5 – Luglio ‘84

luglio , 1984

Concerto del 29.6
Il 29 giugno, a mezzogiorno, al Caio Melisso sono iniziati i «Concerti aperitivo», tradizione ormai consolidata al Festival, che richiama molto pubblico nella deliziosa sala ottocentesca, per ascoltare brani di musica da camera, non preannunciati; i cui titoli vengono scritti, insieme con i nomi degli esecutori, lì per lì, poco tempo prima che abbia inizio l’esecuzione, su una lavagnetta nell’atrio del teatro. In cima al programma per questo primo concerto la sonata in sol maggiore di G. Battista Sammartini eseguita da Anner Bylsma al violoncello e John Gibbons al clavicembalo: tre tempi di fattura perfetta in cui il settecentesco compositore esprime la sensuale profondità della sua epoca attraverso una schietta piacevolezza. L’allegro si presenta con un melodiare equilibrato e malinconicamente pastorale, ma non di maniera. Una cantabilità increspata da un ritmo appena un po’ sostenuto con alcune sonorità di languore pre-romantico. Il lento: una bellissima composizione dal sapore chiesastico. L’allegro poi si lanciava con garbo in una danza. I due interpreti hanno soprattutto dimostrato una ottima capacità filologica. Nella musica barocca è irritante quando gli strumenti, cui per ragioni tecniche è permesso, come al violoncello, per esempio, si sbizzarriscono in forti e piano, insulsi e fuori stile. Basta ascoltare un salto d’ottava: non deve esserci se non un’impercettibile alterazione dell’intensità sonora.
Oppure i trilli: che debbono dipanarsi morbidi e precisi, senza stiracchiamenti tipici di un’altra epoca. Non parliamo poi delle progressioni…

La correttezza stilistica non è andata, però, a discapito dell’intensità emotiva e il cembalo magistralmente ha retto il dialogo armonico, talvolta anche per mezzo di un appena accennato interloquire. Come secondo brano, è stata presentato una serie di piccoli gioielli: « I canti della lontananza», di Giancarlo Menotti, per canto e pianoforte, eseguiti da Katherine Ciesinski, mezzosoprano e Jean Yves Thibaudet, pianoforte.

Si tratta di una serie di sette liriche del compositore stesso, musicate, ci pare, nel 1952. Appassionate, drammatiche, tenere e soprattutto spudorate. Spudorate nel senso di non nascondere il sentimento anche un po’ ingenuo, spudorate nella struttura musicale: tutto ciò che conosciamo di Menotti ci sembra rivelare che siamo in presenza di un compositore che parla chiaro e, coraggiosamente, cerca di dirigersi, senza mediazioni, al pubblico, senza rinnegare un passato musicale antico e glorioso. Ci ha fatto estremamente tenerezza vedere, dal nostro palchetto, il Maestro, emotivamente coinvolto, muovere le labbra, seguendo la voce di Katherine Ciesinski. Di intensità drammatica «Gli amanti impossibili», che aveva come cellula importante quattro note un po’ affannose che sorreggevano un melodiare teso ed intenso. In «Mattinata di neve» una melodia di struggente gradevolezza sapientemente, all’inizio, accompagnata dal pianoforte, trovava poi una sua autonomia formando un dialogo a due. Ne «Il settimo bicchiere di vino» un continuo dinamismo dava un leggero capogiro.

Ne «Lo spettro» splendidi accordi del pianoforte si integravano sapientemente con la melodia vocale. Una nenia accorata si dipanava in «Dorme Pegaso». Malinconia e ansia con accenni leggermente sado-masochistici in «La lettera». Ineccepibile l’interpretazione di K. Ciesinski (che già avevamo sentito nell’Arianna la sera prima): vocalità piena e tecnicamente corretta, ricca di coloriture. Bravo J. Yves Thibaudet, molto preciso, anche se lo avremmo voluto far sentire cantare di più il pianoforte in alcuni punti. Il concerto si è concluso egregiamente con l’interpretazione di uno dei tre quartetti dell’opera 44, in re maggiore di F. Mendelssohn Bartoldy, eseguito dal complesso statunitense «The muir string quartet». I quattro hanno iniziato aggressivamente, quasi con protervia, precisi ed intonati, tanto da farci temere per i momenti e lirici e cantabili che sapevamo sarebbero giunti, ma per fortuna se la sono cavata bene; forse un po’ timorosi, hanno però aspettato i momenti magici in cui l’armonia deve essere palpabile quasi con le mani. Veramente ottimi sono stati nel finale «presto con brio».

5 – luglio 84 – Spoleto
Concerto del 30.6

I1 concerto aperitivo di sabato 30, ha presentato tre degli interpreti del giorno prima: Katherine Ciesinski, Anner Bylsma e J. Yves Thibaudet. Il programma si è aperto con un gradevolissimo brano di Saint Saens per mezzo soprano, flauto e pianoforte: «Il flauto invisibile». Su di un basamento compatto, ma lieve, eseguito dal pianoforte, fiorivano le due melodie, alternantesi, della voce umana e del flauto, il quale ripeteva, con tenerezza infinita, la stessa, splendida, idea musicale. Il risultato era quasi perfetto. Seguivano le tre «Chansons madecasses» del 1925/26 di Maurice Ravel, per mezzo soprano, flauto, violoncello e pianoforte. L’atmosfera esotica in questi canti non è mai banalmente oleografica, la ritmica è sottilmente inquietante e le armonie, raffinatissime, accennano ad un primitivismo che, in quell’epoca era di moda, non soltanto in campo musicale. II primo è un canto d’amore e inizia con un contrappunto – nel senso etimologico della parola – tra la voce e il violoncello; poi gli altri due strumenti si inseriscono per formare armonie cangianti; bellissimo l’attacco di K. Ciesinski per la seconda canzone «Un grido di guerra», la dissonanza del tutto era amalgamata da una ritmica aggressiva e precisa. Quieta e lirica la terza canzone dipingeva un’atmosfera di pace riconquistata e di vita consueta; mentre il violoncello imitava il tamburo, il flauto e il pianoforte si inserivano con sonorità esotiche e la voce, pacata ed energica, si dipanava in un melodiare un po’ austero. Sempre ineccepibile la cantante, musicalmente precisa, e attenta anche a interpretare con efficacia i significati dei testi. I tre strumenti l’hanno circondata con attenzione un po’ opaca, tranne che la splendida esibizione del flauto nel brano di St. Saens.

L’ultimo brano era il quintetto per pianoforte e archi in fa minore di César Frank. Opera matura dell’ottocentesco compositore francese, rivela una straordinaria energia espressiva, unita alle sue doti di moderazione degli eccessi; questo quintetto si segue dall’inizio alla fine col fiato sospeso. L’esecuzione è stata buona, in alcuni punti ottima, sebbene un po’ discontinua; si sentiva talvolta un eccessivo stridore degli archi e il pianoforte, pur preciso, avrebbe dovuto avere, in alcuni punti, più coraggio.