi, e certamente in senso negativo.
Dove si nasconde allora l’arte? Un’opera d’arte è più grande se suggestiona più persone o se suggestiona solo i pochi privilegiati che ne capiscono il messaggio nascosto?

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Se l’arte è quella dei linguaggi ovvi, banali e tristi, essa è ben povera cosa, ci verrebbe da dire. Ma poi ci ricordiamo di un’esperienza che tutti abbiamo vissuto qualche volta. Un’esperienza che ha colpito molto quelli di noi che si sentono particolarmente disposti alle cose dell’arte e del buon gusto. È l’esperienza di certe sere passate davanti ad un televisore, incatenati a una vicenda sciocca e zuccherosa, che però ci ha tenuti lì fermi, con l’animo turbato, insensibili alle voci che ci richiamavano o al trillo del telefono nell’altra stanza. Da una parte la nostra coscienza ci ripeteva che stavamo vedendo unfilmaccio senza alcun valore estetico, dall’altra il nostro cuore commosso seguiva la storia di quella coppia in crisi, di quel biondo bambino, super-vitaminizzato e con gli occhi azzurri, che piangendo costringeva il papà a tornare sui suoi passi e a stringere sul suo robusto petto la madre e il figlio in un solo abbraccio, e se non proprio una lacrima ci colava sulla guancia, almeno un groppo si formava alla nostra gola. Come è possibile, ci siamo poi detti, che chi sa commuoversi per Tancredi e Clorinda, per la musica di Monteverdi, per le pagine di Musil si sia lasciato coinvolgere da qualcosa di così brutto e stupido? Siamo forse sempre in cattiva coscienza? L’arte vera dove si nasconde e come si riconosce? A me viene il sospetto che l’equivoco possa nascere solo per la pessima educazione che tutti abbiamo ricevuto, per l’ipocrisia cui ci siamo abituati; per la rassegnazione alla banalità di tutti i giorni, che ci hanno formati e che costituiscono il nostro inconscio sociale. Eros, sovrano dell’arte, ci ha detto qualcosa; ma noi siamo ancora assordati dagli altri rumori e nella confusione non abbiamo saputo riconoscere la sua voce, per questo anche viviamo nella contraddizione.

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Noi siamo preda di condizionamenti antichi: messaggi contraddittori ci hanno costituito. L’amore per l’arte non consiste soltanto nel lasciarsi andare, perché allora ci è facile an﷓
che trovarci coinvolti dal ritmo volgare di una canzonetta o di un bacio idiota scoccato con l’accompagnamento di un arpeggio di violini L’amore per l’arte è una conquista che va oltre i nostri stessi desideri: altri desideri debbono sorgere in noi. Siamo ancora troppo malati per saper amare solo ciò che è arte, solo ciò che è bello. Ora lo voglio dire apertamente: arte e bellezza devono coincidere. Non ho finora mai avuto il coraggio di fare questa esplicita dichiarazione, ed ho sempre preferito limitarmi a dire che l’arte è espressività, che essa può rappresentare anche il brutto; ma quelli erano discorsi che facevo a capo coperto, come Socrate, quando cercava di convincere Fedro che è meglio cedere a coloro che non amano che a quelli che amano. Anche Socrate però, dopo essersi scoperto il capo disse al giovane che lo ascoltava attento, sulla riva del fiume, nel canto delle cicale, che, in verità, è bello amare chi ci ama. Io, col capo scoperto, affermo che dobbiamo lottare per imparare ad amare tutto ciò che è bello. L’arte coincide con il bello; può esprimere il brutto, ma nel farlo lo trasfigura e lo rende partecipe del bello. Il brutto non appartiene al mondo dell’arte. L’arte ha il privilegio assoluto di poter parlare del brutto e del male senza esserne intaccata. Come questo sia possibile lo dovete domandare ad Apollo.