Archivio di luglio 1984

6 – Luglio & Agosto ‘84

domenica, 1 luglio 1984

Freshwater
A Parigi, nel cuore di un meraviglioso quartiere, decisero un giorno di costruire un monumento al cattivo gusto, una specie di ributtante mostro antidiluviano, che è diventato un grande magazzino della cultura, nel quale – come in tutti i grandi magazzini – si trova di tutto: si tratta del Centre Pompidou. Il fatto che l’edificio sia architettonicamente brutto, non impedisce che al suo interno avvengano cose anche belle o divertenti. Ad un fatto del genere diede luogo un gruppo di mostri sacri della cultura francese, mettendo in scena nel 1982 una commedia di Virginia Woolf per festeggiare tra amici il centenario della nascita della famosa scrittrice inglese – per quanto strano possa parere che un gruppo di amici scelga come luogo di un incontro proprio il Centre Pompidou -. Si trattava di un testo che era nato in occasione della festa di compleanno di una nipote della Woolf, e che ora da quella rappresentazione dell’82 dà l’occasione a questi amici di esibirsi or qua e or là; veramente spiritosa è stata l’idea di portare lo spettacolino Spoleto. Il titolo della commedia in un atto è Freshwater, che, nella traduzione francese di Elisabeth Janvier e con la regia di Simone Benmussa, viene recitata da questo cast eccezionale: Eugène Jonesco, nella parte del poeta Alfred Tennyson, Rodica Jonesco, moglie dello scrittore nella vita, nella parte di Mary Magdalena, la cameriera; Jean Paul Aron, nel ruolo della regina Vittoria; Tom Bishop nella parte di John Graig; Alain Robbe Grillet, come Charles H. Cameron; Nathalie Sarraute, il maggiordomo; e poi ancora negli altri ruoli: Florence Delay, Erika Kralik, Joyce Mansour, Guy Dumur, Raffaello De Banfield, tutti bei nomi del salotto letterario internazionale.
Lo spettacolo ha destato a Spoleto molta curiosità, anche perché ha avuto due sole repliche, oltre ad un’anteprima per la stampa e alcuni invitati; noi ci siamo trovati ad assistere all’esibizione del tre luglio: lo spettacolo consisteva prima in una conferenza stampa, seguita dopo un breve intervallo dalla recita vera e propria del testo della Woolf.
Poco dopo le diciassette, nella sala Frau – miracolo di sponsorizzazione – affollatissima, E. Jonesco, in vestito di grisaglia estiva, insistentemente rassettato da un minuscola ed energica moglie in stampato a fiori e affiancato dai colleghi e dalle colleghe – debitamente neutri, al confronto – contendeva il ruolo di protagonista a uno smagliante e scattante A. Robbe Grillet, lunghi capelli e barba brizzolati, piuttosto sex in maglietta e pantaloni neri, sotto una giacca sahariana chiara. Le domande al signor Jonesco furono molte ed egli rispose, perfetto, a parte il registro, nella parte del vecchietto saggio e rompiscatole dell’opera buffa all’italiana. Nei suoi lunghi a solo gorgheggiati in falsetto, disse cose non particolarmente profonde: le sue solite ovvietà sul pericolo delle ideologie e sull’inutile necessità dell’arte, per lanciarsi poi in un virtuosistico discorso psicoanalitico sull’arte come sogno e sul sogno come arte, teatralmente perfetto, spiritoso e dalla studiata petulanza. La bella voce pacata, grave e piena di armonici di Robbe Grillet si diffuse, in tenzone, per la piccola sala a parlare di filosofia, teorie estetiche e linguistiche, oggettività e realismo nell’arte e poi, con pacato volteggio, stimolato da una domanda, una spiritosa cadenza finale ancora sulla psicoanalisi. Solo al levare del sipario sulla pièce della Woolf si vide apparire anche la bella figura di Nathalie Sarraute, perfetta nella virile livrea del maggiordomo. Poi, tra bare in arrivo, imminenti viaggi per l’Italia, invocazioni alle muse, adultèri e marsovini si consumò la rappresentazione in famiglia: il signor Jonesco fu superiormente distratto, la signora Rodica incisiva, il signor Aron perfetto nella regalità, il signor Dumur appassionato e sofferente, la signora Mansour svanita e crudele, il signor Bishop fatuo e sensuale, la signora Delay frivola e curiosa, il signor De Banfield compassato e surreale, il signor Robbe Grillet assorto e sconvolgente. Ma della scena più bella di tutto lo spettacolo furono testimoni e comparse solo i Farfalloni; nel breve intervallo, nel foyer del teatrino si svolse questo fulmineo dialogo:
I Farfalloni (rivolti a R.G.): Ma secondo lei, il crimine è l’autore o l’opera?
A. Robbe Grillet: Veramente, l’opera.
I Farfalloni: E l’autore allora?
A Robbe Grillet: È il divano!

Il re muore
L’opera di E. Jonesco ha un’importtanza fondamentale per la storia del teatro del nostro secolo. La sua «Cantatrice calva», del 1950, raccoglie le più varie esperienze in un testo praticamente perfetto. Attraverso un umorismo irresistibile, vien demistificato il linguaggio borghese e, con esso, valori e consuetudini e gesti ritenuti sacri. Quest’opera ha influenzato tutti gli autori di teatro da allora a oggi e Jonesco è tuttora fermo, con gli occhi fissi sulla calva cantatrice, non solo come opera teatrale, ma come simbolo: una figura che non si vede, ma che si sente presente, presente come la morte. La morte è il tema fondamentale di tutta l’opera di Jonesco; ne è il tema centrale in alcuni testi, oppure si insinua e occhieggia: incombe. La morte esiste proprio perché non esiste, e non esiste perché siamo già tutti morti nella sua attesa. Pascal ha trasmesso a Jonesco l’analisi del divertissement umano: gli uomini si divertono con le piccole cose e con le ideologie, per non pensare alla morte. «Il re muore», messo in scena alla sala Frau da Flavio Bucci è del 1962; qui il problema della morte si intreccia con quello del tempo. L’attesa della morte dimostra che la morte è impossibile; proprio come nella rappresentazione teatrale che si rinnova ogni sera: ogni sera il re muore, e muore perché era già morto la sera prima, ma il suo morire è soltanto un vivere nell’attesa di una morte già avvenuta. In un regno in rovina, in una reggia in rovina, il re deve morire. Le sue due mogli, la regina bianca e la regina nera, si contendono il privilegio di farlo morire; la nera, dura e implacabile; la bianca, querula nel fingere la pietà. La guardia è l’ottusa espressione della stupidità dei servi del potere, con la servetta, sfruttata, rassegnata e ribelle; la scienza, nella figura del medico-boia, dice le sue stupide frasi che, però, hanno il potere di vita e di morte delle diagnosi. Il re – è fin troppo banale sottolinearlo – è l’essere umano, piccolo e grande allo stesso tempo, con le sue fantasie di onnipotenza, con le sue lotte, che spesso procurano la morte degli altri. Un uomo circondato da una casa la cui rovina è la banalità, in cui c’è una crepa che si apre sempre di più. Inoltre, il re non è soltanto l’uomo; forse consapevolmente, Jonesco ha descritto il maschio – non intendiamo dire che Jonesco qui abbia rappresentato la morte del maschio come ruolo – ma un uomo di sesso maschile come è concepito nel mondo borghese: vittima della sua poesia e della sua stupidità, vittima dell’implacabile potenza delle donne, vittima dei maschi che si alleano con le donne, vittima della sua incapacità di trovare un alleato maschio – l’amore della guardia, l’unico altro che ha paura di morire, va perduto -. Le donne e i loro alleati sono incapaci di temere la morte. Jonesco è spietato con le donne e con la scienza; come un bizzarro teologo medioevale nega alle prime l’anima e alla seconda un reale valore: il valore è solo nella trascendenza. Lo spettacolo di Bucci ha due protagonisti: il primo è il Re, interpretato da lui splendidamente: gesti grotteschi, umoristicamente ammiccanti – spesso addirittura citazioni del teatro comico e di avanspettacolo -; la sua voce trova accenti superbi: petulanza infantile e potenza drammatica; ed è usata con astuzia: una dizione sporca con le esse sgangherate e tenere come quelle dei vecchi e dei bambini; i movimenti sono quelli spezzati delle marionette e dei folli; gli occhi roteano spaventosi e impauriti. Poi, improvvisamente, quasi senza preparazione, tutta la sua persona si raccoglie ad esprimere una tenerezza infinita. L’altro protagonista è la musica, di Stefano Marcucci; in particolare quella melodia di valzer da operetta che apre lo spettacolo, lo segue e, ripetendosi monotonamente, accompagna la morte del Re. Riesce a creare un’atmosfera strana, una malinconia da cabaret, con un’efficacia drammatica irresistibile; tanto che gli altri brani inseriti risultano inessenziali e un po’ disturbano.
Bucci è un regista buono per se stesso; ma pensiamo che abbia appiattito troppo gli altri quattro personaggi. La nera regina Margherita di Micaela Pignatelli risultava troppo uguale a se stessa nella sua durezza che non si ammorbidiva neppure nel finale: e avrebbe dovuto! Sempre uguale la lagna della bianca regina Maria, di Carmen Onorati. Troppo di maniera Mario Bardella nelle vesti del medico-boia. Scontate le soluzioni della serva Giulietta, impersonata da Fiorella Magrin; e della guardia, dove pure Enzo Turrin sa trovare alcuni validi accenti interpretativi – quando si scioglie parla lungamente al suo re, quasi con amore -.Pertinenti, efficaci e ingegnose negli effetti le scene di Bruno Garofalo, che ha curato anche i costumi. Aggrappato a quel valzer, nella sua reggia che crolla, tra la polvere, il Re muore, per morire ancora.

Sortileges
Nel restauratissimo San Nicolò si rappresenta Sortilèges, di Alfredo Arias e Kado Kostzer, con Facundo Bo, Zobei da e Larry Hager. Alfredo Arias è anche il regista. Le scene e i costumi sono di Rostislav Doboujinsky e le musiche di Carlos D’Alessio.
Da sempre, il teatro ama fare teatro sul teatro. Il principe Sigismondo – personaggio di Calderon de la Barca – dice: «…tutta la vita è sogno e i sogni sono sogni… » Noi soggiungiamo che se tutto è teatro anche il teatro è teatro. Il teatro non è né vero né falso; racconta e rappresenta qualche cosa a spettatori più o meno numerosi e più o meno passivi. Gli autori, gli attori e i registi rappresentano finzioni e fingono realtà. Discorsi profondissimi o banali, affascinanti o stucchevoli. In una cornice di colori fiabeschi, piacevoli, se pure un po’ patinati, Sortilèges fa rivivere l’antica fiaba, che è un mito, del

la bella e la bestia; per dirci cosa? Che il principe è condannato ad essere principe pur diventando bestia ogni notte e che la bestia è condannata ad essere bestia pur tornando ad essere principe ogni giorno. Chi è il principe e chi è la bestia? Fra i due, al crepuscolo, fra il giorno e la notte, si incunea l’attore; che è bestia e principe e tante altre cose: giovane e vecchio, seduttore e sedotto. Scopre la realtà allo specchio; una realtà che sfuma però nella rappresentazione. Tutto questo crediamo volesse esprimere lo spettacolo in un fumoso e tedioso linguaggio surrealista. La recitazione è stata corretta: gesti, movimenti ritmati a dovere, anche se un po’ monotoni e talvolta inespressivi. La musica era adatta, anche nella sua incolore fluidità, un po’ malinconica. La regia ci è parsa essere il punto forte dello spettacolo, capace di sottolineare e valorizzare i momenti più significativi, coordinando con organico dinamismo tutto l’insieme. Tutto sommato uno spettacolo che avrebbe potuto essere meno scialbo e che non lascia molto, perché ripete troppe cose già sentite. E quando l’Eterno scade nel troppo sentito, uno dice: «Va be’…»

5 – Luglio ‘84

domenica, 1 luglio 1984

Concerto del 29.6
Il 29 giugno, a mezzogiorno, al Caio Melisso sono iniziati i «Concerti aperitivo», tradizione ormai consolidata al Festival, che richiama molto pubblico nella deliziosa sala ottocentesca, per ascoltare brani di musica da camera, non preannunciati; i cui titoli vengono scritti, insieme con i nomi degli esecutori, lì per lì, poco tempo prima che abbia inizio l’esecuzione, su una lavagnetta nell’atrio del teatro. In cima al programma per questo primo concerto la sonata in sol maggiore di G. Battista Sammartini eseguita da Anner Bylsma al violoncello e John Gibbons al clavicembalo: tre tempi di fattura perfetta in cui il settecentesco compositore esprime la sensuale profondità della sua epoca attraverso una schietta piacevolezza. L’allegro si presenta con un melodiare equilibrato e malinconicamente pastorale, ma non di maniera. Una cantabilità increspata da un ritmo appena un po’ sostenuto con alcune sonorità di languore pre-romantico. Il lento: una bellissima composizione dal sapore chiesastico. L’allegro poi si lanciava con garbo in una danza. I due interpreti hanno soprattutto dimostrato una ottima capacità filologica. Nella musica barocca è irritante quando gli strumenti, cui per ragioni tecniche è permesso, come al violoncello, per esempio, si sbizzarriscono in forti e piano, insulsi e fuori stile. Basta ascoltare un salto d’ottava: non deve esserci se non un’impercettibile alterazione dell’intensità sonora.
Oppure i trilli: che debbono dipanarsi morbidi e precisi, senza stiracchiamenti tipici di un’altra epoca. Non parliamo poi delle progressioni…

La correttezza stilistica non è andata, però, a discapito dell’intensità emotiva e il cembalo magistralmente ha retto il dialogo armonico, talvolta anche per mezzo di un appena accennato interloquire. Come secondo brano, è stata presentato una serie di piccoli gioielli: « I canti della lontananza», di Giancarlo Menotti, per canto e pianoforte, eseguiti da Katherine Ciesinski, mezzosoprano e Jean Yves Thibaudet, pianoforte.

Si tratta di una serie di sette liriche del compositore stesso, musicate, ci pare, nel 1952. Appassionate, drammatiche, tenere e soprattutto spudorate. Spudorate nel senso di non nascondere il sentimento anche un po’ ingenuo, spudorate nella struttura musicale: tutto ciò che conosciamo di Menotti ci sembra rivelare che siamo in presenza di un compositore che parla chiaro e, coraggiosamente, cerca di dirigersi, senza mediazioni, al pubblico, senza rinnegare un passato musicale antico e glorioso. Ci ha fatto estremamente tenerezza vedere, dal nostro palchetto, il Maestro, emotivamente coinvolto, muovere le labbra, seguendo la voce di Katherine Ciesinski. Di intensità drammatica «Gli amanti impossibili», che aveva come cellula importante quattro note un po’ affannose che sorreggevano un melodiare teso ed intenso. In «Mattinata di neve» una melodia di struggente gradevolezza sapientemente, all’inizio, accompagnata dal pianoforte, trovava poi una sua autonomia formando un dialogo a due. Ne «Il settimo bicchiere di vino» un continuo dinamismo dava un leggero capogiro.

Ne «Lo spettro» splendidi accordi del pianoforte si integravano sapientemente con la melodia vocale. Una nenia accorata si dipanava in «Dorme Pegaso». Malinconia e ansia con accenni leggermente sado-masochistici in «La lettera». Ineccepibile l’interpretazione di K. Ciesinski (che già avevamo sentito nell’Arianna la sera prima): vocalità piena e tecnicamente corretta, ricca di coloriture. Bravo J. Yves Thibaudet, molto preciso, anche se lo avremmo voluto far sentire cantare di più il pianoforte in alcuni punti. Il concerto si è concluso egregiamente con l’interpretazione di uno dei tre quartetti dell’opera 44, in re maggiore di F. Mendelssohn Bartoldy, eseguito dal complesso statunitense «The muir string quartet». I quattro hanno iniziato aggressivamente, quasi con protervia, precisi ed intonati, tanto da farci temere per i momenti e lirici e cantabili che sapevamo sarebbero giunti, ma per fortuna se la sono cavata bene; forse un po’ timorosi, hanno però aspettato i momenti magici in cui l’armonia deve essere palpabile quasi con le mani. Veramente ottimi sono stati nel finale «presto con brio».

5 – luglio 84 – Spoleto
Concerto del 30.6

I1 concerto aperitivo di sabato 30, ha presentato tre degli interpreti del giorno prima: Katherine Ciesinski, Anner Bylsma e J. Yves Thibaudet. Il programma si è aperto con un gradevolissimo brano di Saint Saens per mezzo soprano, flauto e pianoforte: «Il flauto invisibile». Su di un basamento compatto, ma lieve, eseguito dal pianoforte, fiorivano le due melodie, alternantesi, della voce umana e del flauto, il quale ripeteva, con tenerezza infinita, la stessa, splendida, idea musicale. Il risultato era quasi perfetto. Seguivano le tre «Chansons madecasses» del 1925/26 di Maurice Ravel, per mezzo soprano, flauto, violoncello e pianoforte. L’atmosfera esotica in questi canti non è mai banalmente oleografica, la ritmica è sottilmente inquietante e le armonie, raffinatissime, accennano ad un primitivismo che, in quell’epoca era di moda, non soltanto in campo musicale. II primo è un canto d’amore e inizia con un contrappunto – nel senso etimologico della parola – tra la voce e il violoncello; poi gli altri due strumenti si inseriscono per formare armonie cangianti; bellissimo l’attacco di K. Ciesinski per la seconda canzone «Un grido di guerra», la dissonanza del tutto era amalgamata da una ritmica aggressiva e precisa. Quieta e lirica la terza canzone dipingeva un’atmosfera di pace riconquistata e di vita consueta; mentre il violoncello imitava il tamburo, il flauto e il pianoforte si inserivano con sonorità esotiche e la voce, pacata ed energica, si dipanava in un melodiare un po’ austero. Sempre ineccepibile la cantante, musicalmente precisa, e attenta anche a interpretare con efficacia i significati dei testi. I tre strumenti l’hanno circondata con attenzione un po’ opaca, tranne che la splendida esibizione del flauto nel brano di St. Saens.

L’ultimo brano era il quintetto per pianoforte e archi in fa minore di César Frank. Opera matura dell’ottocentesco compositore francese, rivela una straordinaria energia espressiva, unita alle sue doti di moderazione degli eccessi; questo quintetto si segue dall’inizio alla fine col fiato sospeso. L’esecuzione è stata buona, in alcuni punti ottima, sebbene un po’ discontinua; si sentiva talvolta un eccessivo stridore degli archi e il pianoforte, pur preciso, avrebbe dovuto avere, in alcuni punti, più coraggio.

05 – Luglio ‘84

domenica, 1 luglio 1984

Come dirlo

L’occasione del XXVII Festival dei Due Mondi ha tutte le caratteristiche del massimo interesse per chi questo foglio scrive e per chi lo legge cercandovi punti di riferimento utili ad orientarsi negli spazi, sempre un po’ indefiniti, della cultura e dell’arte.
Il Festival, per sua natura e, crediamo, non senza intenzione di chi lo vuole e lo rende possibile, rappresenta anche un avamposto dove il fuoco delle opinioni è più intenso. Le opinioni, anche se non sono fatte solo di parole ed hanno sempre conseguenze che vanno oltre le parole, pure, delle parole si valgono per esprimersi.
Sembra che ci siano parole sufficienti per giustificare ogni cosa e per condannare ogni gesto; le parole diventano scarse, però, quando si cerca di esprimere un giudizio. I Farfalloni sono venuti a Spoleto con una gran voglia di vedere e conoscere, nonché di esprimere giudizi. I giudizi non sono necessariamente il Giudizio e chi giudica può scegliere se essere giudice oppure Il Giudice; anche chi raccoglie il giudizio può agire, in un senso o nell’altro. La psicoanalisi e l’arte conoscono una lunga storia di amori e disamori, di reciproci sensi di superiorità e di inferiorità; i Farfalloni non sono a Spoleto per interpretare, se non nel senso che anche loro faranno una parte; e guai a chi lo nega! In questi giorni, in questi pochi chilometri quadrati di terra umbra, saranno anche più di due mondi a incontrarsi e a scontrarsi, a conoscersi e ad ignorarsi, i Farfalloni vorrebbero, con infiniti percorsi, tessere una trama, non necessariamente coerente, ma il più ricca possibile di spunti e di colori presi dalla festa. E’ bene affermare chiaramente il nostro rispetto per tutto quanto oggi significano queste due settimane, nella cultura e nella vita sociale, per tutti coloro che ad arte e cultura fanno riferimento.
Un rispetto dovuto ai princìpi e alle persone; e ai miti.
Proprio questo riferimento al mito e ai suoi luoghi è giusto che sia esplicito: il richiamo viene da lontano, la cetra di Orfeo ha trovato sempre nuove mani a raccoglierla quando il Caso o il Fato hanno per un istante sospeso il suo canto; se è retorico ricordarlo, sarebbe empio dimenticare. Il senso del mito non è tanto nella celebrazione; anzi chi più lo mantiene vivo ne trova significato profondo in un’azione che non si arresta, ma si apre consapevolmente alla realtà sempre nuova.
Di questa realtà vogliono essere partecipi anche le pagine di questo foglio. Con quale diritto? Solo col diritto di chi prova un piacere di chi vuole rendersi conto fino in fondo e di cui vuole rendere conto.
Ci preme rivendicare il diritto di PSICOANALISI CONTRO di abitare i luoghi dell’arte: un maestro ci ha allevati e alla sua scuola abbiamo imparato che nulla esiste senza che abbia trovato i modi per esprimersi e che Eros passa attraverso il bello e lì si ferma perché ha scoperto che ciò che è bello è anche vero.

5 – Luglio ‘84

domenica, 1 luglio 1984

La mostra delle opere di Leonardo Cremonini ha inaugurato il 26 giugno la sezione del Festival dedicata alle arti figurative. Si tratta di una personale amplissima, raccoglie opere dal 1960 ad oggi, ed è ospitata nella splendida dimora del cinquecentesco Ràcani Arroni, in via dell’Arringo, a due passi dalla casa di Giancarlo Menotti che ha il grande merito di aver proposto questo artista e di aver patrocinato la mostra con il sindaco di Spoleto e con il coordinatore Bruno Mantura. Leonardo Cremonini è nato a Bologna nel 1925, ha studiato prima all’Accademia di Bologna e poi a Brera, ma ha trovato il suo esito artistico e professionale a Parigi, dove si è trasferito nel 1951. La sua opera ha conosciuto prima il favore del pubblico e degli operatori artistici negli Stati Uniti e solo in un secondo tempo in Europa e recentissimamente anche in Italia. Il lungo percorso, cronologico e artistico, che porta il visitatore della mostra fin nelle soffitte dell’antico palazzo dà il senso del l’avventura; un’avventura dalla quale si esce indubbiamente arricchiti. Una ricchezza che viene dall’aver conosciuto, fin nel le pieghe più intime della sua psiche, un uomo. Ogni artista: musicista, poeta o pittore, sempre denuda, attraverso la propria opera il suo inconscio, ma qualcuno cerca di fare un po’ di fumo. Leonardo Cremonini no, anzi, nel suo leggero esibizionismo non si trova la menzogna di molti esibizionisti, che mostrano il loro intimi per nascondere qualcosa di ancora più intimo e che viene accuratamente celato. Conclusa quest’avventura si conosce anche meglio il mondo e alcune nostre fantasie inconsce.

Da queste grandi tele viene incontro all’osservatore una poesia sottile, talvolta un po’ dimessa, ma sempre coinvolgente; le dimensioni stesse delle tele sono essenziali: vederle più piccole (come nel catalogo) o più grandi, forse, fa perder uno degli elementi fondamentali per cui chi guarda è anche risucchiato dalla rappresentazione. L’autore è sempre anche vicino allo spettatore, gli dà una spinta lo butta nel quadro, dentro una realtà, che non ha mai un luogo preciso, in un gioco continuo di specchi e di riflessi: I frammenti del corpo amato rendono quel corpo presente solo attraverso un avambraccio proteso nello spazio di una stanza da bagno, il resto: volto, fianco e mammella è solo riflesso dietro cui ci può ancora essere altro; ma quell’avambraccio non è più concreto di quel riflesso di seno incestuoso e di quella luminosità rosa e azzurra. I corpi de Gli animali aperti, rossi di carni che sbavano sangue sul dolore degli ossi spezzati, poesia e rappresentazione di un trascendente quotidiano; cadaveri che si mostrano ai Sensi organizzati del vestito un po’ volgare e chiassoso di una donna che trascina un bimbo e dietro la sessualità contraddittoria, desiderata e fuggita, degli indumenti intimi di una vetrina sul marciapiedi di fronte: brandelli di laido rosa. I bambini sono dappertutto: noi, lui, i nostri figli. Giocano con le sedie a fare Le Barricate, si fingono ciechi negli Intoppi attraversati, in un gioco che è l’esatto contrario di quello degli specchi; i colori si stingono dando il senso talvolta a un movimento, talvolta a una fissità di stagnola. Le indiscrezioni di due bambini, immersi nell’ombra blu che guardano attraverso la porta semiaperta, hanno un che di lascivo e inquietante, come se si sentissero anche i rumori. I bambini di Leonardo Cremonini sono di volta in volta astuti, tristi, allegri, aggressivi; ma, per fortuna, neppure uno, e sono tanti, subisce l’offesa di essere visto come innocente.
Di una bellezza assoluta il quadro A ma maman chérie, grande per la sapienza compositiva, per il gioco di forme in tensione; su di una parete viola i graffiti di Pietro (il figlio del pittore) raffigurano, con ironia, un amore appassionato e un’invidia esplodente – sua, del padre e nostra – una rabbia di non riuscire ad essere tutto: maschi e femmine, oggetti e soggetti, anche se sappiamo che questa è un’imperdonabile debolezza: per fortuna due cuoricini riaffermano la virilità del figlio, del padre e nostra. Sono veri i bambini prigionieri tra le sbarre, o in agguato dietro l’angolo? Gli assurdi cubi degli alberi potati e le sanguigne nuvole sgocciolanti sulle geometrie del suolo non rassicurano su niente.

Gli Ostacoli, percorsi e riflessi si ritrovano in molti altri quadri ispirati alla spiaggia, luogo e passaggio, dell’immaginario e del reale, col sole che cola sulle cabine che sono anche pezzi di baracconi che vengono smontati a La fine dell’estate, quando il teschio di una bandiera dei corsari diventa simbolo ingenuo, ma di antica efficacia.
Ogni giorno la vita comincia con Il risveglio, con un gesto della donna disfatta nel riflesso rossastro dello specchio, mentre i corpo dell’uomo è ancora immerso ne biancore sfatto delle lenzuola, in una at. mosfera quotidiana e inquietante, intima ed esibita, come quando i corpi sono offerti senza pudicizia, ma inanimati, sulla tela, agli occhi di chi osserva La tableau et les voyeurs.
Deliberatamente non abbiamo seguito, nel racconto, la cronologia delle opere; abbiamo osservato i quadri di questa mostra per due giorni e poi abbiamo cercato di raccontare un itinerario, uno dei tanti possibili. Ci sarebbe ancora tanto da dire e se scrivessimo domani racconteremmo, senza dubbio, altre cose. Una sola cosa resterebbe ferma: la pittura di Leonardo Cremonini può; essere giudicata in molti modi, ma esprime una concezione dell’arte e la personalità di un artista.

Eravamo un po’ stanchi e accaldati quando arrivammo all’ingresso della mostra di Giulio Paolini a palazzo Rosari Spada: ci accolsero un ragazzo e una ragazza simpatici e gentili. Iniziammo la visita muovendoci lenti sotto i bei soffitti a cassattoni dell’antico palazzo, mentre attorno a noi si andava mostrando La casa di Lucrezio: una serie di vuote inezie che non riuscirono però neppure a farci sorridere, tanto presuntuoso e squallido ci parve il tutto; ma l’aggettivo più appropriato ci parve essere quello di vuoto. Giulio Paolini nacque a Genova nel 1940 e si segnalò al mondo artistico agli inizi degli anni sessanta: anni di epico disordine in cui eventi significativi e insignificanti si sono mescolati, in una prospettiva che vent’anni di critica hanno reso ancora più indefinita e di cui la cultura non ha ancora avuto il coraggio di appropriarsi. Giulio Paolini è anche scenografo, ma, se lasciato da solo, l’esperienza non gli torna affatto utile. Una simbologia inesperta e un po’ tronfietta gli fa accostare cose, senza ritmo e senza vivacità. Queste cose possono essere, come in questo caso, calchi di gesso di sculture classiche, sul cui biancore è talora attorcigliato un assurdo foulard color salmone. Di gesso le bianche teste e di bianco gesso le colonne, poggiate, dritte o capovolte su riquadri specchianti. Gessi e vetri infranti un po’ dappertutto, mischiati a foglie d’alloro, ad ali spezzate, a fogli bianchi o disegnati, sulle pareti o sul pavimento di questa Casa di Lucrezio, vero labirinto della povertà di idee e di una vacuità senza coraggio, che prevale su tutto.

Il Festival dei Due Mondi è un’istituzione importantissima, anzi fondamentale per Spoleto, non solo dal punto di vista commerciale, per l’afflusso ingente di amanti della cultura e dell’arte, ma anche perché è stimolo per la città che va ben oltre ai quindici giorni della kermesse festivaliera. Attorno alle manifestazioni ufficiali prendono vita, più o meno spontaneamente, molte iniziative. Vi è, ad esempio, un fiorire di botteghe e gallerie d’arte dove artisti, relativamente poco noti o anche sconosciuti del tutto si presentano al mondo, lottando per il loro diritto di esistere e di esprimersi. Noi, che siamo curiosi di tutto e persino un po’ ficcanaso, vogliamo parlare di alcuni nostri incontri, casuali e più o meno gradevoli. Un’esperienza piacevolissima l’abbiamo vissuta nella bottega d’arte di un pittore spoletino, che lavora qui tutto l’anno, e mette in mostra i suoi quadri in via Brignone 12. L’artista si chiama Franco Troiani, è una persona dolce che vi parla sommessamente, in modo tranquillo; vi dice del suo rammarico per non aver trovato, alla scuola d’arte, il maestro di cui sentiva il bisogno; vi dà anche una sua definizione di artista, con la quale noi concordiamo: «L’artista – dice – è uno che ha la tecnica e l’amore per il suo lavoro, se non fosse per la tecnica, non ci sarebbe differenza, tutti gli esseri umani sono infatti naturalmente artisti.» Le opere di Troiani sono gradevoli, frutto di un lavoro attento, lungo, eseguito con la scrupolosità del vecchio artigiano. Fluttuare di veli intorno a figure danzanti come nella «Danza delle ideologie» o in «Danza ‘83»; la luce si scompone in tanti piani e segmenti come nella «Ultima cena» per concentrarsi più chiara in alcune zone del quadro come nel «Paesaggio post-cubista». Temi semplici e impegnativi, un po’ ingenui anche, ricchi di colori accattivanti: rosa, azzurri, bianchi, violetti, mai stucchevoli: pudore e timidezza sono in lui pregi e limiti di una pittura che si vuole aprire agli altri.
La scultura e la pittura di Vicentino Michetti, che espone in questi giorni alla Galleria Fontana, sulla piazza del Mercato, sembrerebbero contraddire quello che prima abbiamo detto sull’arte. Le opere in mostra rivelano una sufficiente capacità tecnica, eppure sono un po’ sgradevoli e retoriche. Allora? Michetti è un artista, ma non un buon artista; è un individuo capace di realizzare col bronzo, col marmo e coi colori il suo mondo interiore, affollato di bambinone e di donnone che non comunicano bei sentimenti, come non lo comunicano i ritratti di vecchi popolani, sulla tela. Allora ci vuole la tecnica e qualcosa di più della tecnica.

6 – Luglio ‘84

domenica, 1 luglio 1984

Gli anni di plastica
Nel bel complesso della restaurata chiesa di San Nicolò, in uno degli ambienti ricavati sopra il chiostro, è ospitata una mostra terrificante: «Gli anni di plastica». Sembra solo ingenua e montata un po’ in sordina: non moltissimi oggetti esposti, un’aria tranquilla, l’odore dei legni delle impalcature. Ma se il visitatore guarda con attenzione rimane disgustato e atterrito: quegli oggetti paiono sì brutti e volgari; ma il terribile non sta qui – ogni epoca ha prodotto oggetti non belli – qui però si annida la morte. Tutti questi oggetti: il thermos di bachelite del 1925, il vassoio in forma di farfalla in galalite del 1940, il contenitore raffigurante Biancaneve, le ochette in celluloide, sono oggetti che non sono mai invecchiati: sono nati morti, hanno la repellente mostruosità dei feti in formalina negli istituti di anatomia patologica. La bachelite e tutti gli altri materiali affini, ormai tutti connotati genericamente come plastica sono cose che non hanno mai avuto vita: sono nati morti e il tempo li ha mummificati, brutti da vedere e da toccare o da annusare, sono imposti da una civiltà cui non è possibile ribellarsi: la plastica e la morte sono utili e comode. C’era una volta San Nicolò…

Sala d’Orange
L’architettura a pianta ottagonale, di bella ispirazione bramantesca della chiesa di S. Maria della Manna d’Oro, adiacente al Duomo, si presta, con molta umiltà, e con un poco di umiliazione della propria autonomia artistica, ad ospitare la mostra della Sala d’Orange. In un eccesso di teli luttuosamente neri e di pannelli si svolge la storia del palazzo «Huis ten Bosch» costruito vicino all’Aja, a partire dal 1645, per il principe d’Orange, dall’architetto Pieter Post. Morto il committente, la vedova trasformò la villa in mausoleo per il defunto principe Federico Enrico; il monumento è ora residenza della regina Beatrice. L’importante documentazione e la varietà dei quadri e degli oggetti esposti vogliono narrare del rapporto complesso che il monumento ebbe, nelle sue progressive vicende, con l’architettura italiana del Palladio e dello Scamozzi.
Il curatore della mostra è il conservatore delle collezioni della regina d’Olanda Marteen Loonstra, e apprezziamo il suo sforzo, anche se non siamo bene riusciti a capire i collegamenti tra questa villa di gusto italiano in Olanda e l’ambiente culturale in cui si muovono le realtà di questo Festival.
Quando Spoleto era romanica
Vi consigliamo di non tralasciare la mostra «Quando Spoleto era romanica», per ragioni del tutto estranee alla mostra, perchè avrete così l’occasione di visitare la Rocca. Fatta costruire nel XIV secolo dal Cardinale Albornoz, domina dall’alto Spoleto e dintorni. Splendida costruzione che con il romanico ha poco a che vedere; ma che ha uno splendido cortile d’onore, logge e scale coperte. Scorci di paesaggio splendidi sbucano ad ogni voltare di angolo. Sono purtroppo ancora fresche le tracce del recente passato: il carcere che la barbarie amministrativa ha tenuto in funzione fino a pochissimi giorni fa, vergogna senza fine, che ha degradato un luogo così bello, avvilendo in esso anche la dignità umana di carcerati e carcerieri. La mostra vera e propria ha alcuni spunti interessanti, ma appena si è preso gusto, lo spunto si perde, causando un vero e proprio coitus interruptus che, come dicevano gli antichi, procura la nevrosi attuale. Sono illustrati, soprattutto con alcune fotografie e pochi schemi, luoghi e monumenti della Spoleto romanica, che però è difficile ricostruire, per il visitatore, anche a causa del linguaggio specialistico dei documenti illustrativi. Godibili di per sé il rilievo con la storia di San Biagio, il leggendario di San Felice di Narco, dalle belle miniature; e il pannello con gli affreschi staccati da San Paolo inter vineas. Un bell’oggetto è il reliquiario di San Paolo, in rame dorato, dall’incerta datazione. L’emozione più intensa la dà però la croce di Alberto, esposta nella cappella delle reliquie, in Duomo. In fase di restauro, quest’opera del 1200 è suggestiva per l’intensità del Cristo e la bellezza dei colori che, lentamente, stanno tornando alla luce.

Costanzi
A noi dà molto fastidio sentir fare, da qualcuno che si trova davanti a un’opera d’arte, la domanda: «Che cosa significa?» Come se l’opera o l’artista dovessero giustificare la loro esistenza, spiegando tutti i perché e i per come. C’è un altro modo, altrettanto imbecille e volgare, di parlare di un’opera d’arte, pensando di giustificarla raccontando tutti i percorsi culturali e i significati teorici che hanno contribuito a costruirla. Un’opera d’arte non deve giustificarsi, ma deve trovare una giustificazione. Le elucubrazioni teoriche possono servire a capirla, ma le sono inessenziali. L’opera d’arte è lì: deve essere in grado di farsi capire. Da Polignoto – e prima – ad oggi, giudizi errati si sono sempre profferiti, ma ciò non toglie che l’arte debba comunque essere un modo per comunicare; e coloro che la fruiscono devono ribellarsi di fronte a ogni forma di imbecillità e di viltà. Tutte le stampelle e le giustificazioni culturali non riescono a rendere valida un’opera stupida: bisogna avere il coraggio di dirlo, ma, soprattutto, avere il coraggio di poter sbagliare. A noi piace discutere, se pure sappiamo che discutere vuol dire compromettersi e schierarsi, sempre, però, con la disponibilità a cambiare opinione e a contraddirci. Vogliamo adesso parlare della mostra d Massimo Costanzi, che si articola in due momenti e due luoghi: il primo, in piazza Leoncilli, ove, in un «teatrino» bianco e nero l’artista si presenta, con poche opere e uno scritto. La mostra di quadri vera e propria si trova in una sala del Palazzo Vescovile, non lontano di lì. Diciamo subito, chiaramente e brutalmente, che questa è un’arte senza coraggio. Non ha il coraggio di dire, non ha il coraggio di guidare, non ha il coraggio di lottare e non ha neppure il coraggio di non essere più arte. Su rettangoli neri diversamente incorniciati, spiccano le tele, ricche di colori vivaci e raggrumati: protuberanze che si aggrovigliano, accennando appena, pur senza essere ambigue; l’ambiguità sarebbe una ricchezza. Questo accennare è povertà di idee. Talvolta i grumi di colore indicano qualcosa di più preciso, oppure si addensano soltanto, in accostamenti privi di ritmo, di equilibrio, di forza. Si può giocare su quelle inespressive sembianze a proiettare le proprie fantasie; come quando, di notte, si fantastica sugli arabeschi della tappezzeria. Ma l’arte non deve essere quella tappezzeria: deve essere quella fantasia comunicata agli altri. Bisogna avere il coraggio di andare davvero oltre la tela; percepire il buio, i suoni, gli infiniti; ma come esortava Platone: guai a coloro che non ritornano nella caverna, con gli altri, per parlare sia delle ombre, sia della verità.