6 – Luglio ‘84

luglio , 1984

Gli anni di plastica
Nel bel complesso della restaurata chiesa di San Nicolò, in uno degli ambienti ricavati sopra il chiostro, è ospitata una mostra terrificante: «Gli anni di plastica». Sembra solo ingenua e montata un po’ in sordina: non moltissimi oggetti esposti, un’aria tranquilla, l’odore dei legni delle impalcature. Ma se il visitatore guarda con attenzione rimane disgustato e atterrito: quegli oggetti paiono sì brutti e volgari; ma il terribile non sta qui – ogni epoca ha prodotto oggetti non belli – qui però si annida la morte. Tutti questi oggetti: il thermos di bachelite del 1925, il vassoio in forma di farfalla in galalite del 1940, il contenitore raffigurante Biancaneve, le ochette in celluloide, sono oggetti che non sono mai invecchiati: sono nati morti, hanno la repellente mostruosità dei feti in formalina negli istituti di anatomia patologica. La bachelite e tutti gli altri materiali affini, ormai tutti connotati genericamente come plastica sono cose che non hanno mai avuto vita: sono nati morti e il tempo li ha mummificati, brutti da vedere e da toccare o da annusare, sono imposti da una civiltà cui non è possibile ribellarsi: la plastica e la morte sono utili e comode. C’era una volta San Nicolò…

Sala d’Orange
L’architettura a pianta ottagonale, di bella ispirazione bramantesca della chiesa di S. Maria della Manna d’Oro, adiacente al Duomo, si presta, con molta umiltà, e con un poco di umiliazione della propria autonomia artistica, ad ospitare la mostra della Sala d’Orange. In un eccesso di teli luttuosamente neri e di pannelli si svolge la storia del palazzo «Huis ten Bosch» costruito vicino all’Aja, a partire dal 1645, per il principe d’Orange, dall’architetto Pieter Post. Morto il committente, la vedova trasformò la villa in mausoleo per il defunto principe Federico Enrico; il monumento è ora residenza della regina Beatrice. L’importante documentazione e la varietà dei quadri e degli oggetti esposti vogliono narrare del rapporto complesso che il monumento ebbe, nelle sue progressive vicende, con l’architettura italiana del Palladio e dello Scamozzi.
Il curatore della mostra è il conservatore delle collezioni della regina d’Olanda Marteen Loonstra, e apprezziamo il suo sforzo, anche se non siamo bene riusciti a capire i collegamenti tra questa villa di gusto italiano in Olanda e l’ambiente culturale in cui si muovono le realtà di questo Festival.
Quando Spoleto era romanica
Vi consigliamo di non tralasciare la mostra «Quando Spoleto era romanica», per ragioni del tutto estranee alla mostra, perchè avrete così l’occasione di visitare la Rocca. Fatta costruire nel XIV secolo dal Cardinale Albornoz, domina dall’alto Spoleto e dintorni. Splendida costruzione che con il romanico ha poco a che vedere; ma che ha uno splendido cortile d’onore, logge e scale coperte. Scorci di paesaggio splendidi sbucano ad ogni voltare di angolo. Sono purtroppo ancora fresche le tracce del recente passato: il carcere che la barbarie amministrativa ha tenuto in funzione fino a pochissimi giorni fa, vergogna senza fine, che ha degradato un luogo così bello, avvilendo in esso anche la dignità umana di carcerati e carcerieri. La mostra vera e propria ha alcuni spunti interessanti, ma appena si è preso gusto, lo spunto si perde, causando un vero e proprio coitus interruptus che, come dicevano gli antichi, procura la nevrosi attuale. Sono illustrati, soprattutto con alcune fotografie e pochi schemi, luoghi e monumenti della Spoleto romanica, che però è difficile ricostruire, per il visitatore, anche a causa del linguaggio specialistico dei documenti illustrativi. Godibili di per sé il rilievo con la storia di San Biagio, il leggendario di San Felice di Narco, dalle belle miniature; e il pannello con gli affreschi staccati da San Paolo inter vineas. Un bell’oggetto è il reliquiario di San Paolo, in rame dorato, dall’incerta datazione. L’emozione più intensa la dà però la croce di Alberto, esposta nella cappella delle reliquie, in Duomo. In fase di restauro, quest’opera del 1200 è suggestiva per l’intensità del Cristo e la bellezza dei colori che, lentamente, stanno tornando alla luce.

Costanzi
A noi dà molto fastidio sentir fare, da qualcuno che si trova davanti a un’opera d’arte, la domanda: «Che cosa significa?» Come se l’opera o l’artista dovessero giustificare la loro esistenza, spiegando tutti i perché e i per come. C’è un altro modo, altrettanto imbecille e volgare, di parlare di un’opera d’arte, pensando di giustificarla raccontando tutti i percorsi culturali e i significati teorici che hanno contribuito a costruirla. Un’opera d’arte non deve giustificarsi, ma deve trovare una giustificazione. Le elucubrazioni teoriche possono servire a capirla, ma le sono inessenziali. L’opera d’arte è lì: deve essere in grado di farsi capire. Da Polignoto – e prima – ad oggi, giudizi errati si sono sempre profferiti, ma ciò non toglie che l’arte debba comunque essere un modo per comunicare; e coloro che la fruiscono devono ribellarsi di fronte a ogni forma di imbecillità e di viltà. Tutte le stampelle e le giustificazioni culturali non riescono a rendere valida un’opera stupida: bisogna avere il coraggio di dirlo, ma, soprattutto, avere il coraggio di poter sbagliare. A noi piace discutere, se pure sappiamo che discutere vuol dire compromettersi e schierarsi, sempre, però, con la disponibilità a cambiare opinione e a contraddirci. Vogliamo adesso parlare della mostra d Massimo Costanzi, che si articola in due momenti e due luoghi: il primo, in piazza Leoncilli, ove, in un «teatrino» bianco e nero l’artista si presenta, con poche opere e uno scritto. La mostra di quadri vera e propria si trova in una sala del Palazzo Vescovile, non lontano di lì. Diciamo subito, chiaramente e brutalmente, che questa è un’arte senza coraggio. Non ha il coraggio di dire, non ha il coraggio di guidare, non ha il coraggio di lottare e non ha neppure il coraggio di non essere più arte. Su rettangoli neri diversamente incorniciati, spiccano le tele, ricche di colori vivaci e raggrumati: protuberanze che si aggrovigliano, accennando appena, pur senza essere ambigue; l’ambiguità sarebbe una ricchezza. Questo accennare è povertà di idee. Talvolta i grumi di colore indicano qualcosa di più preciso, oppure si addensano soltanto, in accostamenti privi di ritmo, di equilibrio, di forza. Si può giocare su quelle inespressive sembianze a proiettare le proprie fantasie; come quando, di notte, si fantastica sugli arabeschi della tappezzeria. Ma l’arte non deve essere quella tappezzeria: deve essere quella fantasia comunicata agli altri. Bisogna avere il coraggio di andare davvero oltre la tela; percepire il buio, i suoni, gli infiniti; ma come esortava Platone: guai a coloro che non ritornano nella caverna, con gli altri, per parlare sia delle ombre, sia della verità.