70 – Febbraio & Marzo ‘91

febbraio , 1991

Il libro di Salomon Resnik, Spazio Mentale (ed. Bollati Boringhieri, pp. 111, Lit. 25.000, 1990), si articola in sette lezioni, tenute alla Università Paris VII, tra l’ottobre 1987 ed il giugno 1988. È una serie di riflessioni, su alcuni casi, che oscillano tra il fantasioso, l’acuto, l’ingenuo ed il metodologicamente ambiguo.
Molto presente è la figura di Melaine Klein e ancor più, anche se più sotterraneo, lo sproloquiare intuitivo-rozzo di Bion, che alterna assolute ovvietà ad osservazioni significative. Certo Bion è un disastro per gli psicoanalisti presuntuosi. Per fortuna Salomon Resnik lo è assai poco, o comunque riesce a tenere abbastanza a freno i propri deliri di potenza. Con un linguaggio piano, presenta i propri pazienti con onesta umiltà e persino con un po’ di affetto. Il lavoro qui esposto è quasi tutto con psicotici, difficilissimi da trattare perché continuamente sfuggenti in moduli espressivi sempre troppo elementari e di una fasulla semplicità. Ogni essere umano ha però una buona dose di poesia dentro di sé, ed il buon terapeuta è proprio colui che non si lascia invischiare nei balbettamenti metafisico irrigiditi del paziente. «Tu hai bisogno di indurirti, di indossare un’armatura, ma se questa non si apre, la durezza potrà sciogliersi e potrà colare senza fermarsi, dal tuo naso». Ecco che dagli stereotipi può colare qualcosa di morbido: sciogliersi è il primo passo per disvelare la poesia. Poi, ancora, lo psicotico non riesce a stare con l’altro, ma compie «atletismi» per entrare nell’altro e talvolta impossessarsene. «Vi ho già segnalato che, nei pazienti psicotici, la difficoltà di ‘essere nel mondo’, e dunque con l’altro, stimola meccanismi ‘atletici’ per saltare nello spazio e nel tempo e per entrare nell’altro, nella fattispecie nell’analista» (p. 88) .
La positura scientifico-morale di Resnik è efficace; vi si nota sempre lo sforzo, non di andare oltre le parole, ma di rimanere con le parole sempre insieme al corpo e alle immagini.
Resnik ha ben compreso che se non entra in gioco la sua fisicità e persino i suoi vestiti il lavoro terapeutico non inizia.
La relazione terapeuta-paziente è intrinseca alla psicoanalisi, e questo tutti lo sanno. Però c’è in Resnik il desiderio di dare e avere qualcosa di più. Certo che talvolta, secondo noi, il suo bionianesimo lo porta a delirare un po’ sui pazienti. Meglio, però, il rischio di questo delirio che la frigidità di alcuni terapeuti che ripetono sempre le solite formulette.
Alcuni riferimenti culturali sono un po’ troppo da manuale scolastico. Ad esempio, siamo d’accordo sulla prospettiva che c’è bisogno di uno spazio per pensare, che in questo spazio si organizza una prospettiva, persino nel vuoto, che di fatto non esiste, perché pieno di qualcosa d’altro: «La scoperta della prospettiva in pittura introduce nelle arti plastiche e nell’architettura l’idea di prospettiva interiore. Quando Paolo Uccello, Brunelleschi e Leon Battista Alberti parlano della prospettiva, la metafora che appare è quella dello spazio per pensare, uno spazio abitato da un qualcosa che si muove, l’emozione dell’artista che, come diceva Leonardo, ‘pensa con la sua mano’» (p. 42).
In arte figurativa la prospettiva non è mai sorta, poiché è sempre esistita. Quella dell’umanesimo non è che una delle prospettive: quelle quattrocentesche estraggono la tridimensionalità; quelle precedenti ad esempio, creano rapporti diversi tra gli oggetti, non soltanto espressione di relazioni spaziali, ma raffigurazione dei molti piani della rappresentazione. Così potremmo dire che nel primo caso il pensiero viene nascosto, mentre nel secondo si rivela. Proprio perché la prospettiva è lo spazio della mente essa non può essere sorta in un’epoca!
Infine, continue affermazioni, in tutto il volume, intorno al transfert, ci hanno lasciati perplessi: l’universalizzazione del transfert, che viene a coincidere, con la psicoterapia in senso stretto, risulta essere una scorrettezza metodologica-terminologica. Però potrebbe essere un nuovo modo di intendere la psicoanalisi, cioè uno scambio universale, di tutto, tra paziente ed analista; ma allora la psicoanalisi non è più tale ma diviene confuso-analisi, cioè, analisi della confusione. Bisogna stare a vedere se è possibile curare attraverso l’immersione nel caos. Questa potrebbe sembrare una battuta ironica, ed in parte lo è, però non soltanto. C’è qualcosa in quella confusione che ci suona falso e stonato, ma lontano lontano sentiamo un accordo ben temperato.
Forse questa è una nostra confusione e dovremmo riappropriarci del diapason.