87 – Novembre ‘92

novembre , 1992

In questi ultimi tempi giovani uomini e giovani donne, soli o coniugati, incominciano, se pure con molta lentezza, a mostrare interesse per quello che mangiano e bevono; tanto è vero che a Roma, come altrove, proliferano scuole di cucina che, sebbene non insegnino molto a cucinare, impiastriccino troppi piatti con la panna e abbiano come massima aspirazione quella di insegnare come si ritaglino roselline dai ravanelli, tutto sommato, danno il segnale di un mutato clima culturale nei confronti della tavola. Inoltre i corsi sui vini, da quelli dell’AIS via via salendo e scendendo, sono affollati di ragazzi e ragazze che, se pure ne escono senza che il loro palato abbia imparato a discernere nulla di quello che gusta, almeno teoricamente sanno che i vini fatti dal «contadino» fanno per lo più schifo perché sono genuini sì, ma sono vinificati male, imparano anche che il vino non basta che sia vecchio perché sia buono e si ribellano persino al vizio dello spumante secco sui dessert. Nefaste invece continuano ad essere (a parte rare eccezioni) le mamme, che si dividono in due categorie: una prima categoria composta di mamme frettolose, che fanno solo fettine e patatine fritte, bruciate e tossiche; la seconda categoria è delle mamme nostalgiche, che si sentono in dovere di rimpinzare i famigliari e, credendo di ricordare come cucinavano le loro nonne, portano in tavola piattoni di intrugli pesantissimi e maleodoranti. Un’altra categoria di persone infine riteniamo nefasta alla cucina: le «checche» che parlano solo di marchese e di prime teatrali, le quali ritengono che un ristorante’sia tanto meglio quanto più è caro. Il ristorante Andrea di via Sardegna, sarebbe la delizia di queste checche e delle mamme nostalgiche: vengono servite di ogni portata porzioni gigantesche, tutte all’insegna dell’intruglio. I due Farfalloni, soli soletti questa volta, si sono visti sommergere il tavolo di cibi che hanno appena assaggiato qua e là, eppure sono usciti dal ristorante boccheggiando. Dapprima la miriade di antipasti squallidissimi su cui si basa la usurpata nomea del ristorante: fagioli, rughetta e gamberetti, distinguibili gli uni dagli altri solo per la forma; cubetti di mortadella, mischiati a fette di cacciatorino firmato e stecchito; un immenso piattone di fritti laziali e all’ascolana inattaccabili dalle dentature più robuste; acquosa ed insulsa mozzarella. Per quel che riguarda i primi piatti di pasta, non si può dire che mettessero allegria né un piatto di pennette alle zucchine e (barbatissimi) carciofi, né dei ridicoli raviolini ai funghi porcini, l’un piatto e l’altro scotti nonché affogati in una dolcissima ineffabile panna, viscida e greve. Poi un presunto stinco al forno, che pareva invece essere stato lessato ad oltranza e servito con l’acqua di cottura in cui galleggiavano i resti di quelli che dovevano essere stati dei deliziosi funghi porcini, prima dello scempio che in cucina aveva fatto perdere loro ogni appetibilità; non migliore il risultato degli straccetti, un po’ filosi e un po’ ciancicati.
Il gelato della casa era tanto insipido da far rimpiangere le professionali preparazioni in vaschetta ed infine con nostro turbamento abbiamo constatato che quel dessert chiamato «lettere d’amore» non prendeva quel nome per fantasioso vezzo, ma perché del foglio di carta con cui tali missive si scrivono aveva la consistenza quella mezza sfoglia che avvolgeva una cremina calda e troppo zuccherata. Dobbiamo riconoscere che abbiamo bevuto molto bene: un Gavi dei Gavi della Scolca, servito a giusta temperatura, gustoso, profumato d’erba e di frutti di bosco, dal bel colore dorato e un ottimo, scintillante nel suo bel rosso rubino Barbera Bricco dell’uccellone, leggermente mosso, giustamente tannico e dalla buona persistenza, delicatamente profumato di vaniglia e violetta. In conclusione, ci ha stupito un ulteriore segno di scarsa professionalità che ci ha fatto servire in una flute ghiacciata un gelidissimo marc di champagne, che abbiamo inutilmente cercato di re suscitare col calore delle mani. L’esorbitante conto presentatoci non trova nessuna giustificazione: non certo nel servizio «casereccio», per quanto ostentatamente cordiale, e nemmeno nell’ apparecchio e nelle stoviglie dozzinali. Stavamo già sull’uscio ed ancora ci seguiva lo squittio di quattro commensali che nella saletta a fianco, non cessavano di lanciare gridolini ad ogni portata, interrompendo per un istante il fluire di pettegolezzi su marchese e registi divini.