6 – Luglio & Agosto ‘84

luglio , 1984

Freshwater
A Parigi, nel cuore di un meraviglioso quartiere, decisero un giorno di costruire un monumento al cattivo gusto, una specie di ributtante mostro antidiluviano, che è diventato un grande magazzino della cultura, nel quale – come in tutti i grandi magazzini – si trova di tutto: si tratta del Centre Pompidou. Il fatto che l’edificio sia architettonicamente brutto, non impedisce che al suo interno avvengano cose anche belle o divertenti. Ad un fatto del genere diede luogo un gruppo di mostri sacri della cultura francese, mettendo in scena nel 1982 una commedia di Virginia Woolf per festeggiare tra amici il centenario della nascita della famosa scrittrice inglese – per quanto strano possa parere che un gruppo di amici scelga come luogo di un incontro proprio il Centre Pompidou -. Si trattava di un testo che era nato in occasione della festa di compleanno di una nipote della Woolf, e che ora da quella rappresentazione dell’82 dà l’occasione a questi amici di esibirsi or qua e or là; veramente spiritosa è stata l’idea di portare lo spettacolino Spoleto. Il titolo della commedia in un atto è Freshwater, che, nella traduzione francese di Elisabeth Janvier e con la regia di Simone Benmussa, viene recitata da questo cast eccezionale: Eugène Jonesco, nella parte del poeta Alfred Tennyson, Rodica Jonesco, moglie dello scrittore nella vita, nella parte di Mary Magdalena, la cameriera; Jean Paul Aron, nel ruolo della regina Vittoria; Tom Bishop nella parte di John Graig; Alain Robbe Grillet, come Charles H. Cameron; Nathalie Sarraute, il maggiordomo; e poi ancora negli altri ruoli: Florence Delay, Erika Kralik, Joyce Mansour, Guy Dumur, Raffaello De Banfield, tutti bei nomi del salotto letterario internazionale.
Lo spettacolo ha destato a Spoleto molta curiosità, anche perché ha avuto due sole repliche, oltre ad un’anteprima per la stampa e alcuni invitati; noi ci siamo trovati ad assistere all’esibizione del tre luglio: lo spettacolo consisteva prima in una conferenza stampa, seguita dopo un breve intervallo dalla recita vera e propria del testo della Woolf.
Poco dopo le diciassette, nella sala Frau – miracolo di sponsorizzazione – affollatissima, E. Jonesco, in vestito di grisaglia estiva, insistentemente rassettato da un minuscola ed energica moglie in stampato a fiori e affiancato dai colleghi e dalle colleghe – debitamente neutri, al confronto – contendeva il ruolo di protagonista a uno smagliante e scattante A. Robbe Grillet, lunghi capelli e barba brizzolati, piuttosto sex in maglietta e pantaloni neri, sotto una giacca sahariana chiara. Le domande al signor Jonesco furono molte ed egli rispose, perfetto, a parte il registro, nella parte del vecchietto saggio e rompiscatole dell’opera buffa all’italiana. Nei suoi lunghi a solo gorgheggiati in falsetto, disse cose non particolarmente profonde: le sue solite ovvietà sul pericolo delle ideologie e sull’inutile necessità dell’arte, per lanciarsi poi in un virtuosistico discorso psicoanalitico sull’arte come sogno e sul sogno come arte, teatralmente perfetto, spiritoso e dalla studiata petulanza. La bella voce pacata, grave e piena di armonici di Robbe Grillet si diffuse, in tenzone, per la piccola sala a parlare di filosofia, teorie estetiche e linguistiche, oggettività e realismo nell’arte e poi, con pacato volteggio, stimolato da una domanda, una spiritosa cadenza finale ancora sulla psicoanalisi. Solo al levare del sipario sulla pièce della Woolf si vide apparire anche la bella figura di Nathalie Sarraute, perfetta nella virile livrea del maggiordomo. Poi, tra bare in arrivo, imminenti viaggi per l’Italia, invocazioni alle muse, adultèri e marsovini si consumò la rappresentazione in famiglia: il signor Jonesco fu superiormente distratto, la signora Rodica incisiva, il signor Aron perfetto nella regalità, il signor Dumur appassionato e sofferente, la signora Mansour svanita e crudele, il signor Bishop fatuo e sensuale, la signora Delay frivola e curiosa, il signor De Banfield compassato e surreale, il signor Robbe Grillet assorto e sconvolgente. Ma della scena più bella di tutto lo spettacolo furono testimoni e comparse solo i Farfalloni; nel breve intervallo, nel foyer del teatrino si svolse questo fulmineo dialogo:
I Farfalloni (rivolti a R.G.): Ma secondo lei, il crimine è l’autore o l’opera?
A. Robbe Grillet: Veramente, l’opera.
I Farfalloni: E l’autore allora?
A Robbe Grillet: È il divano!

Il re muore
L’opera di E. Jonesco ha un’importtanza fondamentale per la storia del teatro del nostro secolo. La sua «Cantatrice calva», del 1950, raccoglie le più varie esperienze in un testo praticamente perfetto. Attraverso un umorismo irresistibile, vien demistificato il linguaggio borghese e, con esso, valori e consuetudini e gesti ritenuti sacri. Quest’opera ha influenzato tutti gli autori di teatro da allora a oggi e Jonesco è tuttora fermo, con gli occhi fissi sulla calva cantatrice, non solo come opera teatrale, ma come simbolo: una figura che non si vede, ma che si sente presente, presente come la morte. La morte è il tema fondamentale di tutta l’opera di Jonesco; ne è il tema centrale in alcuni testi, oppure si insinua e occhieggia: incombe. La morte esiste proprio perché non esiste, e non esiste perché siamo già tutti morti nella sua attesa. Pascal ha trasmesso a Jonesco l’analisi del divertissement umano: gli uomini si divertono con le piccole cose e con le ideologie, per non pensare alla morte. «Il re muore», messo in scena alla sala Frau da Flavio Bucci è del 1962; qui il problema della morte si intreccia con quello del tempo. L’attesa della morte dimostra che la morte è impossibile; proprio come nella rappresentazione teatrale che si rinnova ogni sera: ogni sera il re muore, e muore perché era già morto la sera prima, ma il suo morire è soltanto un vivere nell’attesa di una morte già avvenuta. In un regno in rovina, in una reggia in rovina, il re deve morire. Le sue due mogli, la regina bianca e la regina nera, si contendono il privilegio di farlo morire; la nera, dura e implacabile; la bianca, querula nel fingere la pietà. La guardia è l’ottusa espressione della stupidità dei servi del potere, con la servetta, sfruttata, rassegnata e ribelle; la scienza, nella figura del medico-boia, dice le sue stupide frasi che, però, hanno il potere di vita e di morte delle diagnosi. Il re – è fin troppo banale sottolinearlo – è l’essere umano, piccolo e grande allo stesso tempo, con le sue fantasie di onnipotenza, con le sue lotte, che spesso procurano la morte degli altri. Un uomo circondato da una casa la cui rovina è la banalità, in cui c’è una crepa che si apre sempre di più. Inoltre, il re non è soltanto l’uomo; forse consapevolmente, Jonesco ha descritto il maschio – non intendiamo dire che Jonesco qui abbia rappresentato la morte del maschio come ruolo – ma un uomo di sesso maschile come è concepito nel mondo borghese: vittima della sua poesia e della sua stupidità, vittima dell’implacabile potenza delle donne, vittima dei maschi che si alleano con le donne, vittima della sua incapacità di trovare un alleato maschio – l’amore della guardia, l’unico altro che ha paura di morire, va perduto -. Le donne e i loro alleati sono incapaci di temere la morte. Jonesco è spietato con le donne e con la scienza; come un bizzarro teologo medioevale nega alle prime l’anima e alla seconda un reale valore: il valore è solo nella trascendenza. Lo spettacolo di Bucci ha due protagonisti: il primo è il Re, interpretato da lui splendidamente: gesti grotteschi, umoristicamente ammiccanti – spesso addirittura citazioni del teatro comico e di avanspettacolo -; la sua voce trova accenti superbi: petulanza infantile e potenza drammatica; ed è usata con astuzia: una dizione sporca con le esse sgangherate e tenere come quelle dei vecchi e dei bambini; i movimenti sono quelli spezzati delle marionette e dei folli; gli occhi roteano spaventosi e impauriti. Poi, improvvisamente, quasi senza preparazione, tutta la sua persona si raccoglie ad esprimere una tenerezza infinita. L’altro protagonista è la musica, di Stefano Marcucci; in particolare quella melodia di valzer da operetta che apre lo spettacolo, lo segue e, ripetendosi monotonamente, accompagna la morte del Re. Riesce a creare un’atmosfera strana, una malinconia da cabaret, con un’efficacia drammatica irresistibile; tanto che gli altri brani inseriti risultano inessenziali e un po’ disturbano.
Bucci è un regista buono per se stesso; ma pensiamo che abbia appiattito troppo gli altri quattro personaggi. La nera regina Margherita di Micaela Pignatelli risultava troppo uguale a se stessa nella sua durezza che non si ammorbidiva neppure nel finale: e avrebbe dovuto! Sempre uguale la lagna della bianca regina Maria, di Carmen Onorati. Troppo di maniera Mario Bardella nelle vesti del medico-boia. Scontate le soluzioni della serva Giulietta, impersonata da Fiorella Magrin; e della guardia, dove pure Enzo Turrin sa trovare alcuni validi accenti interpretativi – quando si scioglie parla lungamente al suo re, quasi con amore -.Pertinenti, efficaci e ingegnose negli effetti le scene di Bruno Garofalo, che ha curato anche i costumi. Aggrappato a quel valzer, nella sua reggia che crolla, tra la polvere, il Re muore, per morire ancora.

Sortileges
Nel restauratissimo San Nicolò si rappresenta Sortilèges, di Alfredo Arias e Kado Kostzer, con Facundo Bo, Zobei da e Larry Hager. Alfredo Arias è anche il regista. Le scene e i costumi sono di Rostislav Doboujinsky e le musiche di Carlos D’Alessio.
Da sempre, il teatro ama fare teatro sul teatro. Il principe Sigismondo – personaggio di Calderon de la Barca – dice: «…tutta la vita è sogno e i sogni sono sogni… » Noi soggiungiamo che se tutto è teatro anche il teatro è teatro. Il teatro non è né vero né falso; racconta e rappresenta qualche cosa a spettatori più o meno numerosi e più o meno passivi. Gli autori, gli attori e i registi rappresentano finzioni e fingono realtà. Discorsi profondissimi o banali, affascinanti o stucchevoli. In una cornice di colori fiabeschi, piacevoli, se pure un po’ patinati, Sortilèges fa rivivere l’antica fiaba, che è un mito, del

la bella e la bestia; per dirci cosa? Che il principe è condannato ad essere principe pur diventando bestia ogni notte e che la bestia è condannata ad essere bestia pur tornando ad essere principe ogni giorno. Chi è il principe e chi è la bestia? Fra i due, al crepuscolo, fra il giorno e la notte, si incunea l’attore; che è bestia e principe e tante altre cose: giovane e vecchio, seduttore e sedotto. Scopre la realtà allo specchio; una realtà che sfuma però nella rappresentazione. Tutto questo crediamo volesse esprimere lo spettacolo in un fumoso e tedioso linguaggio surrealista. La recitazione è stata corretta: gesti, movimenti ritmati a dovere, anche se un po’ monotoni e talvolta inespressivi. La musica era adatta, anche nella sua incolore fluidità, un po’ malinconica. La regia ci è parsa essere il punto forte dello spettacolo, capace di sottolineare e valorizzare i momenti più significativi, coordinando con organico dinamismo tutto l’insieme. Tutto sommato uno spettacolo che avrebbe potuto essere meno scialbo e che non lascia molto, perché ripete troppe cose già sentite. E quando l’Eterno scade nel troppo sentito, uno dice: «Va be’…»