Archivio di ottobre 1992

86 – Ottobre ‘92

giovedì, 1 ottobre 1992

Le sciocchezze ideologiche o artistiche sono dannose alla società, però è più facile difendersene.
Quando invece il male morale più abietto e ributtante è presentato con una veste astutamente efficace i suoi effetti deleteri diventano devastanti. Il film di Pasquale Pozzessere Verso Sud è una esplicita e palese apologia di reato, il cui veleno però è iniettato negli spettatori da qualcuno che possiede innegabili requisiti di un buon mestiere. Noi ci siamo domandati fino a quando gli esseri umani saranno vilipesi ed umiliati e alla dignità dei bambini si continuerà a mancare di rispetto come avviene per esempio nella mielosissima storia di questa pellicola: una ragazza un po’ stronza e un po’ puttana esce dal carcere e incontra alla mensa della Caritas un ragazzo un po’ ladro e un po’ alcolizzato che vaga per Roma.
Dopo un fugace e scomodo per quanto ardente rapporto sessuale in una toilette su di un treno in corsa i due decidono di mettersi insieme; vanno a costruire il loro nido d’amore in uno stanzone di un opificio abbandonato con vista sulla ferrovia e qui incominciano le complicazioni. La ragazza infatti è madre di un bimbo che è stato affidato ad un istituto e che lei vorrebbe ora riprendere con sé, ma che si vede negare dalle «autorità competenti» e, aggiungiamo noi, lungimiranti. Approfittando della confusione causata da un incendio la ragazza «ruba» il figlioletto e se lo porta nell’ antro, facendone dono al giovinotto, ormai ex-alcolista, il quale sente sorgere immediato e prepotente l’istinto paterno. Lo spettatore è gratificato a questo punto di una serie di quadretti sentimentali di vita famigliare. I due però, malgrado le migliori intenzioni non trovano lavoro, per cui il giovanotto ruba un’automobile e fila verso il sud, dove spera che un amico che lavora nelle giostre potrà aiutarlo.
L’amico non può ma gli consiglia l’espatrio in Grecia dove nessuno verrà più a cercare il bambino «rubato». Per espatriare occorrono soldi, per fare soldi in fretta si presenta ‘occasione di una rapina a mano armata, il giovanotto per amore della sua ineffabile famiglia, torna a fare il delinquente, ma mal gliene incoglie poiché un proiettile sparato dal cassiere del supermercato lo uccide stroncandogli con la vita le più belle speranze. Al suono di un sirtaki la donna e il ragazzino andranno verso quella libertà che così cara è costata.
La profonda ed oscena immoralità del tutto ruota attorno ad una frase che la ragazza urla a lui piangendo al colmo di una scena disperata, dopo che l’assistente sociale le ha negato il figlio: «Capisci, io per loro non ho il diritto di essere madre!» Il suo idiotissimo ganzo a quel punto si commuove determinando la sua fine, invece di rispondere, come avrebbe dovuto, che in quelle condizioni nessuno dei due poteva vantare il diritto di essere padre o madre. Infatti nessuno può dirsi padrone di un ragazzino, neppure per portarselo, come un fagotto al di là dell’Adriatico. I bambini non basta metterli al mondo: bisogna anche conquistarsi il diritto di tenerli con sé ed educarli. Per fortuna quasi più nessuno si scandalizza al cinema per scene audaci o per nudi lascivi, però purtroppo e ce lo ha confermato l’atteggiamento degli spettatori in sala con noi, nessuno neppure si scandalizza quando si rappresenta il degrado della dignità umana, ammiccando complicemente ai peggiori sentimenti: la schiavitù esiste ancora e può anche prendere l’aspetto di un rapporto perverso tra madre e figlio. La recitazione dei due attori protagonisti, Stefano Dionisi ed Antonella Ponziani, ci è sembrata fin troppo spontanea ed efficace, ma la cosa va solo a loro merito. Chi ha tutto il demerito è il regista che sfruttando ancora una volta la melassa neorealistica cerca di convincere dell’anticonformismo di una vicenda che più appiccicosa e retorica non potrebbe essere, aiutato da una suggestiva e patinata fotografia di Bruno Cascio. La musica di Domenico Scuteri e Corrado Rizza invece manca di astuzia e scade sfasciandosi completamente nel motivetto finale grecizzante e neo-ruffiano.

86 – Ottobre ‘92

giovedì, 1 ottobre 1992

Che i Farfalloni siano bizzarri tutti lo sanno. Questa volta, nella loro bizzarria, vogliono che lo spazio normalmente dedicato ad una recensione musicale, sia riservato ad alcune osservazioni su di un artico letto che Giovanni Carli Ballola ha pubblicato su L’Espresso dell’11 ottobre appena trascorso: «Tutti scrivono musica (…). Musica troppa per poche orecchie (il suo pubblico non fittizio è pur sempre quello che tutti sanno)… Si aggiunga il fatto che i Puccini anni ‘20, i Petrassi anni’ 50, i Berio anni ‘70 della situazione tardano a saltar fuori in questi anni ‘90, che non è pessimistico definire di vacche magre».
Da una parte quello che il critico scrive ci ha fatto piacere. Poiché ci occupiamo anche di psicoanalisi ci divertiamo non poco a trarre profitto da questa scienza, per cui non ci sfugge come le parole che Egli dedica alla musica dei nostri giorni rifletta una così livida invidia dietro la quale non si farebbe fatica ad ipotizzare ben altro. Ci si farà giustamente notare che il nostro è un colpo un po’ scorretto, però: à la guerre come à la guerre. E non sfugge a nessuno che questa sia la solita vecchia guerra tra i vecchi parrucconi e gli ingenui e forse un po’ sciocchi che cercano instancabilmente di lottare perché qualcosa si muova in avanti, nel campo artistico in generale ed in quello musicale in particolar modo. Il disprezzo che Ballola dimostra per l’impegno di compositori, interpreti ed organizzatori colpevoli solo di cercare i modi di continuare a fare musica è pari alla piaggeria che è pronto a profondere in onore del Grande Evento, che lascia tutti e anche noi rapiti, in cui il Grande Esecutore interpreta il Grande Vecchio Autore. Noi crediamo però che sarebbe doveroso per chi si occupa professionalmente di musica mostrarsi meno spocchioso ed aridamente offensivo verso chi con fatica lotta anche per cercare di dare alla musica di oggi un pubblico «non fittizio» per cui valga la pena di continuare a produrla. Petrassi e Berio (grandissimi compositori) si sono realizzati in un passato se pur recente e restano i Maestri cui dobbiamo guardare e il cui insegnamento non deve andare disperso. Tutta l’arte che si produce, e anche la musica, costa grandi sforzi, intellettuali certo, ma anche pratici a chi crede nel dovere culturale di diffonderla. Noi che crediamo che la musica non sia morta e che per dimostrarne la vitalità non risparmiamo sforzi in unione coi molti che per fortuna la pensano così: autori, interpreti e critici, sappiamo quanto caro sia il prezzo di questo entusiasmo. Ci sentiamo però orgogliosi quando vediamo per tre sere consecutive la basilica di S. Maria Maggiore gremita per gli «Incontri di Musica Sacra Contemporanea». Certo sappiamo che la pretesa di non fare musica solo per gli addetti ai lavori, suona come un demerito per il Critico Snob al quale non importa che agli «Incontri» si siano sentiti risuonare i linguaggi musicali più diversi, senza pregiudizi verso autori italiani e stranieri che hanno avuto la gioia, invero rara, di una risposta entusiastica da parte di un pubblico desideroso di conoscere per capire e di capire per apprezzare. Continueremo ad organizzare manifestazioni musicali: concerti di ogni tipo, di musica di ieri e di oggi, con interpreti famosi e sconosciuti per dare modo a tutti quelli che hanno buona volontà di cogliere nel suo significato un discorso che accomuna Bach a Hindemith, Messiaen a Haendel e costoro a quei giovani autori di oggi che ci chiedono di essere ascoltati. Si scrive molta brutta musica, proprio come si scrivono libri bruttissimi. Questo è vero oggi come lo è stato nel passato. Il lavoro solidale di musicisti, studiosi e critici può servire anche a costituire i criteri di giudizio, senza cadere nella trappola della saccenza codina di chi giudica il presente senza volerlo davvero conoscere. L’invidia per la vitalità della musica d’oggi può essere davvero un brutto sentimento, peggio ancora se accompagnata da un generico rimpianto del bel tempo che fu.
Noi cercheremo di non cadere neppure nell’errore opposto: faremo musica mettendo a diretto confronto passato e presente e speriamo che sarà proprio la risposta del pubblico a dire che l’offerta, ben lungi dall’ essere «straripante e diffusa» è stata troppo scarsa di occasioni che non si risolvessero in parate di stelle il cui splendore è spesso determinato più dal pregiudizio che dal giudizio di qualche Critico che ha paura di confrontarsi col nuovo.

86 – Ottobre ‘92

giovedì, 1 ottobre 1992

Fino all’altro ieri i due Farfalloni erano assolutamente convinti di non essere razzisti. In un’afosa mattina dell’ottobre romano la nostra certezza è vacillata e di cui siamo profondamente mortificati e domandiamo perdono agli Dèi. Il fatto è che, dopo aver visto la mostra di arte scandinava al Palazzo delle Esposizioni non siamo riusciti a trattenere un’esclamazione all’unisono: «Ma questa è una cultura inferiore!» Inorridiamo noi stessi di ciò che ci è scappato di bocca e lo confessiamo anche per espiare. Subito dopo abbiamo pensato a Grieg e a Sibelius e ci siamo rincuorati, ma non tanto da giustificare le stupidaggini che abbiamo visto offendere le sale, peraltro neppure troppo sacre, del palazzo di via Nazionale e ci siamo rammaricati che le renne e le aurore boreali non abbiano insegnato niente ai moderni rappresentanti dell’ arte di quei paesi. Scherzi a parte, ci sembra che la parte dedicata alle arti visive di questo complesso di iniziative che vorrebbero celebrare la cultura nordica si limiti a portare alla nostra conoscenza esempi soltanto ripetitivi di un percorso artistico già troppo visto ovunque, per di più attraverso pitture o allestimenti decisamente scadenti. Noi speriamo che questi Aspetti dell’esperienza nordica nell’arte,1890-1990 non rendano giustizia alla re alta culturale di un area geografica tanto vasta, la cui realtà non è forse legittimo sintetizzare così brevemente. Un frizzo di interesse ci è venuto dalla scoperta di un quadretto di August Strindberg, Il fiore sulla spiaggia (1892), un olio su lamiera dominato da un azzurro glaciale di cielo e di mare. Perduta poi ci sembra l’occasione di rivendicare l’appartenenza di un artista come Edward Munch ad una precisa area geografica e culturale, limitandone la presenza in mostra ad un Paesaggio del 1919, che, così isolato, non riesce a dare conto di alcun significato artistico, culturale e tanto meno geografico.

È veramente delizioso avere il coraggio di prendere una matita e viaggiare per il mondo, disegnando quello che si vede. Secondo noi la fotografia è un’ arte nobilissima, anche se i giapponesi sono riusciti a farcela odiare; ma resta il fatto che preferiamo i disegni.
Gli appunti con la matita di Kokoschka presi durante I viaggi in Italia tra il 1948 e il 1963 esposti in Campidoglio, sono immaginette commoventi ed esaltanti. Il suo tratto robusto ed incisivo, la sua capacità di osservazione, acuta e profonda, rendono la storia dei suoi viaggi e delle sue riflessioni come meglio non si potrebbe. C’è chi pensa che questo debba essere un privilegio riservato a chi si chiama Kokoschka, o giù di lì; tuttavia noi invitiamo tutti a viaggiare portandosi appresso, magari insieme con la macchina fotografica, un taccuino per disegni, anche se non è detto che finiscano per certo in Campidoglio. Quello che si vede esposto al Palazzo dei Conservatori è solo una parte minima del contenuto di numerosissimi album e i curatori hanno scelto di mettere in mostra soprattutto i disegni ispirati ad opere d’arte e monumenti; ma a fianco di schizzi che rielaborano e riflettono sui Prigioni di Michelangelo capita di vedere abbozzato un cespuglio di Cardi ad indicare che il presente e il paesaggio naturale sono osservati con attenzione da un viaggiatore, sempre pronto a cogliere gli stimoli offerti anche per caso.
L’aver usato soltanto matite colorate dà a tutti i fogli un sapore di rapida impressione e una vivacità senza prosopopea anche nei confronti delle fonti più suggestive della classicità romana e della Magna Grecia o del Rinascimento fiorentino.

86 – Ottobre ‘92

giovedì, 1 ottobre 1992

Nel 1992, come tutti sanno, ricorre il bicentenario della nascita di Gioacchino Rossini. Pur senza averlo consapevolmente scelto ci siamo trovati in mano molte pubblicazioni più o meno celebrative del grande musicista pesarese. Noi adoriamo la sua musica, teatrale e non, e pur senza tentare apologie vorremmo parlare di due pubblicazioni che lo riguardano. Il volume di Adriano Bassi, Gioacchino Rossini (Franco Muzzio Editore, 1992, pagg. 295, Lit. 30.000) è un’opera che può tornare molto utile ai non musicisti che desiderassero affrontare la conoscenza della musica di Rossini. La scrittura è semplice, talvolta quasi sciatta: pianamente l’autore cerca di raccontare di Rossini tutto quello che si dovrebbe sapere; ma la sua analisi musicale non risulta molto approfondita ed egli si avvale continuamente e bisogna dire proficuamente di citazioni, che rimpinguano le sue pochissime personali argomentazioni e finiscono col dare un buon panorama dell’ opinione critica intorno a Rossini nell’ultimo secolo e mezzo. Questa scelta permette quindi di venire a conoscenza di opinioni non solo ovvie intorno al musicista e al significato della sua musica.
L’argomento generale è suddiviso in capitoli che rappresentano quasi dei dipartimenti. Si va dalla «Vita» a «L’uomo Rossini», il terzo capitolo affronta la sua «Evoluzione e personalità musicale» per passare nel successivo alla «Produzione musicale»; seguono alcuni «Medaglioni» che mettono a confronto il Cigno di Pesaro con colleghi quali Wagner, Beethoven, Berlioz, von Weber e persino Satie. Dopo aver passato in rassegna le «Opinioni della critica del tempo» l’ autore ci porta a conoscenza di quello che «Dicono di lui» critici e musicisti di oggi.
Concludono il lavoro alcune «Lettere dal fronte musicale» e una rassegna di «Voci rossiniane e cantanti celebri tra il 1700 e il 1900». Buona la bibliografia e discreta la discografia essenziale.
Un solo grande difetto noi riscontriamo nel complesso: un tentativo psicologistico di affrontare la musica e il musicista con il quale non siamo per niente d’accordo. Minor difetto, ma ingeneratore di confusione, è il modo in cui sono riassunte le trame dei libretti delle opere rossiniane: già le vicende librettistiche sono di per sé insensate, ma qui se ne fa una sintesi quasi scriteriata.

La raccolta delle Lettere di Rossini, curata da Enrico Castiglione (Edizioni Logos, 1992, pagg.327, Lit.25.000) è la riproposizione moderna dell’ edizione fiorentina del 1902 a cura di G. Mazzatinti e F. e G. Manis, che noi ammettiamo di non avere mai letta se non frammentariamente nella letteratura rossiniana che vi ha fatto così spesso ricorso. La lettura di queste poco più di trecento epistole ci ha procurato molta sofferenza e una profonda delusione. Da queste lettere emerge un Rossini non soltanto quasi analfabeta, ignorante e volgare, ma anche totalmente incompetente nel giudizio musicale. Parla della sua arte come farebbe un musicista dilettante ad orecchio, sembra non conoscere il contrappunto, la melodia e l’armonia, ma soprattutto sembra non sapere nulla di composizione. Il pesarese risulta dal suo carteggio una persona viscida e melliflua, che sa trattare solo di raccomandazioni mafiose, problemi di cassa spicciola, oltre che di tortellini, tartufi ed olive. Dopo tale disperante lettura ci siamo immersi con rabbia nell’ascolto della Donna del lago, del Barbiere di Siviglia, del Guglielmo Tell, dello Stabat Mater e dei Péchés de vieillèsse.
Così Rossini, nel nostro cuore, è risorto, intatto, perfetto e stupendo: originalissimo e splendido contrappuntista, autore di melodie inarrivabili, armonizzate come meglio non si potrebbe immaginare, ed anche orchestratore sublime. Per noi questo è Rossini e le sue lettere sarebbe meglio averle buttate nella spazzatura. Quello che non riusciamo a recuperare è il «tartufismo» di Castiglione che ha l’empio coraggio o meglio la vigliaccheria di paragonare queste letteracce alle splendide pagine dell’epistolario di Mozart.

86 – Ottobre ‘92

giovedì, 1 ottobre 1992

Non vi consigliamo di andare al ristorante Rélais La Piscine all’Hotel Aldrovandi, in una sera di pioggia, come e invece capitato a noi: il luogo è lugubre, immerso nell’ insopportabile odore di orina proveniente dallo Zoo antistante, il palazzo spettrale ricorda un condominio di Centocelle. Nessuno vi accoglie sull’uscio, i portieri dell’ albergo vi indicano con malagrazia il ristorante che, dopo aver girovagato per cunicoli deserti troverete presentarsi ai vostri occhi, consistente in una brutta sala arredata in modo dozzinale, in cui si aggirano pseudo-camerieri dall’aria simpaticamente complice quanto inefficienti. Un disperato cantore sussurra canzonette anni settanta accompagnandosi al pianoforte e dal vostro tavolo attraverso orrendi oblò vi si mostra la piscina desolata. La speranza sarebbe di consolarsi mangiando e bevendo, ma così non è. A noi è capitato di iniziare col solito scipito prosecchino, dopo il quale subimmo l’aggressione della più sdatata nouvelle cuisine. Un salmone con crema di formaggio veramente insulso se pure passabile, un’asciuttissima trancia di tonno spadellato e un calamaro farcito da chissà cosa costituirono i piatti d’apertura, ai quali seguirono spaghetti all’ aragosta scotti che assurdamente accoppiavano il crostaceo ad un prevaricante sentore di finocchio; poi ravioli di pesce al burro di capperi e prezzemolo, la cui consistenza tendeva all’omogeneizzato eccetto che per l’inaccettabile durezza della pasta troppo spessa. Seguirono due secondi piatti poco esaltanti: un agnello pré-salé con misticanza di funghi, dalla carne rinsecchita, sommersa da un eccesso di incongrui grani di pepe e accompagnata da un misto di veramente poco nobili funghetti miserabilmente viscidi; con cui faceva il paio una quaglia ripiena di un assortimento ortofrutticolo le cui essenze tra loro stridenti provocavano il curioso e non appetitoso effetto di un bancone di profumeria. La torta al cioccolato era un’ accozzaglia dissociata di ingredienti male amalgamati sovrastati da un eccesso di brandy e la crème brulée al caffé era proprio «bruciata»! Dalla carta dei vini nella quale apparivano anche discreti crus francesi, ma povera di buone etichette nazionali, abbiamo scelto un Mueller Thurgau di Colutta, servito a giusta temperatura, dal buon profumo di ribes, forse poco adatto al pesce, ma per colpa del nostro incauto abbinamento e un Refosco della stessa Casa, scintillante e trasparente nel suo brillante color rosso rubino, con gradevole sensazione di prugna.
Tra i super-alcolici abbiamo avuto la negativa esperienza di un orribile Armagnac dal sapor d’acqua fresca al palato e bruciante di alcol in gola. Noi da tempo ci auguriamo che svaniscano le tracce della nouvelle cuisine, qui dobbiamo purtroppo registrare che ciò è avvenuto per le porzioni: malauguratamente fin troppo abbondanti. Fatte tutte le considerazioni del caso, tenuto conto della promozione favorevole e dei requisiti di categoria, dobbiamo dire che troviamo una politica dei prezzi che non è solo eccessiva, ma è addirittura smodata.

86 – Ottobre ‘92

giovedì, 1 ottobre 1992

A noi piace pochissimo il teatro di Pirandello: lo troviamo sovraccarico di liti e discussioni piccolo-borghesi. Oggi frasi del tipo: «sono stata tua, sono nel fango», «sei stata mia» non contano più nulla. Mentre gli stupendi squassamenti emotivi della mitologia antica che fanno parte del nostro inconscio sociale ci coinvolgono, invece poco ci importa dei tradimenti della signora De Rossi o dei tormenti del ragionier Bianchi.
Questo è il preconcetto che si frappone tra noi e Pirandello anche se non escludiamo che tra trecento anni qualcuno potrà trovare interesse a certe stupidissime storie. Secondo noi il difetto principale del suo teatro è comunque 1′assoluta mancanza di poesia: la sua scrittura scenica si risolve in un’accozzaglia di dialoghi squallidamente realistici, infarciti di una filosofia che ormai è venuta a noia: la filosofia del «così è se vi pare». In genere tutti i personaggi delle sue scipitissime storie si pongono il problema del: «chi sono, chi sei, io sono io ma anche te e tu potresti essere me» e vanno in giro in cerca di un autore che, purtroppo, trovano sempre.
Prima di affrontare il commento al Vestire gli ignudi messo in scena al teatro del Vascello da Marco Parodi, per l’interpretazione di Manuela Kustermann e Paolo Graziosi, ci viene di fare una considerazione: qualche tempo fa abbiamo letto l’osservazione di un critico letterario che ribadiva come tutti i romanzieri non facciano in fondo che scrivere sempre lo stesso romanzo.
Ciò vale secondo noi anche per gli autori di teatro che finiscono per scrivere anche loro sempre la stessa commedia; a maggior ragione ciò è vero per Pirandello nelle cui commedie si ripete sempre lo stesso meccanismo: per un’ora e mezzo annoia mortalmente gli spettatori con discussioni da tinello per poi alla fine, col suo gioco della verità, giungere a costruire «chiacchiere» che, tutto sommato, un pochino coinvolgono davvero. In questa opera invece si può indovinare il tentativo di liberarsi dal solito schema, affidando all’istitutrice Ersilia Drei il compito di enunciare una verità condivisa anche dall’autore. La povera donna, preda tra gli artigli di un console spietato, vittima di un fidanzato traditore e di uno scrittore cinico, vuole finalmente indossare un «abitino dignitoso», anche a costo della vita. La sua verità pare piuttosto semplice: la bambina che custodiva è morta per una sua distrazione di cui si assume la colpa; però il padrone, il fidanzato opportunista e lo scrittore pruriginoso le ruotano attorno raccontando le loro esplicite menzogne nel tentativo di difendersi dalle quali la donna finisce per rivelarsi uguale ai suoi persecutori, ignobile e disonesta come loro e la sua ammissione di vittima di una passione che la travolse solo coi sensi ma dalla quale rifuggiva con la ragione appare falsa. Nonostante Pirandello cerchi di trovare in lei la sua eroina, lo spettatore non può fare a meno di vederne tutta la desolazione che rende la presunta vittima non migliore dei suoi aguzzini. E’ vero che un grande scrittore può coinvolgere chi legge pur raccontando le peripezie di una farfalla, mentre Pirandello annoia lo spettatore che assiste ai suoi drammi borghesi. Noi non riusciamo a capire perché grandi e piccoli attori e grandi e piccoli registi si ostinino a metterlo in scena; tanto che pensiamo che il torto sia nostro e che il siciliano sia meglio di quanto noi crediamo. Quest’ultimo allestimento ci è sembrato comunque particolarmente poco felice: la regia di Parodi era inesistente e lasciava gli attori seguire i loro deliri, indipendentemente gli uni dagli altri, in una scenografia firmata da Sergio Tramonti miserabile e scostante. Le musiche di Germano Mazzocchetti riuscivano ad essere allo stesso tempo insulse e sgradevoli, andando da melodiuzze di accordéon di Montmartre, a melopee orientaleggianti più adeguate ad accompagnare una danza del ventre che i contorcimenti tutti cerebrali dei personaggi.
Nella loro totale mancanza di coordinamento gli interpreti sono stati tutto sommato capaci di esprimere una professionlità più che dignitosa: Manuela Kustermann, platinatissima e curiosamente perfetta per un personaggio di Tennessee Williams, si è prodigata fino a strapparsi le viscere, ma non è riuscita ugualmente a commuovere, forse proprio per la risibilità del personaggio di Ersilia. Paolo Graziosi ha prodotto con grevità azzeccatissima un console Grotti banalmente apprezzabile. Paolo Poiret ha onestamente lavorato riuscendo a rendere dovutamente antipatica la figura dello scrittore Nota. Paolo Musio si è doverosamente limitato a colorire di ottusa stupidità il giqvane fidanzato Laspiga. Marco Prosperini ha: dato al giornalista Cantavalle i toni ignobili e cialtroni che ci si attendeva. Un piccolo gioiello di efficacia è stata Simona Guarini, una insopportabile padrona di casa impicciona, forse solo un po’ monocorde. Il pochissimo pubblico ci è parso, come noi, sufficientemente annoiato.