Archivio di febbraio 1991

70 – Febbraio ‘91

venerdì, 1 febbraio 1991

E’ ripugnante che si debba parlare di guerra. Inoltre è ancor più ripugnante constatare quanto la realtà odierna abbia reso ambiguo ogni discorso di pace. Al di fuori di una logica perversa, a nessuno – credo – verrebbe in mente di difendere la guerra; oggi la perversione ha trionfato: si valuta e si dibatte sulla legittimità di una risposta violenta ad una provocazione insensata. Ripugna dover prendere una posizione, sapendo che non si possono prendere posizioni senza che questo comporti /’indifferenza per il dolore di qualcuno, la prevaricazione di qualche fondamentale diritto ad esistere. La guerra non può mai essere una guerra giusta, né tanto meno una guerra santa, e quando sembra che ci siano le ragioni che non solo la giustificano, ma che la rendono inevitabile, si trasforma nel più ingiustificabile dei massacri: ci sarà mai una giustificazione valida per i milioni di morti della seconda guerra mondiale? Eppure mai ci fu una così netta divisione di campi: da una parte il bene e dall’altra il male del nazismo. L’amore predicato dal Cristo e la non violenza in tempi moderni teorizzata da Gandhi si sono rivelati essi stessi principi insufficienti: per amore si può dover uccidere, con la non violenza si può lasciare che qualcuno muoia. Così sembra la vita il bene supremo, da difendere sempre; ma fino a che punto? La vita di chi? La vita per cosa? Che vita? Si ritorna dunque alla necessità di operare scelte che non possono e non debbono avere un valore assoluto, ma che hanno il significato di uno schieramento che può solo essere effimero. Questa guerra non doveva essere fatta. Questa non è la guerra dei popoli per la difesa di un diritto calpestato: questa è una punizione inflitta a noi tutti, che risponde ad una prepotenza che noi tutti abbiamo subito. Questa volta non c’è il buono e il cattivo: siamo tutti colpevoli di aver taciuto sino al due agosto dello scorso anno; quando la brutalità di un gesto senza scrupoli ha reso ineludibili le pendenze accumulate da Yalta in poi. In realtà non c’è nulla di nuovo in questa guerra: è la stessa guerra che continua a devastare il mondo: dalla Corea al Vietnam e all’Afganistan, dal Sinai alla Cisgiordania, da Panama a Grenada, dalle Malvine a Beirut. La sola cosa nuova è forse la nostra paura; o l’evidenza, che i mezzi di comunicazione di massa hanno reso flagrante, di un sadismo che abbiamo sempre coltivato nella nostra ignobile riservatezza e che ora è così pubblico da essere diventato universale. Oggi qualcuno ha mascherato la sua paura con il belletto del pacifismo, altri l’hanno travestita con la corazza adamantina del giustiziere. Domani i sopravvissuti potrebbero con facilità scambiarsi i ruoli, in occasione della guerra successiva. Le prese di posizione di principio – abbiano esse motivazioni nobili o ignobili – oggi non possono essere che la passiva adesione a volontà che non sono più nostre. L’amore, la pace tra i popoli sono valori ed esigenze universali, che non possono sussistere in un mondo che vede le differenze come schieramenti contrapposti, le identità come nazionalismi, il progresso come colonizzazione, la sicurezza come imperialismo. Questa guerra – che è incominciata molto prima del quindici gennaio millenovecentonovantuno – deve finire subito; ma davvero e non con un trattato che sancisca, un ‘altra volta, una spartizione.

70 – Febbraio & Marzo 1991

venerdì, 1 febbraio 1991

Per i Pomeriggi Musicali all’Auditorium del Foro Italico si è tenuto venerdì 15 febbraio un concerto diretto da David Robertson, con la partecipazione del pianista Michele Campanella.
Il primo brano in programma era Jeu de cartes, di Igor Stravinsky. Variazioni su di un tema non realmente musicale, ma ripescato nella memoria; una voce lontana che dice: «Un nuovo gioco, una nuova fortuna!» Questa nostalgia sensuale pervade tutto il brano: un bambino che ricorda antiche suggestioni e, divenuto adulto, ne fa un balletto. Proprio per questo il tema fondamentale, che viene chissà da dove, è variato con estrema tenerezza: i fiati hanno sempre il sopravvento, turgidi ed ingenui; gli archi li seguono senza arrancare, con un po’ di mestizia. È un gioco sul gioco delle carte che è anche un gioco di personaggi. La prima «mano» ha inizio con un dialogo sbriciolato, la cui esecuzione peraltro ci ha lasciato perplessi per l’imprecisa intonazione dei flauti; le sonorità disarticolate delle successive due «mani» erano ben guidate dal direttore, anche se il tutto è risultato un po’ monotono.
Il Concerto n. 1 in re bemolle maggiore, op. 10, per pianoforte e orchestra di Sergei Prokofiev ha rivelato tutta la grandezza e i limiti di Michele Campanella. Noi siamo acerrimi nemici di tutti i giochi metafisico-orientaleggianti che sovrappongono destino, segni zodiacali e nome, però siamo assolutamente esterrefatti del sopravvento che il cognome ha su questo esecutore. Le campane sono ricche di armonici, a poco controllabili, un po’ rigide e obbediscono soltanto ad un tocco sicuro ed autoritario. Sfumature e coloriti sono loro legati: la nota è quella, precisa, tintinnane, assoluta. Le campane e Campanella adorano i glissati, ma detestano cantare e soprattutto non fa parte del loro orizzonte musicale il tempo rubato e sghembo. Michele Campanella ha proprio suonato così: genialmente sbalorditivo, ma irritantemente limitato; veniva proprio voglia di dirgli: «Sbaglia almeno una volta, per farci capire che sei un essere umano!» Dopo il buon inizio d’insieme, sin dalla prima progressione il solista ha rivelato la sua eccezionale tecnica, che ci ha permesso di apprezzare i cambiamenti di colorito, anche se un po’ bruschi; il bel momento di romantico dialogo disteso tra pianoforte ed orchestra ci ha fatto quasi dimenticare il meccanicismo della parte solistica; attraverso un inserto ironico molto variopinto l’esecuzione è approdata ad un finale ben amalgamato, pieno e compatto.
Ultimo brano in programma era il Così parlò Zarathustra di Richard Strauss. L’orchestra ha aperto con bel piglio fin dai primi squilli di tromba, con i colpi dei timpani sul lungo «pedale» dei bassi. Dopo la buona resa della parte misteriosa e meditativa, Robertson ha saputo anche danzare con gustosa allegria controllando bene la suntuosa magniloquenza del brano.

70 – Febbraio & Marzo ‘91

venerdì, 1 febbraio 1991

A Palazzo Braschi viene rappresentata in questi giorni la mostra Impronte dedicata all’opera di Paolo Guiotto. I suoi lavori sono partiti come tentativi pittorici a cui la pittura si è ribellata, trasformando quasi indipendentemente dalla volontà dell’artista, la bidimensionalità prima in tridimensionalità e poi ancora in ricerca: indagine sul senso del vuoto e del pieno, dello spazio e della concretezza. Lungi da noi l’idea di affrontare un’altra volta il dibattito obsoleto del rapporto tra disegno e scultura: ci ripugnano ormai queste vecchie querélles assolutamente inutili che lasciano il tempo che trovano. Ogni essere umano, quando si vuole esprimere, sceglie quello che gli è più vicino. Tutto il resto è soltanto chiacchiera accademica.
In questa sua antologica Guiotto ha costruito con le mani, con una irresistibile sensualità materica, il suo bisogno di dire, di parlare del mondo, dell’universo e delle piccole cose; pascoliano e dannunziano allo stesso tempo. La materia è per lui sempre presente, nella sua concretezza sensuale, col desiderio di esistere e di farsi percepire. Noi non pensiamo che la scultura si possa solo vedere: si può anche toccare;
ripercorrendo con le mani il lavoro sensuale dell’artista e il suo bisogno di sentire e di farsi sentire.
Qui il mondo è rappresentato con una cifra classica ed universale; quello degli antichi Eleni e le piramidi degli Atzechi si mescolano a considerazioni filosofiche contemporanee: il mondo è questo, potrebbe anche essere altro. E poi ancora: tenere connotazioni quotidiane legate all’amore, al desiderio, alla fantasia. La materia si raggruma: il bronzo, il marmo e il segno grafico addirittura si estrinsecano in un’esigenza li concretezza. La parola è oltre il gesto, la una sua solidità innegabile e può essere sintetizzata in una lampadina, una scalinata, una meridiana, nell’articolazione di una mano.
Paolo Guiotto si offre all’approccio come un esoterico, di quelli che dell’universo leggono i segni affollati e molteplici in un’ansia di comprensione che non può trovare appagamento nel breve volgere di una vita o di un’epoca e di questa condizione è testimone una grafica sovrabbondante e babelica, anche quando si traduce in cabale cesellate e scavate sulla quadrangolari superfici di bronzo di Spaeculum Aevi oppure di Architetture di primavera; ma poi il suo umanesimo si sublima nei marmi bianchi di Oreste ed Elettra de La Luna o La Terra, nel nero maschile de Il Sole o il niveo corpo di Mimi il cui antropomorfismo, sempre sensuale, si carica di forza simbolica, nel bisogno di chiarire l’intreccio del gioco incessante e pericoloso tra il maschio e la femmina. La mia mano nella mano del poeta è un autentico monumento alla memoria di una voce che ancora sorregge lungo un cammino che l’assenza del compagno rende così periglioso.
Il Crocifisso per la chiesa di S. Antonio ad Assago dà di questo umanesimo l’espressione religiosa e dolente; mentre Il corpo assente grida senza pudore il dolore per la presenza che si è dispersa forse per sempre, per l’abbraccio di un amore che è stato vivo e che ora è solo ricordo che non può essere distrutto per quanto lancinante. Non è comunque, l’opera di Guiotto, esauribile in un autobiografismo per quanto nobile; ma si fa comunicazione per chi abbia in sé voglia di ascoltare o bisogno di parlare.

70 – Febbraio & Marzo ‘91

venerdì, 1 febbraio 1991

Il libro di Salomon Resnik, Spazio Mentale (ed. Bollati Boringhieri, pp. 111, Lit. 25.000, 1990), si articola in sette lezioni, tenute alla Università Paris VII, tra l’ottobre 1987 ed il giugno 1988. È una serie di riflessioni, su alcuni casi, che oscillano tra il fantasioso, l’acuto, l’ingenuo ed il metodologicamente ambiguo.
Molto presente è la figura di Melaine Klein e ancor più, anche se più sotterraneo, lo sproloquiare intuitivo-rozzo di Bion, che alterna assolute ovvietà ad osservazioni significative. Certo Bion è un disastro per gli psicoanalisti presuntuosi. Per fortuna Salomon Resnik lo è assai poco, o comunque riesce a tenere abbastanza a freno i propri deliri di potenza. Con un linguaggio piano, presenta i propri pazienti con onesta umiltà e persino con un po’ di affetto. Il lavoro qui esposto è quasi tutto con psicotici, difficilissimi da trattare perché continuamente sfuggenti in moduli espressivi sempre troppo elementari e di una fasulla semplicità. Ogni essere umano ha però una buona dose di poesia dentro di sé, ed il buon terapeuta è proprio colui che non si lascia invischiare nei balbettamenti metafisico irrigiditi del paziente. «Tu hai bisogno di indurirti, di indossare un’armatura, ma se questa non si apre, la durezza potrà sciogliersi e potrà colare senza fermarsi, dal tuo naso». Ecco che dagli stereotipi può colare qualcosa di morbido: sciogliersi è il primo passo per disvelare la poesia. Poi, ancora, lo psicotico non riesce a stare con l’altro, ma compie «atletismi» per entrare nell’altro e talvolta impossessarsene. «Vi ho già segnalato che, nei pazienti psicotici, la difficoltà di ‘essere nel mondo’, e dunque con l’altro, stimola meccanismi ‘atletici’ per saltare nello spazio e nel tempo e per entrare nell’altro, nella fattispecie nell’analista» (p. 88) .
La positura scientifico-morale di Resnik è efficace; vi si nota sempre lo sforzo, non di andare oltre le parole, ma di rimanere con le parole sempre insieme al corpo e alle immagini.
Resnik ha ben compreso che se non entra in gioco la sua fisicità e persino i suoi vestiti il lavoro terapeutico non inizia.
La relazione terapeuta-paziente è intrinseca alla psicoanalisi, e questo tutti lo sanno. Però c’è in Resnik il desiderio di dare e avere qualcosa di più. Certo che talvolta, secondo noi, il suo bionianesimo lo porta a delirare un po’ sui pazienti. Meglio, però, il rischio di questo delirio che la frigidità di alcuni terapeuti che ripetono sempre le solite formulette.
Alcuni riferimenti culturali sono un po’ troppo da manuale scolastico. Ad esempio, siamo d’accordo sulla prospettiva che c’è bisogno di uno spazio per pensare, che in questo spazio si organizza una prospettiva, persino nel vuoto, che di fatto non esiste, perché pieno di qualcosa d’altro: «La scoperta della prospettiva in pittura introduce nelle arti plastiche e nell’architettura l’idea di prospettiva interiore. Quando Paolo Uccello, Brunelleschi e Leon Battista Alberti parlano della prospettiva, la metafora che appare è quella dello spazio per pensare, uno spazio abitato da un qualcosa che si muove, l’emozione dell’artista che, come diceva Leonardo, ‘pensa con la sua mano’» (p. 42).
In arte figurativa la prospettiva non è mai sorta, poiché è sempre esistita. Quella dell’umanesimo non è che una delle prospettive: quelle quattrocentesche estraggono la tridimensionalità; quelle precedenti ad esempio, creano rapporti diversi tra gli oggetti, non soltanto espressione di relazioni spaziali, ma raffigurazione dei molti piani della rappresentazione. Così potremmo dire che nel primo caso il pensiero viene nascosto, mentre nel secondo si rivela. Proprio perché la prospettiva è lo spazio della mente essa non può essere sorta in un’epoca!
Infine, continue affermazioni, in tutto il volume, intorno al transfert, ci hanno lasciati perplessi: l’universalizzazione del transfert, che viene a coincidere, con la psicoterapia in senso stretto, risulta essere una scorrettezza metodologica-terminologica. Però potrebbe essere un nuovo modo di intendere la psicoanalisi, cioè uno scambio universale, di tutto, tra paziente ed analista; ma allora la psicoanalisi non è più tale ma diviene confuso-analisi, cioè, analisi della confusione. Bisogna stare a vedere se è possibile curare attraverso l’immersione nel caos. Questa potrebbe sembrare una battuta ironica, ed in parte lo è, però non soltanto. C’è qualcosa in quella confusione che ci suona falso e stonato, ma lontano lontano sentiamo un accordo ben temperato.
Forse questa è una nostra confusione e dovremmo riappropriarci del diapason.

70 – Febbraio & Marzo ‘91

venerdì, 1 febbraio 1991

In piazza Beatrice Cenci sorge un ristorante la cui insegna ci incuriosisce da tempo: Le Donne. Ora ci hanno fornito una versione sulle origini del nome: fino a quattro anni fa il locale si chiamava La taverna di Achille; poi lo comprò una signora con tre figlie che decise di cambiare il none con quello attuale. La sua era anche una scommessa, voleva dimostrare che le donne sono sufficienti a se stesse, anche quando intraprendono una simile impresa;
Di fatto, dopo un anno le quattro donne dichiararono il fallimento e la gestione del posto venne affidata ad un uomo che è tutt’ora alla guida dell’esercizio.
Noi, imperterriti maschilisti, siamo però coretti a riconoscere che la gestione maschile non è poi così superiore a quella femminile: il servizio è approssimativo, i piatti per lo più sono insignificanti ed insipidi il prezzo non è poi così basso!
Gli antipasti tutto sommato sono accettabili, sia quelli alla credenza che comprendono una varietà di verdure gratinate, al forno oppure fresche, sia gli affettati gustosi. I primi piatti, se si ha l’avvertenza di evitare con cura una serie di proposte «alla panna», si riducono a poco: spaghetti al pomodoro e rughetta, o penne all’arrabbiata, entrambi poco più che corretti.
Corretto pure, ma non di più, è l’esile fritto misto con un leggero eccesso di untuosità che mette in evidenza la deplorevole qualità dell’olio. Assolutamente inaccettabile però noi abbiamo trovato tutte le preparazioni di carne: bistecche di pessimo taglio, piuttosto coriacee, viscide scaloppine e lombate al limite dell’accettabilità. Nelle insalate di contorno abbiamo sentito scricchiolare allegramente sotto i denti piccoli ghiaccioli. La carta dei vini di sconfortante banalità ci ha, però a caro prezzo, permesso di gustare il solo vino bianco plausibile: un Gavi della Scolca; mentre dopo aver assaggiato un Chianti classico «I Sassi», di scandalosa artificiosità, abbiamo ripiegato su di un Beaujolais ancora in ottima forma.
L’offerta dei dolci risultava altrettanto sconsolante e la crème brulée che abbiamo assaggiato era eccessivamente bruciata. Là dove manca la conoscenza dell’arte, non è certo il sesso che può fare la differenza.

Nel punto privilegiato in cui via delle Botteghe oscure sfocia sul foro di largo Argentina, mascherato da vetri in stile déco, si cela il Salanova, ristorante pretenzioso, sistemato in due locali molto ampi dall’arredo un po’ ovvio, ma confortevole. Oltrepassata la soglia, però si potrebbe dire: «hic sunt leones». Si sprofonda in un abisso delirante in cui le più elementari regole della convivenza vengono insultate. Béh, possiamo riconoscere che un ornino, aggrappato ai suoi strumenti elettronici suonava disperatamente Guantanamera, forse per coprire il generale «stridor dei denti».
È stata questa una delle più tremende esperienze degli ultimi vent’anni. Noi che siamo passati quasi indenni attraverso involtini primavera carbonizzati, risotti affogati nella panna, profiteroles di marmo, siamo rimasti disgustati ed annichiliti. A tanto dunque possono arrivare le insidie della ristorazione nella Roma dei cesari e dei papi! All’inizio, siamo stati aggrediti da un signorino con barbetta e baffi brizzolati che ha tentato di imporci subito acqua minerale e vino bianco. Assolutamente stupefatto è rimasto quando noi gli abbiamo fatto presente che avremmo preferito consultare prima la carta.
Una nostra ingenua amica ha osato chiedere penne all’arrabbiata e quello l’ha redarguita apocalittico: «Dovrà aspettare venti minuti, perché noi abbiamo soltanto pasta di gran qualità». Gli altri più intimiditi hanno accettato le sue proposte: gli antipasti al carrello erano un cumulo indefinibile di materiale sfatto: il sauté di cozze pareva putrescente, gli gnocchi al gorgonzola erano pallocche di plastica immersi in un liquido viscidume al sapore di pesce.
La profezia si è poi avverata: le penne avevano realmente conosciuto una cottura di venti minuti. Se fosse possibile dirlo, diremmo che i secondi erano ancora peggio: a parte un abbacchio che stupefacentemente era commestibile, abbiamo visto comparire entrecote alla salvia, il cui insulso trito di erbacce copriva pezzi di carne senza sapore; ma il culmine lo ha raggiunto un filetto al ginepro spappolato e dal forte sapore di abbronzante. Il vino della casa era una fresca acqua di Marino, il bianco di Custoza di Venturelli e il Gavi di Filagnotti avevano in più solo un accentuato sentore di tappo.
Qualche attento lettore si e ci chiederà: perché avete bevuto solo bianchi, anche sulle carni? Parrà incredibile, ma quando abbiamo provato a chiedere un rosso ci è stato risposto che non ce n’erano di disponibili, poiché la casa aveva appena riaperto dopo le ferie invernali! Ovviamente non abbiamo osato provare i dolci e abbiamo pagato un conto per fortuna non altissimo, ma avremmo voluto essere risarciti.

70 – Febbraio & Marzo ‘91

venerdì, 1 febbraio 1991

Devo fare un musical di Enrico Vaime e Massimo Bagliani, interpretato dallo stesso Bagliani, con la regia di Mattia Sbragia, andato in scena al teatro Argot alla fine gennaio. È un testo, tutto sommato, godibile; continuamente in bilico tra realismo e surrealismo. Purtroppo le due componenti non sempre si amalgamano come dovrebbero: scivolando l’una nell’altra senza fratture; al contrario accade, per esempio, che l’imperversante mamma telefonica sia televisivamente realistica e metafisicamente improbabile. Il titolo stesso non spiega se il protagonista debba scrivere il testo o la musica, oppure solo interpretare un musical.
Alla fine pare chiarito che egli dovrebbe soprattutto recitarvi. Ma il pretesto irreale per l’unico protagonista che gli permette di cantare e suonare citazioni più o meno brevi di tutta la storia del musical, appena accenna al fatto che egli si stia preparando per un’audizione. Quello che viene fuori è una caleidoscopica, seppur divertente, esplosione di scenette anche musicali. Da tutte le parti poi sbucano etichette pubblicitarie di prodotti igienici o per la casa, detersivi e saponette. Bagliani ne approfitta talvolta con arguzia e altre volte con pesante pacchianeria strapaesana, per piccole vendette autobiografiche verso le botteghe d’arte di questo o quel collega illustre che hanno avuto l’imperdonabile colpa di non eleggerlo ad allievo prédiletto. Come si sarà capito tutto lo spettacolo si regge su un monologo sostenuto dal protagonista con brillante duttilità. Massimo Bagliani riesce, facendo ricorso ai tradizionali ferri del mestiere antico, a rendere più personaggi: cambiando voce, positura, mascherandosi appena ed in ciò gli va riconosciuta una scioltezza non comune. I vari personaggi si susseguono con divertente scorrevolezza, alternandosi al personaggiofilo conduttore: il protagonista è forse Bagliani stesso, bizzarro, simpatico e un po’ sconclusionato. Indubbiamente il testo affastella una grande quantità di ovvi luoghi comuni teatrali: gags iper-scontate, battute risapute da sempre. Bagliani sa anche ballare e suonare (clarinetto e sassofono) ed è assistito nell’impresa da uno stralunato e delizioso pianista-attore, Carlo Boccadoro, che sembra distratto e altrove, e riesce a regalare esempi di straniamento gustosi anche se non sappiamo quanto intenzionali.
Verso la fine, lo spettacolo gira su se stesso, a vuoto, come se gli autori non fossero stati in grado di condurlo alla conclusione, che quando sopravviene ha, secondo noi, il sapore di un Kafka deteriore.
Nelle mani del protagonista non rimane quasi nulla, solo una battuta. È sufficiente per fare un musical?

I Farfalloni hanno un carissimo amico che insegna nella scuola dell’obbligo in un villaggio nei dintorni di Roma. Spesso, mentre sta correggendo i temi dei suoi allievi ci invita a leggerne alcuni; vi si trovano passi esilaranti e profondissimi: sgrammaticature, costruzioni dialettali una dopo l’altra, che però a volte esprimono osservazioni pungenti in modo efficacissimo. Questo al primo sguardo; ma accade che se si insiste nella lettura si trovano cumuli di banalità conformistica, di laido buon senso televisivo, di corriva volgarità malcelata. Ci viene così da riflettere che se questi ragazzetti di oggi diventeranno tal quali gli uomini di domani, povero mondo! Poi ci consoliamo che è sempre andata così: qualcuno – che se la cavi o no – ha capito qualcosa di più, gli altri magari di meno, ma tutti ugualmente hanno fatto la loro parte in quel gran guazzabuglio che gli uomini chiamano storia. La tentazione di pubblicare i più o meno arguti sproloqui di questi degni figli dell’eterna bieca rassegnazione è venuta a molti con diverso successo. Notevole è stato ottenuto dal maestro Marcello D’Orta con il suo libro: Io speriamo che me la cavo del quale, con la collaborazione di Maurizio Costanzo, è stata realizzata una versione teatrale, messa in scena al teatro Parioli con la regia di Ugo Gregoretti. Non basta però che la maggior parte delle battute siano tratte dai temi dei bambini di una quinta elementare della periferia urbana napoletana: il teatro è teatro, non guarda in faccia nessuno, neanche ai bambini. Lo spettacolo consiste in questo: in un’aula piuttosto scalcinata, un non proprio vecchio maestro insegna a cinque bambini dell’ultima classe delle elementari. Di fatto, se ne sta per lo più seduto in cattedra ad ascoltare i suoi ragazzi che uno dopo l’altro, gli leggono (e ci leggono) i temi da loro scritti sui più vari argomenti, limitandosi da parte sua ad osservazioni democratico-conformistiche, di stampo deamicisiano. Il teatro qui proprio non viene fuori. Nella seconda parte c’è un tentativo di teatralizzare il tutto facendo teatro nel teatro, ma dura poco e subito ritorna imperterrita la lettura dei temi che si succedono uno dopo l’altro. Riconosciamo che nella loro prevedibile ovvietà si possono anche apprezzare spunti poetici e acute verità; ma che i bambini non siano solo degli imbecilli ce l’ha già insegnato tanta pedagogia prima e dopo Comenio.
Il gioco un po’ melenso di cui sono colpevoli Platone e Pascoli che hanno scoperto in ognuno di noi un «fanciullino» scopre la verità con occhi sgranati e ingenui, oggi non abbindola più nessuno. Lasciamo la retorica a chi ci sa giocare! I bambini non posseggono il dono della verità, come non lo posseggono gli adulti: sono esseri umani tra gli altri e come tutti, più o meno intelligenti, stupidi, reazionari, sinceri, falsi, poetici e squallidi. Anche dalle frasi dei loro temi però si può imparare qualcosa. Riconosciamo che molti dei testi prescelti – siano o no integri e puri – sono efficaci e coinvolgenti; ma quel che manca, comunque e sempre, nei due atti, è il teatro. I bambini attori, bravissimi e astutissimi, per fortuna mai spontanei sono: Vincenzo Coppola, Michele Fuccio, Filippo Guidotti, Mario Montanaro e Antonio Santoro.
Ugo Gregoretti, che oltre che regista è qui protagonista, è, per una fortunata alchimia perfettamente nella parte: convinto, disincantato e un po’ burocratico, come molti maestri e… molti registi. Citiamo inoltre le scene e i costumi di Francesco Priori, le musiche di Lucio Gregoretti, con al sassofono Giuliano Rosario. Costumista Mariolina Bono.