70 – Febbraio & Marzo ‘91

febbraio , 1991

Devo fare un musical di Enrico Vaime e Massimo Bagliani, interpretato dallo stesso Bagliani, con la regia di Mattia Sbragia, andato in scena al teatro Argot alla fine gennaio. È un testo, tutto sommato, godibile; continuamente in bilico tra realismo e surrealismo. Purtroppo le due componenti non sempre si amalgamano come dovrebbero: scivolando l’una nell’altra senza fratture; al contrario accade, per esempio, che l’imperversante mamma telefonica sia televisivamente realistica e metafisicamente improbabile. Il titolo stesso non spiega se il protagonista debba scrivere il testo o la musica, oppure solo interpretare un musical.
Alla fine pare chiarito che egli dovrebbe soprattutto recitarvi. Ma il pretesto irreale per l’unico protagonista che gli permette di cantare e suonare citazioni più o meno brevi di tutta la storia del musical, appena accenna al fatto che egli si stia preparando per un’audizione. Quello che viene fuori è una caleidoscopica, seppur divertente, esplosione di scenette anche musicali. Da tutte le parti poi sbucano etichette pubblicitarie di prodotti igienici o per la casa, detersivi e saponette. Bagliani ne approfitta talvolta con arguzia e altre volte con pesante pacchianeria strapaesana, per piccole vendette autobiografiche verso le botteghe d’arte di questo o quel collega illustre che hanno avuto l’imperdonabile colpa di non eleggerlo ad allievo prédiletto. Come si sarà capito tutto lo spettacolo si regge su un monologo sostenuto dal protagonista con brillante duttilità. Massimo Bagliani riesce, facendo ricorso ai tradizionali ferri del mestiere antico, a rendere più personaggi: cambiando voce, positura, mascherandosi appena ed in ciò gli va riconosciuta una scioltezza non comune. I vari personaggi si susseguono con divertente scorrevolezza, alternandosi al personaggiofilo conduttore: il protagonista è forse Bagliani stesso, bizzarro, simpatico e un po’ sconclusionato. Indubbiamente il testo affastella una grande quantità di ovvi luoghi comuni teatrali: gags iper-scontate, battute risapute da sempre. Bagliani sa anche ballare e suonare (clarinetto e sassofono) ed è assistito nell’impresa da uno stralunato e delizioso pianista-attore, Carlo Boccadoro, che sembra distratto e altrove, e riesce a regalare esempi di straniamento gustosi anche se non sappiamo quanto intenzionali.
Verso la fine, lo spettacolo gira su se stesso, a vuoto, come se gli autori non fossero stati in grado di condurlo alla conclusione, che quando sopravviene ha, secondo noi, il sapore di un Kafka deteriore.
Nelle mani del protagonista non rimane quasi nulla, solo una battuta. È sufficiente per fare un musical?

I Farfalloni hanno un carissimo amico che insegna nella scuola dell’obbligo in un villaggio nei dintorni di Roma. Spesso, mentre sta correggendo i temi dei suoi allievi ci invita a leggerne alcuni; vi si trovano passi esilaranti e profondissimi: sgrammaticature, costruzioni dialettali una dopo l’altra, che però a volte esprimono osservazioni pungenti in modo efficacissimo. Questo al primo sguardo; ma accade che se si insiste nella lettura si trovano cumuli di banalità conformistica, di laido buon senso televisivo, di corriva volgarità malcelata. Ci viene così da riflettere che se questi ragazzetti di oggi diventeranno tal quali gli uomini di domani, povero mondo! Poi ci consoliamo che è sempre andata così: qualcuno – che se la cavi o no – ha capito qualcosa di più, gli altri magari di meno, ma tutti ugualmente hanno fatto la loro parte in quel gran guazzabuglio che gli uomini chiamano storia. La tentazione di pubblicare i più o meno arguti sproloqui di questi degni figli dell’eterna bieca rassegnazione è venuta a molti con diverso successo. Notevole è stato ottenuto dal maestro Marcello D’Orta con il suo libro: Io speriamo che me la cavo del quale, con la collaborazione di Maurizio Costanzo, è stata realizzata una versione teatrale, messa in scena al teatro Parioli con la regia di Ugo Gregoretti. Non basta però che la maggior parte delle battute siano tratte dai temi dei bambini di una quinta elementare della periferia urbana napoletana: il teatro è teatro, non guarda in faccia nessuno, neanche ai bambini. Lo spettacolo consiste in questo: in un’aula piuttosto scalcinata, un non proprio vecchio maestro insegna a cinque bambini dell’ultima classe delle elementari. Di fatto, se ne sta per lo più seduto in cattedra ad ascoltare i suoi ragazzi che uno dopo l’altro, gli leggono (e ci leggono) i temi da loro scritti sui più vari argomenti, limitandosi da parte sua ad osservazioni democratico-conformistiche, di stampo deamicisiano. Il teatro qui proprio non viene fuori. Nella seconda parte c’è un tentativo di teatralizzare il tutto facendo teatro nel teatro, ma dura poco e subito ritorna imperterrita la lettura dei temi che si succedono uno dopo l’altro. Riconosciamo che nella loro prevedibile ovvietà si possono anche apprezzare spunti poetici e acute verità; ma che i bambini non siano solo degli imbecilli ce l’ha già insegnato tanta pedagogia prima e dopo Comenio.
Il gioco un po’ melenso di cui sono colpevoli Platone e Pascoli che hanno scoperto in ognuno di noi un «fanciullino» scopre la verità con occhi sgranati e ingenui, oggi non abbindola più nessuno. Lasciamo la retorica a chi ci sa giocare! I bambini non posseggono il dono della verità, come non lo posseggono gli adulti: sono esseri umani tra gli altri e come tutti, più o meno intelligenti, stupidi, reazionari, sinceri, falsi, poetici e squallidi. Anche dalle frasi dei loro temi però si può imparare qualcosa. Riconosciamo che molti dei testi prescelti – siano o no integri e puri – sono efficaci e coinvolgenti; ma quel che manca, comunque e sempre, nei due atti, è il teatro. I bambini attori, bravissimi e astutissimi, per fortuna mai spontanei sono: Vincenzo Coppola, Michele Fuccio, Filippo Guidotti, Mario Montanaro e Antonio Santoro.
Ugo Gregoretti, che oltre che regista è qui protagonista, è, per una fortunata alchimia perfettamente nella parte: convinto, disincantato e un po’ burocratico, come molti maestri e… molti registi. Citiamo inoltre le scene e i costumi di Francesco Priori, le musiche di Lucio Gregoretti, con al sassofono Giuliano Rosario. Costumista Mariolina Bono.