Archivio di novembre 1992

87 – Novembre ‘92

domenica, 1 novembre 1992

Non ci sono ragioni per cui si dovrebbe andare a vedere un film come Mariti e mogli se il regista e il protagonista del film non fosse quel Woody Allen che da circa vent’anni sta inquinando gli schermi del mondo con un genere che non è umoristico, non è di costume e non è intelligente, ma riesce a farlo credere ai più. Noi non ci abbiamo mai creduto e dal lontano dittatore di Banana allo scoppiato marito di oggi abbiamo solo avuto la conferma che è sempre molto difficile dire che il re è nudo. E difficile soprattutto perché significherebbe ammettere che nudi siamo anche noi, senza difese contro il conformismo intellettuale. Il film di oggi è una ritrita rielaborazione dei drammi coniugali di due coppie in crisi, e fin qui niente di male, perché da Adamo ed Eva in poi, l’argomento è stato sempre attuale; quello che è peggio però è raccontare una storia in modo così pasticciato, senza poesia e senza umorismo, usando male la macchina da presa, offrendo una recitazione svogliata, peggiorata forse da un doppiaggio che trova la sua efficacia in una petulanza insopportabile e ripetitiva. Poi tutti sono liberi di giocare ad identificarsi o ad identificare i propri amici; forse qui sta l’astuzia di Woody: sa solleticare i nostri lati peggiori, facendoci credere in cambio di pochi soldi che essi coincidono con il massimo dell’ acume intellettuale; mentre invece sono adeguamento agli stereotipi e discesa verso il basso dell’ autocompiacimento. Al di là dei nostri moralistici sdegni un po’ supponenti, resta la realtà di un cinema che diventa ogni volta più noioso e questa volta la noia è quasi insopportabile. Mia Farrow e Woody Allen sono i complici ed i colpevoli principali, ma correi sono anche Blythe Danner, Judy Davis, Juliette Lewis, Liam Nesson, Sydney Pollack nei ruoli di contorno e Carlo Di Palma come direttore di una fotografia troppo scura, monotona e sovrabbondantemente iper-realistica.

87 – Novembre ‘92

domenica, 1 novembre 1992

Non siamo per niente d’accordo con quanto afferma Paolo Rossini sul programma di sala del concerto di mercoledì 28 ottobre all’Auditorium di via della Concilazione, per la stagione da camera dell’ accademia di Santa Cecilia: «Già al primo colpo d’occhio si nota la presenza quasi costante – tre autori su quattro – di brani dedicati alla Spagna. Se poi si considera che per un autore settecentesco come Mozart il Drang nach Sueden non poteva che essere indirizzato verso l’Italia, questo filo sottile si materializza in qualcosa che potremmo chiamare (…) mediterraneità». Secondo noi sarebbe invece più giusto dire che Cecilia Bartoli ha scelto per sé un programma che è sufficientemente unitario, ma che in ogni caso non può essere unito in nome della mediterraneità. Paolo Rossini ha confuso un’assonanza di titoli italo-spagnoli con un percorso musicale. I testi musicati da W.A. Mozart sono schiettamente rococò e per nulla mediterranei, anzi coerenti con il «barocchetto» austriaco, anche se la musica, pur saldamente collocata nella sua epoca, trascende con la sua bellezza ogni definizione spazio-temporale. Quelli di Ravel sono invece folcloristici, rivestiti di una musica sensuale e magistralmente virtuosistica.
Orrendi ed incongrui sono non solo i versi della Zaide di Berlioz: un vero sassolino nella scarpa. Per quel che concerne la sezione rossiniana del secondo tempo, troviamo stupende nell’arguzia nord-europea le cinque arie sul testo di Metastasio Mi lagnerò tacendo; invece musicalmente un po’ ovvie, ma ben tornite, le melodie dell’Orfanella del Tirolo, dell’Anima abbandonata e La grande coquette, mentre la pagina della Semiramide ci pare stupenda. Splendida la vocalità di Cecilia Bartoli: i fiati sono emessi alla perfezione, nessuno scontro od esplosione d’aria nelle cavità della fonazione turba il fluire di una voce intonatissima, abile e sensuale. Non è però, il bravo mezzo soprano, ancora in grado di affrontare Mozart come si dovrebbe. Il suo tentativo è stato abbastanza corretto, ma la divina arguzia di quelle arie era un po’ sacrificata, tanto che, qua e là, la voce acquistava un timbro quasi acido. Noi menzioniamo solo di rado i bis; però per completare il nostro discorso, diremo che nel bis «Voi che sapete», dalle Nozze di Figaro, la cantante ha dimostrato ancora la sua inadeguatezza rispetto al repertorio mozartiano, cantandola come si canterebbe un’aria di Azucena. Noi siamo d’accordo quando non si edonizza Mozart: quella è un’ aria drammaticissima, però non ha nulla a che vedere con l’atmosfera gitana. Ottima la Bartoli ci è parsa in Ravel: intensa, precisa, pulita e superlativa nei vocalizzi. Nella pagina di Berlioz è riuscita ad essere spigliata, rendendola accettabile. Nelle cinque arie rossiniane su un testo di Metastasio la cantante ha confermato le sue ottime qualità. Ancora la sua voce si è rivelata duttile e cangiante nelle tre canzoni un po’ ovvie ed infine superba nell’aria dalla Semiramide dove ha sfoggiato anche perfetti vocalizzi rossiniani. Pessimo per tutto il concerto l’accompagnamento del pianista Myung- Whun Chung: impreciso, confuso e ritmicamente zoppicante.

87 – Novembre ‘92

domenica, 1 novembre 1992

È di questi ultimi tempi un attacco che la cultura sta facendo al «filosofese»: Cacciari e Habermas sono gli obiettivi più aggredibili, però insieme al loro linguaggio viene stigmatizzato quello di coloro che parlano e parlano in modo assolutamente incomprensibile. Noi pensiamo che nessuna epoca riuscirà mai a ribellarsi a questi linguaggi insulsi e prolissi:
troppe sono le persone che hanno raggiunto posti di potere non per studio o serietà culturale, ma semplicemente per intrallazzo; quindi costoro vogliono scrivere e parlare, ma, poiché hanno ben poco da dire, fanno come la seppia: si avvolgono in un inchiostro nero e indecifrabile. Siamo molto contenti che sia stato aggredito il filosofese, indecentemente oscuro e dilettantesco; ma ci piacerebbe anche veder attaccato il linguaggio dei più o meno noti critici dell’ arte figurativa, che assemblano parole e concetti che, di fatto, non hanno nesso alcuno con la realtà. Non si capisce nulla di ciò che costoro descrivono, e non si capisce alcunché del loro pensiero: ci sembrano molto simili ai cuochi della ormai defunta nouvelle cuisine che univano tra loro ingredienti totalmente incongrui, nonché disgustosi, contrabbandandoli per geniali trovate culinarie. La filosofia e la cucina si stanno ribellando a questi mistificatori, abbiamo invece l’impressione che l’arte figurativa sia ancora assolutamente vittima degli sproloqui insignificanti ed anche un po’ gratuiti dei critici.
Ci siamo imbattuti in un commento di questo genere sul catalogo della mostra di Alejandro Kokocinsky alla Galleria Interarte di piazza del Pallaro, in cui Domenico Guzzi accorpa grumi di parole, totalmente insignificanti ed anche demenziali, per descrivere, forse, la pittura dell’artista italo-russo-polacco-sudamericano ora operante in Germania, il quale invece avrebbe diritto ad un commento molto più onesto, semplice, diretto e magari anche contestabile. La sua è una pittura valida, il disegno è ben padroneggiato ed i colori sono tenuti sotto controllo, in tutti i suoi quadri c’è un leggero senso di smarrimento, come se egli si sentisse un po’ estraneo al mondo. Il suo è un linguaggio decadente, ma non snervato, la fantasia unisce immagini anche lontane tra loro, costruendo sogni e parlando di desideri inconfessabili. La ricerca di una strada sua propria attraverso una grande quantità di stimoli e di ispirazioni ci sembra sincera, così attraverso il barocco e fino ad oggi si rilegge un percorso che nessun artista può legittimamente ignorare; ma Kokocinsky non si è soffermato su qualche particolare fonte ispiratrice e la sua Musa passa da un angelo a una cupola, da un cavallo alato ad un volto femminile, spesso affollati nello stesso quadro, sprofondati in nebbie luminose o appoggiati su scure superfici, nel tentativo di narrare la storia di un sogno che ogni volta si spezza, andando in frantumi che vale la pena di indugiare a raccogliere.

87 – Novembre ‘92

domenica, 1 novembre 1992

Il libro di Didier Anzieu, L’epidermide nomade e la pelle psichica (Cortina Editore, 1992, pp.115, Lit. 22.000) esprime le due facce che da sempre la ricerca psicoanalitica presenta: la prima è scientificamente interessante ed intuitivamente profonda; la seconda, baraccona, è quella che fa ritenere che il solo che in materia abbia detto qualcosa di assennato è stato Sigmund Freud. La teoria di Anzieu dell’Io-Pelle, ormai quasi classica, riveste un certo interesse. È quanto mai vicina alla teorizzazione della Gestalt. Per Anzieu ogni ente è circoscritto da un limite, che si esprime attraverso una pelle, ideale e reale, ed un’altra, teoricamente e concretamente emblematica, che è il derma; così come per i gestaltisti ogni assemblaggio di enti si struttura sempre in una “forma”. In questo volume Anzieu ripercorre la sua teoria: la struttura vitale fondamentale, la molecola e poi la cellula e il successivo organismo sono avvolti sa una pellicola che si struttura in due parti: la prima serve a difendere dall’esterno, e la seconda, che poi si suddivide in altri due elementi, è in rapporto con l’interno.
La pelle è significato e significante di tutto; ed è a questo punto quanto mai fecondo l’attacco di Anzieu allo strutturalismo, che mette l’accento esclusivamente sulle condizioni interne, senza tenere conto dell’involucro. Ogni interno è tale perché si oppone ad un esterno e ciò che delimita l’in-sé dal fuori di sé è appunto la pelle, che per l’autore acquista parecchi significati: è la pellicola che insacca l’organismo vivente originario; è il derma dell’essere umano, con pori, vasi, etc.; è un principio ideale che separa l’interno dall’esterno; è un’entità gnoseologica che serve a distinguere il me dal fuori di me; e poi ha addirittura una caratteristica metafisica: è il circoscrivente che esaspera la sua realtà in una presenzialità che trascende il suo essere di confine.
Molto interessante in questa trattazione è il discorso sulla confusione delle due pelli del bambino e della madre da cui dipende anche la concezione fecondissima della supremazia dell’ esperienza tattile su tutte le altre. Poi, come dicevamo, c’è anche l’aspetto baraccone e ridicolo: troviamo qui cumuli di affermazioni grottesche ed insensate, praticamente incomprensibili: divisioni e sottodivisioni che non stanno né in cielo né in terra e che soltanto rivelano che Anzieu non ha il senso del ridicolo.
Questo breve trattatello è comunque abbastanza interessante ove non ci si lasci coinvolgere dalle ingenuità e demenze psicoanalitiche. Il tutto è appeso abbastanza arbitrariamente ad un raccontino totalmente idiota che, secondo noi, è stato redatto da un computer, nel quale si parla prima di un rapporto infantile omosessuale, fantasticato, e poi di uno adolescenziale ed eterosessuale, per giungere alla bizzarria demenziale di un signore che costruisce qualcosa di simile a tappezzerie di Aubusson in pelle umana, il tutto senza alcun senso, o forse noi non lo abbiamo capito.

87 – Novembre ‘92

domenica, 1 novembre 1992

In questi ultimi tempi giovani uomini e giovani donne, soli o coniugati, incominciano, se pure con molta lentezza, a mostrare interesse per quello che mangiano e bevono; tanto è vero che a Roma, come altrove, proliferano scuole di cucina che, sebbene non insegnino molto a cucinare, impiastriccino troppi piatti con la panna e abbiano come massima aspirazione quella di insegnare come si ritaglino roselline dai ravanelli, tutto sommato, danno il segnale di un mutato clima culturale nei confronti della tavola. Inoltre i corsi sui vini, da quelli dell’AIS via via salendo e scendendo, sono affollati di ragazzi e ragazze che, se pure ne escono senza che il loro palato abbia imparato a discernere nulla di quello che gusta, almeno teoricamente sanno che i vini fatti dal «contadino» fanno per lo più schifo perché sono genuini sì, ma sono vinificati male, imparano anche che il vino non basta che sia vecchio perché sia buono e si ribellano persino al vizio dello spumante secco sui dessert. Nefaste invece continuano ad essere (a parte rare eccezioni) le mamme, che si dividono in due categorie: una prima categoria composta di mamme frettolose, che fanno solo fettine e patatine fritte, bruciate e tossiche; la seconda categoria è delle mamme nostalgiche, che si sentono in dovere di rimpinzare i famigliari e, credendo di ricordare come cucinavano le loro nonne, portano in tavola piattoni di intrugli pesantissimi e maleodoranti. Un’altra categoria di persone infine riteniamo nefasta alla cucina: le «checche» che parlano solo di marchese e di prime teatrali, le quali ritengono che un ristorante’sia tanto meglio quanto più è caro. Il ristorante Andrea di via Sardegna, sarebbe la delizia di queste checche e delle mamme nostalgiche: vengono servite di ogni portata porzioni gigantesche, tutte all’insegna dell’intruglio. I due Farfalloni, soli soletti questa volta, si sono visti sommergere il tavolo di cibi che hanno appena assaggiato qua e là, eppure sono usciti dal ristorante boccheggiando. Dapprima la miriade di antipasti squallidissimi su cui si basa la usurpata nomea del ristorante: fagioli, rughetta e gamberetti, distinguibili gli uni dagli altri solo per la forma; cubetti di mortadella, mischiati a fette di cacciatorino firmato e stecchito; un immenso piattone di fritti laziali e all’ascolana inattaccabili dalle dentature più robuste; acquosa ed insulsa mozzarella. Per quel che riguarda i primi piatti di pasta, non si può dire che mettessero allegria né un piatto di pennette alle zucchine e (barbatissimi) carciofi, né dei ridicoli raviolini ai funghi porcini, l’un piatto e l’altro scotti nonché affogati in una dolcissima ineffabile panna, viscida e greve. Poi un presunto stinco al forno, che pareva invece essere stato lessato ad oltranza e servito con l’acqua di cottura in cui galleggiavano i resti di quelli che dovevano essere stati dei deliziosi funghi porcini, prima dello scempio che in cucina aveva fatto perdere loro ogni appetibilità; non migliore il risultato degli straccetti, un po’ filosi e un po’ ciancicati.
Il gelato della casa era tanto insipido da far rimpiangere le professionali preparazioni in vaschetta ed infine con nostro turbamento abbiamo constatato che quel dessert chiamato «lettere d’amore» non prendeva quel nome per fantasioso vezzo, ma perché del foglio di carta con cui tali missive si scrivono aveva la consistenza quella mezza sfoglia che avvolgeva una cremina calda e troppo zuccherata. Dobbiamo riconoscere che abbiamo bevuto molto bene: un Gavi dei Gavi della Scolca, servito a giusta temperatura, gustoso, profumato d’erba e di frutti di bosco, dal bel colore dorato e un ottimo, scintillante nel suo bel rosso rubino Barbera Bricco dell’uccellone, leggermente mosso, giustamente tannico e dalla buona persistenza, delicatamente profumato di vaniglia e violetta. In conclusione, ci ha stupito un ulteriore segno di scarsa professionalità che ci ha fatto servire in una flute ghiacciata un gelidissimo marc di champagne, che abbiamo inutilmente cercato di re suscitare col calore delle mani. L’esorbitante conto presentatoci non trova nessuna giustificazione: non certo nel servizio «casereccio», per quanto ostentatamente cordiale, e nemmeno nell’ apparecchio e nelle stoviglie dozzinali. Stavamo già sull’uscio ed ancora ci seguiva lo squittio di quattro commensali che nella saletta a fianco, non cessavano di lanciare gridolini ad ogni portata, interrompendo per un istante il fluire di pettegolezzi su marchese e registi divini.

87 – Novembre ‘92

domenica, 1 novembre 1992

Il teatro boulevardier è diventato a Parigi ed in Francia, con Courteline, Labiche e Feydeau, un vero e proprio genere, di grande efficacia spettacolare, se pure un po’ ripetitivo. Comunque, quando queste commedie ad intrigo e ricche di colpi di scena sono manipolate da veri talenti teatrali, il risultato è esteticamente ottimo, oltre che commercialmente redditizio. Il meglio di sé queste opere lo esprimono recitate in francese nel loro ambiente originario, però sono validissime anche fruite in altre lingue e sotto altri cieli, quando traduzione e recitazione sono buone. Andrè Roussin, autore francese morto a Parigi nel 1987, fu ottimo scrittore di questo genere: lieve, arguto, teatralissimo, e perfino delicatamente «impegnato». La compagnia PRO.SA. ha messo in scena al Teatro Nazionale di via De Pretis La cicogna si diverte (Lorsque l’enfant parâit). Di questo testo potremmo dire quello che dicevano gli antichi delle opere satiriche: castigat ridendo mores. Noi assistendo a questo spettacolo ci siamo resi conto di quanto la situazione psichica e morale degli italiani sia critica e di quanto siamo oppressi da una realtà cupa, angosciosa e disperata.
Lo dimostra la reazione del pubblico a questa commediola che, con abilità e simpatia, prende una decisa posizione antiabortista: le situazioni sono esilaranti e ben congegnate, gli attori bravissimi, eppure gli spettatori, maschi e femmine, giovani e vecchi, ridono a denti stretti. Effettivamente sentirsi immersi in una società di assassini, anche se la denuncia è fatta in modo lieve e ridanciano, mette tutti a disagio. In una tranquilla casa borghese la moglie attempata di un anziano ministro, già madre di due figli in età di matrimonio, scopre con disappunto di essere nuovamente incinta. La cosa, come è comprensibile, sconvolge già di per sé la vita del piccolo nucleo famigliare, ma lo sconvolgimento aumenta perché sia la figlia fidanzata, sia la fidanzata del figlio si trovano ad essere nello stesso momento a loro volta incinte.
A questo punto si crea il conflitto che è anche il nucleo del soggetto teatrale: il marito, politico famoso come anti-abortista e ministro impegnato in difesa della famiglia, si trova a dover scegliere tra i propri principi e la propria rispettabilità. Un figlio eccessivamente tardivo che arriva contemporaneamente a due nipotini nati fuori dal matrimonio lo distruggerebbe politicamente, coprendolo di vergogna e di ridicolo, d’altro canto un triplice aborto significherebbe la rinuncia ai propri principi e la compartecipazione ad un omicidio multiplo. Ovviamente questo genere teatrale riesce sempre ad evitare che le cose diventino drammatiche e tutto si risolve addirittura con tante cicogne e con il recupero di un altro figlio, a suo tempo rinnegato, insieme con i peccati di gioventù.
La regia di Ennio Coltorti governa con mano sicura il carosello continuo di situazioni divertenti, lasciando però affiorare quanto è dovuto la serietà dell’ assunto. Paolo Ferrari è piacevolissimo sempre, sia quando gioca col suo personaggio, sia quando ammicca allusivamente agli spettatori restii a recepire la questione di fondo. Valeria Valeri è perfettamente nella parte, senza sforzo. Marco Bolognesi e Maria Cristina Heller sono due figli d’oggi, quasi sempre plausibili, malgrado la fatica di cancellare i trent’anni che sono passati dalla stesura del testo ad oggi. Giuseppe Pertile ha buon gioco nel mettere a fuoco un nonnetto terribile di quelli sempre attuali e sempre superati di cui il teatro e la vita sono pieni. Gli altri sono Aurora Trampus, Salvatore Chiodi e Silvia Irene Lippi. Le scene di’ Gianfranco Padovani, i costumi di Silvia Morucci e le musiche di Luciano e Maurizio Francisci completano in modo ideale questo quadretto che poi, in fondo in fondo, tanto frivolo non è.

Al Teatro Belli, in Piazza Sant’ Apollonia, nel cuore di Trastevere, è andato in scena Ladies’ Night, ovvero: I signori della notte, di Anthony Mc Carten e Stephen Sinc1air, nell’adattamento e con la regia di Roberto Marafante. Lo spettacolo appare nel suo insieme un po’ dissociato, con un effetto molto vicino a quello della maionese «impazzita», in cui gli ingredienti, invece di amalgamarsi, se ne vanno ciascuno per conto suo. Di fatto, la grande trovata è quella di proporre al pubblico romano un vero e proprio spettacolo di spogliarello «maschile» e su questo ha lavorato con grande successo la campagna promozionale, che è infatti riuscita a riempire il teatro di uomini e donne ansiosi di «vedere» gli uomini che si spogliano. La dissociazione sta nel fatto di aver voluto in qualche modo mascherare l’operazione costruendola intorno ad un pretesto teatrale. Così si deve pazientare un intero noiosissimo primo tempo, in cui cinque giovanotti che non sanno recitare e una donnetta che sa recitare ancora meno si contorcono dibattuti da improbabilissime problematiche etico-esistenziali, prima di decidersi a debuttare con uno spettacolo di strip-tease che li toglierà (beata ingenuità) dalla squallida vita di borgata lanciandoli nell’empireo mondano, in un tripudio di luci e di martini cocktail. Purtroppo tutto questo è realizzato sotto l’insegna del più sfacciato dilettantismo: il regista, e forse anche Rosa Fumetto, hanno ben poca conoscenza della tecnica spogliarellistica (ricordiamo di passaggio che il re del Crazy Horse, la mente pensante, fu il signor Alain Bernardin) e commettono quindi l’errore fatale, che toglie al tutto l’unico significato possibile; infatti dichiarano brutalmente fin dall ‘inizio che «l’uccello» non si dovrà vedere. Ora tutti sanno che è proprio la speranza – inconscia fino a un certo punto – di vedere quello che non si potrebbe vedere («uccello» o «passera» che sia) a mantenere viva l’attenzione dello spettatore per un genere che, al di fuori di un’illusione, ben poco di concreto ha da offrire. Perduta quindi l’illusione resta la realtà non esaltante, di un passabile spettacolino di cabaret, mezzo travestito e mezzo svstito, nella più vetusta e turistica tradizione di Pigalle. Lo spogliarello in sé di quattro dei cinque ragazzi (l’altro si veste in lamé e tacchi alti) è pregevolissimo; i quattro sono molto belli nella diversità dei loro gradevoli corpi: dal culturistico all’atletico, passando attraverso il tipo «in forma», e sanno muoversi con bella sensualità che strappa veri urletti, mal mascherati dall’ironia auto-difensiva di spettatori e spettatrici. Se un consiglio si può loro dare, è quello di correggere un’impostazione «femminile» che loro non appartiene e che non sappiamo se provenga dall’influenza del regista o della Fumetto. Speriamo di vedere presto al neon i nomi di Alberto Alemanno, Carlo Conversi, Giorgio Podo, Angelo Sorino e Bruno Verdirosi. Assolutamente incapace ci è parsa Rosa Fumetto: bruttissima e senza alcuna grazia, con una recitazione a metà tra la caricatura del nazista ubriaco e la casalinga scocciata. Bruttissime ci sono parse le musiche siderali di Tito Schipa Junior.
Come facciamo spesso, ci piace annotare anche qualcosa del comportamento del pubblico: c’erano dietro di noi due coppie eterosessuali e nel buio sentivamo i respiri dei due ragazzi farsi un po’ ansanti nella contemplazione dei bei giovanotti; ma non sappiamo perché sono rimasti poi ironicamente silenziosi e senza applaudire i maschietti venuti alla ribalta a fine spettacolo e sono invece andati in delirio spellandosi le mani e urlando a gran voce all’ apparizione di quella Rosa Fumetto della cui presenza non sembravano fino ad allora essersi neppure accorti!