70 – Febbraio ‘91

febbraio , 1991

E’ ripugnante che si debba parlare di guerra. Inoltre è ancor più ripugnante constatare quanto la realtà odierna abbia reso ambiguo ogni discorso di pace. Al di fuori di una logica perversa, a nessuno – credo – verrebbe in mente di difendere la guerra; oggi la perversione ha trionfato: si valuta e si dibatte sulla legittimità di una risposta violenta ad una provocazione insensata. Ripugna dover prendere una posizione, sapendo che non si possono prendere posizioni senza che questo comporti /’indifferenza per il dolore di qualcuno, la prevaricazione di qualche fondamentale diritto ad esistere. La guerra non può mai essere una guerra giusta, né tanto meno una guerra santa, e quando sembra che ci siano le ragioni che non solo la giustificano, ma che la rendono inevitabile, si trasforma nel più ingiustificabile dei massacri: ci sarà mai una giustificazione valida per i milioni di morti della seconda guerra mondiale? Eppure mai ci fu una così netta divisione di campi: da una parte il bene e dall’altra il male del nazismo. L’amore predicato dal Cristo e la non violenza in tempi moderni teorizzata da Gandhi si sono rivelati essi stessi principi insufficienti: per amore si può dover uccidere, con la non violenza si può lasciare che qualcuno muoia. Così sembra la vita il bene supremo, da difendere sempre; ma fino a che punto? La vita di chi? La vita per cosa? Che vita? Si ritorna dunque alla necessità di operare scelte che non possono e non debbono avere un valore assoluto, ma che hanno il significato di uno schieramento che può solo essere effimero. Questa guerra non doveva essere fatta. Questa non è la guerra dei popoli per la difesa di un diritto calpestato: questa è una punizione inflitta a noi tutti, che risponde ad una prepotenza che noi tutti abbiamo subito. Questa volta non c’è il buono e il cattivo: siamo tutti colpevoli di aver taciuto sino al due agosto dello scorso anno; quando la brutalità di un gesto senza scrupoli ha reso ineludibili le pendenze accumulate da Yalta in poi. In realtà non c’è nulla di nuovo in questa guerra: è la stessa guerra che continua a devastare il mondo: dalla Corea al Vietnam e all’Afganistan, dal Sinai alla Cisgiordania, da Panama a Grenada, dalle Malvine a Beirut. La sola cosa nuova è forse la nostra paura; o l’evidenza, che i mezzi di comunicazione di massa hanno reso flagrante, di un sadismo che abbiamo sempre coltivato nella nostra ignobile riservatezza e che ora è così pubblico da essere diventato universale. Oggi qualcuno ha mascherato la sua paura con il belletto del pacifismo, altri l’hanno travestita con la corazza adamantina del giustiziere. Domani i sopravvissuti potrebbero con facilità scambiarsi i ruoli, in occasione della guerra successiva. Le prese di posizione di principio – abbiano esse motivazioni nobili o ignobili – oggi non possono essere che la passiva adesione a volontà che non sono più nostre. L’amore, la pace tra i popoli sono valori ed esigenze universali, che non possono sussistere in un mondo che vede le differenze come schieramenti contrapposti, le identità come nazionalismi, il progresso come colonizzazione, la sicurezza come imperialismo. Questa guerra – che è incominciata molto prima del quindici gennaio millenovecentonovantuno – deve finire subito; ma davvero e non con un trattato che sancisca, un ‘altra volta, una spartizione.