70 – Febbraio & Marzo ‘91

febbraio , 1991

In piazza Beatrice Cenci sorge un ristorante la cui insegna ci incuriosisce da tempo: Le Donne. Ora ci hanno fornito una versione sulle origini del nome: fino a quattro anni fa il locale si chiamava La taverna di Achille; poi lo comprò una signora con tre figlie che decise di cambiare il none con quello attuale. La sua era anche una scommessa, voleva dimostrare che le donne sono sufficienti a se stesse, anche quando intraprendono una simile impresa;
Di fatto, dopo un anno le quattro donne dichiararono il fallimento e la gestione del posto venne affidata ad un uomo che è tutt’ora alla guida dell’esercizio.
Noi, imperterriti maschilisti, siamo però coretti a riconoscere che la gestione maschile non è poi così superiore a quella femminile: il servizio è approssimativo, i piatti per lo più sono insignificanti ed insipidi il prezzo non è poi così basso!
Gli antipasti tutto sommato sono accettabili, sia quelli alla credenza che comprendono una varietà di verdure gratinate, al forno oppure fresche, sia gli affettati gustosi. I primi piatti, se si ha l’avvertenza di evitare con cura una serie di proposte «alla panna», si riducono a poco: spaghetti al pomodoro e rughetta, o penne all’arrabbiata, entrambi poco più che corretti.
Corretto pure, ma non di più, è l’esile fritto misto con un leggero eccesso di untuosità che mette in evidenza la deplorevole qualità dell’olio. Assolutamente inaccettabile però noi abbiamo trovato tutte le preparazioni di carne: bistecche di pessimo taglio, piuttosto coriacee, viscide scaloppine e lombate al limite dell’accettabilità. Nelle insalate di contorno abbiamo sentito scricchiolare allegramente sotto i denti piccoli ghiaccioli. La carta dei vini di sconfortante banalità ci ha, però a caro prezzo, permesso di gustare il solo vino bianco plausibile: un Gavi della Scolca; mentre dopo aver assaggiato un Chianti classico «I Sassi», di scandalosa artificiosità, abbiamo ripiegato su di un Beaujolais ancora in ottima forma.
L’offerta dei dolci risultava altrettanto sconsolante e la crème brulée che abbiamo assaggiato era eccessivamente bruciata. Là dove manca la conoscenza dell’arte, non è certo il sesso che può fare la differenza.

Nel punto privilegiato in cui via delle Botteghe oscure sfocia sul foro di largo Argentina, mascherato da vetri in stile déco, si cela il Salanova, ristorante pretenzioso, sistemato in due locali molto ampi dall’arredo un po’ ovvio, ma confortevole. Oltrepassata la soglia, però si potrebbe dire: «hic sunt leones». Si sprofonda in un abisso delirante in cui le più elementari regole della convivenza vengono insultate. Béh, possiamo riconoscere che un ornino, aggrappato ai suoi strumenti elettronici suonava disperatamente Guantanamera, forse per coprire il generale «stridor dei denti».
È stata questa una delle più tremende esperienze degli ultimi vent’anni. Noi che siamo passati quasi indenni attraverso involtini primavera carbonizzati, risotti affogati nella panna, profiteroles di marmo, siamo rimasti disgustati ed annichiliti. A tanto dunque possono arrivare le insidie della ristorazione nella Roma dei cesari e dei papi! All’inizio, siamo stati aggrediti da un signorino con barbetta e baffi brizzolati che ha tentato di imporci subito acqua minerale e vino bianco. Assolutamente stupefatto è rimasto quando noi gli abbiamo fatto presente che avremmo preferito consultare prima la carta.
Una nostra ingenua amica ha osato chiedere penne all’arrabbiata e quello l’ha redarguita apocalittico: «Dovrà aspettare venti minuti, perché noi abbiamo soltanto pasta di gran qualità». Gli altri più intimiditi hanno accettato le sue proposte: gli antipasti al carrello erano un cumulo indefinibile di materiale sfatto: il sauté di cozze pareva putrescente, gli gnocchi al gorgonzola erano pallocche di plastica immersi in un liquido viscidume al sapore di pesce.
La profezia si è poi avverata: le penne avevano realmente conosciuto una cottura di venti minuti. Se fosse possibile dirlo, diremmo che i secondi erano ancora peggio: a parte un abbacchio che stupefacentemente era commestibile, abbiamo visto comparire entrecote alla salvia, il cui insulso trito di erbacce copriva pezzi di carne senza sapore; ma il culmine lo ha raggiunto un filetto al ginepro spappolato e dal forte sapore di abbronzante. Il vino della casa era una fresca acqua di Marino, il bianco di Custoza di Venturelli e il Gavi di Filagnotti avevano in più solo un accentuato sentore di tappo.
Qualche attento lettore si e ci chiederà: perché avete bevuto solo bianchi, anche sulle carni? Parrà incredibile, ma quando abbiamo provato a chiedere un rosso ci è stato risposto che non ce n’erano di disponibili, poiché la casa aveva appena riaperto dopo le ferie invernali! Ovviamente non abbiamo osato provare i dolci e abbiamo pagato un conto per fortuna non altissimo, ma avremmo voluto essere risarciti.