70 – Febbraio & Marzo 1991

febbraio , 1991

Per i Pomeriggi Musicali all’Auditorium del Foro Italico si è tenuto venerdì 15 febbraio un concerto diretto da David Robertson, con la partecipazione del pianista Michele Campanella.
Il primo brano in programma era Jeu de cartes, di Igor Stravinsky. Variazioni su di un tema non realmente musicale, ma ripescato nella memoria; una voce lontana che dice: «Un nuovo gioco, una nuova fortuna!» Questa nostalgia sensuale pervade tutto il brano: un bambino che ricorda antiche suggestioni e, divenuto adulto, ne fa un balletto. Proprio per questo il tema fondamentale, che viene chissà da dove, è variato con estrema tenerezza: i fiati hanno sempre il sopravvento, turgidi ed ingenui; gli archi li seguono senza arrancare, con un po’ di mestizia. È un gioco sul gioco delle carte che è anche un gioco di personaggi. La prima «mano» ha inizio con un dialogo sbriciolato, la cui esecuzione peraltro ci ha lasciato perplessi per l’imprecisa intonazione dei flauti; le sonorità disarticolate delle successive due «mani» erano ben guidate dal direttore, anche se il tutto è risultato un po’ monotono.
Il Concerto n. 1 in re bemolle maggiore, op. 10, per pianoforte e orchestra di Sergei Prokofiev ha rivelato tutta la grandezza e i limiti di Michele Campanella. Noi siamo acerrimi nemici di tutti i giochi metafisico-orientaleggianti che sovrappongono destino, segni zodiacali e nome, però siamo assolutamente esterrefatti del sopravvento che il cognome ha su questo esecutore. Le campane sono ricche di armonici, a poco controllabili, un po’ rigide e obbediscono soltanto ad un tocco sicuro ed autoritario. Sfumature e coloriti sono loro legati: la nota è quella, precisa, tintinnane, assoluta. Le campane e Campanella adorano i glissati, ma detestano cantare e soprattutto non fa parte del loro orizzonte musicale il tempo rubato e sghembo. Michele Campanella ha proprio suonato così: genialmente sbalorditivo, ma irritantemente limitato; veniva proprio voglia di dirgli: «Sbaglia almeno una volta, per farci capire che sei un essere umano!» Dopo il buon inizio d’insieme, sin dalla prima progressione il solista ha rivelato la sua eccezionale tecnica, che ci ha permesso di apprezzare i cambiamenti di colorito, anche se un po’ bruschi; il bel momento di romantico dialogo disteso tra pianoforte ed orchestra ci ha fatto quasi dimenticare il meccanicismo della parte solistica; attraverso un inserto ironico molto variopinto l’esecuzione è approdata ad un finale ben amalgamato, pieno e compatto.
Ultimo brano in programma era il Così parlò Zarathustra di Richard Strauss. L’orchestra ha aperto con bel piglio fin dai primi squilli di tromba, con i colpi dei timpani sul lungo «pedale» dei bassi. Dopo la buona resa della parte misteriosa e meditativa, Robertson ha saputo anche danzare con gustosa allegria controllando bene la suntuosa magniloquenza del brano.