5 – Luglio ‘84

luglio , 1984

La mostra delle opere di Leonardo Cremonini ha inaugurato il 26 giugno la sezione del Festival dedicata alle arti figurative. Si tratta di una personale amplissima, raccoglie opere dal 1960 ad oggi, ed è ospitata nella splendida dimora del cinquecentesco Ràcani Arroni, in via dell’Arringo, a due passi dalla casa di Giancarlo Menotti che ha il grande merito di aver proposto questo artista e di aver patrocinato la mostra con il sindaco di Spoleto e con il coordinatore Bruno Mantura. Leonardo Cremonini è nato a Bologna nel 1925, ha studiato prima all’Accademia di Bologna e poi a Brera, ma ha trovato il suo esito artistico e professionale a Parigi, dove si è trasferito nel 1951. La sua opera ha conosciuto prima il favore del pubblico e degli operatori artistici negli Stati Uniti e solo in un secondo tempo in Europa e recentissimamente anche in Italia. Il lungo percorso, cronologico e artistico, che porta il visitatore della mostra fin nelle soffitte dell’antico palazzo dà il senso del l’avventura; un’avventura dalla quale si esce indubbiamente arricchiti. Una ricchezza che viene dall’aver conosciuto, fin nel le pieghe più intime della sua psiche, un uomo. Ogni artista: musicista, poeta o pittore, sempre denuda, attraverso la propria opera il suo inconscio, ma qualcuno cerca di fare un po’ di fumo. Leonardo Cremonini no, anzi, nel suo leggero esibizionismo non si trova la menzogna di molti esibizionisti, che mostrano il loro intimi per nascondere qualcosa di ancora più intimo e che viene accuratamente celato. Conclusa quest’avventura si conosce anche meglio il mondo e alcune nostre fantasie inconsce.

Da queste grandi tele viene incontro all’osservatore una poesia sottile, talvolta un po’ dimessa, ma sempre coinvolgente; le dimensioni stesse delle tele sono essenziali: vederle più piccole (come nel catalogo) o più grandi, forse, fa perder uno degli elementi fondamentali per cui chi guarda è anche risucchiato dalla rappresentazione. L’autore è sempre anche vicino allo spettatore, gli dà una spinta lo butta nel quadro, dentro una realtà, che non ha mai un luogo preciso, in un gioco continuo di specchi e di riflessi: I frammenti del corpo amato rendono quel corpo presente solo attraverso un avambraccio proteso nello spazio di una stanza da bagno, il resto: volto, fianco e mammella è solo riflesso dietro cui ci può ancora essere altro; ma quell’avambraccio non è più concreto di quel riflesso di seno incestuoso e di quella luminosità rosa e azzurra. I corpi de Gli animali aperti, rossi di carni che sbavano sangue sul dolore degli ossi spezzati, poesia e rappresentazione di un trascendente quotidiano; cadaveri che si mostrano ai Sensi organizzati del vestito un po’ volgare e chiassoso di una donna che trascina un bimbo e dietro la sessualità contraddittoria, desiderata e fuggita, degli indumenti intimi di una vetrina sul marciapiedi di fronte: brandelli di laido rosa. I bambini sono dappertutto: noi, lui, i nostri figli. Giocano con le sedie a fare Le Barricate, si fingono ciechi negli Intoppi attraversati, in un gioco che è l’esatto contrario di quello degli specchi; i colori si stingono dando il senso talvolta a un movimento, talvolta a una fissità di stagnola. Le indiscrezioni di due bambini, immersi nell’ombra blu che guardano attraverso la porta semiaperta, hanno un che di lascivo e inquietante, come se si sentissero anche i rumori. I bambini di Leonardo Cremonini sono di volta in volta astuti, tristi, allegri, aggressivi; ma, per fortuna, neppure uno, e sono tanti, subisce l’offesa di essere visto come innocente.
Di una bellezza assoluta il quadro A ma maman chérie, grande per la sapienza compositiva, per il gioco di forme in tensione; su di una parete viola i graffiti di Pietro (il figlio del pittore) raffigurano, con ironia, un amore appassionato e un’invidia esplodente – sua, del padre e nostra – una rabbia di non riuscire ad essere tutto: maschi e femmine, oggetti e soggetti, anche se sappiamo che questa è un’imperdonabile debolezza: per fortuna due cuoricini riaffermano la virilità del figlio, del padre e nostra. Sono veri i bambini prigionieri tra le sbarre, o in agguato dietro l’angolo? Gli assurdi cubi degli alberi potati e le sanguigne nuvole sgocciolanti sulle geometrie del suolo non rassicurano su niente.

Gli Ostacoli, percorsi e riflessi si ritrovano in molti altri quadri ispirati alla spiaggia, luogo e passaggio, dell’immaginario e del reale, col sole che cola sulle cabine che sono anche pezzi di baracconi che vengono smontati a La fine dell’estate, quando il teschio di una bandiera dei corsari diventa simbolo ingenuo, ma di antica efficacia.
Ogni giorno la vita comincia con Il risveglio, con un gesto della donna disfatta nel riflesso rossastro dello specchio, mentre i corpo dell’uomo è ancora immerso ne biancore sfatto delle lenzuola, in una at. mosfera quotidiana e inquietante, intima ed esibita, come quando i corpi sono offerti senza pudicizia, ma inanimati, sulla tela, agli occhi di chi osserva La tableau et les voyeurs.
Deliberatamente non abbiamo seguito, nel racconto, la cronologia delle opere; abbiamo osservato i quadri di questa mostra per due giorni e poi abbiamo cercato di raccontare un itinerario, uno dei tanti possibili. Ci sarebbe ancora tanto da dire e se scrivessimo domani racconteremmo, senza dubbio, altre cose. Una sola cosa resterebbe ferma: la pittura di Leonardo Cremonini può; essere giudicata in molti modi, ma esprime una concezione dell’arte e la personalità di un artista.

Eravamo un po’ stanchi e accaldati quando arrivammo all’ingresso della mostra di Giulio Paolini a palazzo Rosari Spada: ci accolsero un ragazzo e una ragazza simpatici e gentili. Iniziammo la visita muovendoci lenti sotto i bei soffitti a cassattoni dell’antico palazzo, mentre attorno a noi si andava mostrando La casa di Lucrezio: una serie di vuote inezie che non riuscirono però neppure a farci sorridere, tanto presuntuoso e squallido ci parve il tutto; ma l’aggettivo più appropriato ci parve essere quello di vuoto. Giulio Paolini nacque a Genova nel 1940 e si segnalò al mondo artistico agli inizi degli anni sessanta: anni di epico disordine in cui eventi significativi e insignificanti si sono mescolati, in una prospettiva che vent’anni di critica hanno reso ancora più indefinita e di cui la cultura non ha ancora avuto il coraggio di appropriarsi. Giulio Paolini è anche scenografo, ma, se lasciato da solo, l’esperienza non gli torna affatto utile. Una simbologia inesperta e un po’ tronfietta gli fa accostare cose, senza ritmo e senza vivacità. Queste cose possono essere, come in questo caso, calchi di gesso di sculture classiche, sul cui biancore è talora attorcigliato un assurdo foulard color salmone. Di gesso le bianche teste e di bianco gesso le colonne, poggiate, dritte o capovolte su riquadri specchianti. Gessi e vetri infranti un po’ dappertutto, mischiati a foglie d’alloro, ad ali spezzate, a fogli bianchi o disegnati, sulle pareti o sul pavimento di questa Casa di Lucrezio, vero labirinto della povertà di idee e di una vacuità senza coraggio, che prevale su tutto.

Il Festival dei Due Mondi è un’istituzione importantissima, anzi fondamentale per Spoleto, non solo dal punto di vista commerciale, per l’afflusso ingente di amanti della cultura e dell’arte, ma anche perché è stimolo per la città che va ben oltre ai quindici giorni della kermesse festivaliera. Attorno alle manifestazioni ufficiali prendono vita, più o meno spontaneamente, molte iniziative. Vi è, ad esempio, un fiorire di botteghe e gallerie d’arte dove artisti, relativamente poco noti o anche sconosciuti del tutto si presentano al mondo, lottando per il loro diritto di esistere e di esprimersi. Noi, che siamo curiosi di tutto e persino un po’ ficcanaso, vogliamo parlare di alcuni nostri incontri, casuali e più o meno gradevoli. Un’esperienza piacevolissima l’abbiamo vissuta nella bottega d’arte di un pittore spoletino, che lavora qui tutto l’anno, e mette in mostra i suoi quadri in via Brignone 12. L’artista si chiama Franco Troiani, è una persona dolce che vi parla sommessamente, in modo tranquillo; vi dice del suo rammarico per non aver trovato, alla scuola d’arte, il maestro di cui sentiva il bisogno; vi dà anche una sua definizione di artista, con la quale noi concordiamo: «L’artista – dice – è uno che ha la tecnica e l’amore per il suo lavoro, se non fosse per la tecnica, non ci sarebbe differenza, tutti gli esseri umani sono infatti naturalmente artisti.» Le opere di Troiani sono gradevoli, frutto di un lavoro attento, lungo, eseguito con la scrupolosità del vecchio artigiano. Fluttuare di veli intorno a figure danzanti come nella «Danza delle ideologie» o in «Danza ‘83»; la luce si scompone in tanti piani e segmenti come nella «Ultima cena» per concentrarsi più chiara in alcune zone del quadro come nel «Paesaggio post-cubista». Temi semplici e impegnativi, un po’ ingenui anche, ricchi di colori accattivanti: rosa, azzurri, bianchi, violetti, mai stucchevoli: pudore e timidezza sono in lui pregi e limiti di una pittura che si vuole aprire agli altri.
La scultura e la pittura di Vicentino Michetti, che espone in questi giorni alla Galleria Fontana, sulla piazza del Mercato, sembrerebbero contraddire quello che prima abbiamo detto sull’arte. Le opere in mostra rivelano una sufficiente capacità tecnica, eppure sono un po’ sgradevoli e retoriche. Allora? Michetti è un artista, ma non un buon artista; è un individuo capace di realizzare col bronzo, col marmo e coi colori il suo mondo interiore, affollato di bambinone e di donnone che non comunicano bei sentimenti, come non lo comunicano i ritratti di vecchi popolani, sulla tela. Allora ci vuole la tecnica e qualcosa di più della tecnica.