Archivio di ottobre 1993

Psicoanalisi contro n.2 – La sordità di Beethoven

venerdì, 1 ottobre 1993

L’essere è un gesto; un gesto fra tanti. L’inesauribilità del gesto si realizza nella sua presenza. Il gesto è una frontiera che oltrepassa il presente; si dirige verso… costruendo la persona come tale. Dove sarei io senza i miei gesti?

L’essere è un piccolo gesto. Il significato della presenza lo trascende. Essere è un ver­bo; non è «il verbo». Il verbo non è soltan­to una parola, è un gesto. Un gesto che si realizza costruendo un corpo, che non è mai semplicemente qui ed ora; è anche prima e dopo, perché il corpo si distende nel deside­rio.

Il desiderio è possibile perché è presente; impossibile perché sfugge, anche, sempre. Capire è un gesto, uno fra tanti. Capire è an­che, sempre, inventare. L’essere umano os­serva i propri gesti, cerca di capirli nel pre­sente, spingendoli, però, nel prima e nel dopo. Voler capire è legittimo. Queste paro­le sono oscure, ruotano su loro stesse, nel tentativo di capirsi e di farsi capire. Una fra­se oscura è un gesto abortito, ma anche un aborto è un gesto.

Non è possibile, quindi, mai, semplicemen­te essere. Il gesto, che è un corpo, si com­promette manifestandosi: epifania inevi­tabile, come inevitabile è il voler essere. Non è possibile capire un gesto, se questo, semplicemente, è. L’universo e la natura non sono altro che il pun­to di incontro delle proiezioni ed identifica­zioni umane. Il cielo stellato sopra di me è la mia legge morale; come la mia legge mo­rale non è altro che il cielo stellato dentro di me.

Capire un gesto vuol dire comprendere an­che i suoi compromessi. Ogni essere umano vorrebbe compiere azioni giuste; ma la giu­stizia non è una possibilità umana. Capire un gesto è accettare un compromesso con l’in­giustizia, che è presente come un desiderio oscuro.

La psicoanalisi tenta di comprendere i gesti con una ipotesi sempre trascendente, perché sempre in bilico tra la falsità e la creazione. Anche la mia psicoanalisi cerca di capire i gesti. La mia psicoanalisi capisce un’inven­zione, inventando una comprensione. Il pun­to di partenza della mia psicoanalisi sono io: centro di un mondo senza centro.

Io non credo nella sublimazione. Ritengo questo concetto politicamente pericoloso, ol­tre che inutile da un punto di vista econo­mico. Il concetto di sublimazione è super­fluo: persino la teoria classica non riesce più a trovargli una coerente sistemazione metapsicologica.

Io non so quando un’espressione dell’attività umana sia arte. Molti quando dicono che una cosa è «opera d’arte» , intendono attribuirle un grande valore. Io, più semplicemente, penso che un’opera d’arte sia tale quando e perché la si è voluta così etichettare. Non sono in gra­do di andare oltre. Andare oltre vorrebbe dire definire l’arte e, anche, espone i prin­cipi per cui qualcos’altro non è arte.

Eppure io sono un artista, cioè produco qual­cosa che io chiamo «arte».

Io sostengo che il desiderio e la rappresen­tazione desiderante non sono unidirezionali come il tempo, ma che essi si diramano per vie molteplici. La rappresentazione deside­rante è per me l’arte; che è sempre rappre­sentazione. Ogni gesto si dirige verso… quindi anche il gesto chiamato arte. Perciò questo gesto non può mai coincidere con se stesso: si travalica nel tentativo di manife­starsi. Io credo anche che la rappresentazio­ne sorga nell’attesa, quando l’attesa viene percepita come tale. Anche se penso che af­fermare ciò mi faccia correre il rischio di sembrare troppo vicino alla antica concezio­ne psicoanalitica per cui l’arte, tutto som­mato, sorgerebbe da una situazione di desi­derio frustrato, nell’attesa del desiderio, per colmare un vuoto. Al contrario, io rifiuto di credere che l’arte sorga dalla frustrazione e dal dolore; come mi rifiuto di affermare che sorga dalla gioia. Io dico: l’arte sorge dal­l’arte. È un gesto come tanti, fra tanti. L’iconografia dell’artista dolente, che parto­risce nella sofferenza, incompreso, pallido ed emaciato, è, per me, non solo ridicola, ma anche profondamente stupida. L’artista è an­che triste, come è anche allegro: parla di tri­stezza e di allegria.

L’arte, come la psicoanalisi, costruisce un mondo, né vero né verosimile; un mondo e basta. Ciò che muove l’arte è ciò che muo­ve anche il resto: il desiderio. L’arte non col­ma un’attesa, ma realizza un’attesa; ed è a sua volta attesa. Nell’arte vi sono desideri contraddittori presenti; ma che si distendono nel prima e nel poi. Perché, infine, l’arte do­vrebbe avere un rapporto soltanto simbolico con la sessualità? Perché non può essere direttamente sessuale? Si dice che l’arte che esprime direttamente la ses­sualità sia pornografia. Questa è un’affermazione grottesca. Io so che esisto­no gesti stupidi e volgari; ma non so bene se alcuni di essi possano o no essere arte; ri­mangono, in ogni caso, gesti stupidi e vol­gari.

Oggi si ride di coloro che fanno coincidere l’arte con il bello. Si preferisce, per lo più, affermare che l’arte è espressione. Alcuni aggiungono che deve essere un’espressione che contribuisca a chiarire l’esistenza all’esi­stenza.

Io non sono soltanto un artista, sono anche tante altre cose… ma una cosa non voglio es­sere in quanto artista: «libero»!

Voglio essere un uomo libero e quindi vo­glio che la mia arte sia libera; ma io, come artista, rifiuto la libertà. La libertà dell’arti­sta è un inganno che l’artista cerca, talvolta, di imporre a sé e agli altri.

L’artista libero è colui che ha accettato, fino in fondo, di essere schiavo delle multinazio­nali: ha accettato, cioè, di essere soltanto «merce». Certo, non esiste qualcosa che non sia, anche, merce; ma l’opera dell’artista che sceglie di essere soltanto libero diventa «sol­tanto» merce.

La libertà piena e totale coincide con il ri­fiuto della comunicazione: l’artista espone la sua opera ed esibisce se stesso, imponendo agli altri la sua presenza, autisticamente li­bero.

Io rifiuto l’artista che rifiuta di sottoporsi alla regola, perché il suo è un rifiuto, fin da subito, del rapporto. Se si vuol comunicare, bisogna accettare anche le regole dell’altro. L’altro, se non è soltanto un mio fantasma, deve danni una regola che io, almeno in par­te, posso e debbo accettare. L’altro, se non è totalmente assoggettato a me, deve esige­re da me una regola. Queste regole, le mie e le altrui, nel loro rapporto, non sono altro che il desiderio di «mettere in comune». Ecco, quindi, che anche l’arte può tentare di realizzarsi secondo gli schemi del narcisi­smo e del sadomasochismo; ma io rifiuto quest’arte.

Il rito dell’arte serve a scoprire in me e nell’altro il piacere; ha perciò un suo linguaggio che deve esser comune o costruito insieme. Nessuno può, certo, all’artista impone dall’esterno un gesto piuttosto che un altro; però tutti abbiamo il diritto e il dovere di domandarci il signifi­cato possibile dei gesti dell’arte e di conse­guenza, anche di accettarli o di rifiutarli.

Eros vive direttamente e indirettamente in tutte le opere d’arte.

L’artista libero vuole solo parlare di sé ai propri fantasmi: si espone, aggredisce o si fa aggredire; ma non accetta la libertà delle re­gole comuni e rivendica la liberrtà di nega­re gli altri. Questa libertà assoluta, però, gli dà la possibilità di sopravvivere, come arti­sta, soltanto se il meccanismo economico del neo-capitalismo gli riconosce un valore; e l’unico valore che gli può riconoscere è quello di merce.

Se l’arte cerca e trova brandelli di linguag­gio, può, in parte, riuscire ad esprimere Eros, sfuggendo al processo totale di mercifica­zione.

Io rifiuto i gesti narcisistici o sadomasochi­stici e voglio dare su di essi un giudizio po­litico ed estetico allo stesso tempo. Non ho parlato fm qui dell’arte didascalica e peda­gogica; ma ho parlato di Eros nell’arte.

Infiniti sono i gesti: gli artigiani ne impara­no alcuni e questi pochi diventano preziosi. L’arte conosce la mia fantasia, le mie paure e le mie allegrie. L’arte non è follia. La fol­lia è un altro gesto che io rifiuto, insieme con la scelta di non mettere in comune. La follia è la ribellione solitaria, che coincide con la schiavitù assoluta. A questo punto, il mio discorso è chiaro: il rifiuto delle regole di un gioco comune coincide con la schia­vitù.

L’arte quindi non può e non deve essere fol­lia; può parlare alla follia che è in noi, ma, per parlarne, deve rinunciare sia alla chiusu­ra narcisistica, sia all’aggressione sadomaso­chistica che la follia contiene in sé: fantasmi al di fuori del tempo, che sfuggono nel pri­ma e nel poi, rifiutando il presente. Follia

non è stranezza, non è ribellione: è la di­struzione del rapporto erotico.

Anche la dipendenza psichica e fisica da so­stanze che turbino il processo di comunica­zione e l’euritmia dell’esistenza distorcono e spesso annullano il gesto artistico. I poeti maledetti ed i musicisti esasperati si sono vantati di essere stati capaci di scrivere ver­si sublimi e di aver creato al saxofono im­provvisazioni meravigliose sotto l’effetto di sostanze allucinogene o stupefacenti. Non nego la grandezza di alcuni di quei gesti, però io affermo che essi sono stupendi no­nostante la condizione di prostrazione e di dipendenza in cui sono stati concepiti dai loro autori. Per fortuna, l’essere umano è so­vente più potente di se stesso: l’uomo vince l’uomo. Tutte le forme di «assenzio» che l’uomo ha propinato a se stesso possono in qualche modo aver stimolato la fantasia e la creatività; ed io credo anche che il loro ef­fetto non sia necessariamente dannoso; ma anche vantaggioso, se la capacità di control­lo non fa perdere di vista l’obiettivo princi­pale che deve sottendere ogni espressione artistica: la volontà cioè di parlare con l’al­tro, di riconoscere, accettare e costruire in­sieme con lui linguaggi comuni, creati per dare vitalità sempre nuova al mondo e a se stessi. L’artista non può essere un vinto e nessuno sconfitto può essere un artista. Il ge­sto artistico è un atto di coraggio di un uomo sano che controlla sufficientemente se stes­so e l’ambiente che lo circonda, per piccolo che questo sia e per limitato che sia l’effet­to che ottiene.

Sono consapevole del rischio che corro, giudicando, di ripetere il delitto che fu perpetrato un giorno, quando si cercò di sva­lutare la Grande fuga di Beethoven, attri­buendola al delirio introverso di un sordo; ma io riaffermo il mio diritto-dovere di dire, di fronte a molte cosiddette «opere d’arte»: — Quella è l’opera di un sordo!

Psicoanalisi contro n.2 – Io ho paura della solitudine: problemi di un musicista, forse ingenuo

venerdì, 1 ottobre 1993

Io posseggo dodici suoni. Sulla ta­stiera del mio pianoforte dodici ta­sti bianchi e neri; poi si raddoppia­no; ma sono sempre quelli: frequen­ze diverse, frutto di un calcolo ma­tematico, ma il mio orecchio li sco­pre: acuti o gravi, sempre quelli. Quando le mie mani frugano fra quei tasti, senza sforzo, grappoli di suo­ni nascono e si susseguono; hanno un senso, una sintassi, una gram­matica.

Nella mia mente ci sono dodici suo­ni. Quando scrivo musica li sento concreti e presenti dentro di me. Qualche volta hanno la concretezza di un timbro particolare: un violino, un oboe, un contrabbasso… oppure sono più astratti, vibranti, tesi: so­no tra il suono e l’immagine.

Quando si percepisce un’immagine, questa si distende in un tempo e con un ritmo. Quando si ascoltano suoni, questi si appropriano di uno spazio. L’orecchio percorre lo spa­zio musicale, come l’occhio percor­re la figura dipinta o scolpita; spez­za l’involucro del momento in cui il suono è presente; ricordo e attesa sono spazio, lo spazio è: ricordo e attesa.

Dentro e fuori di me sento molti suoni. Dodici sono privilegiati e, di questi dodici, particolari successioni di sette si sovrappongono come la­stre di cristallo, grani di un rosario o serie di momenti colorati.

Anche per me le varie tonalità hanno un colore. Musicologi e musicisti hanno tentato di scoprire le ogget­tive colorazioni delle tonalità. Sfor­zo ingenuo e inutile; eppure io penso che non esista nessuno che non dia un colore ai suoni; perciò il musi­cista, che sa più o meno cosa vuol dire mi bemolle maggiore o fa mino­re, quando sente nell’orecchio l’ac­cordo di mi e di fa, immediatamen­te, nella mente, li colora.

Per me, ad esempio, la tonalità di mi bemolle maggiore è bruno dora­ta, quella di fa minore sfuma dal blu all’azzurro; ben diversa da quel­la di fa maggiore, tutta azzurra, con una sola nota evidente ed allegra, di un giallo brillante: il si bemolle. Anche i rapporti tra i suoni hanno un colore che cambia: ogni settima, ogni nona, ogni diminuita hanno un colore; ogni consonanza, ogni disso­nanza.

Questo è un linguaggio antico, colo­rato e preciso.

Io sono un compositore d’oggi ed ho scelto di tendere questo linguaggio oltre se stesso. Talvolta mi si spez­za tra le mani. Imperiosa nella mia mente si presenta una successione armonica: tonica – sottodominante e poi una serie di suoni ammucchiati e contraddittori. L’ultimo va alla ri­cerca di una sensibile come un’eco lontana che mi attrae. Mi ribello alla tonica e una serie di dodici suo­ni imita un altro linguaggio. Spero sempre che non sia soltanto un ge­sto di ribellione. Voglio che, dietro a tutto, ci sia una linea di sviluppo.

Io mi sento solitario.

Nei tempi passati il linguaggio mu­sicale era più omogeneo.

A Versailles e sotto la Bastiglia vi erano musiche un po’ diverse; ma i moduli linguistici erano gli stessi. La Juppiter di Mozart si radica nella stessa struttura di linguaggio di una corrente popolare del Settecento. Perché io, adesso, debbo usare (quan­do sono un compositore « serio ») un linguaggio diverso da quello che continuano ad usare tutti? Perché, se adesso mi proponessero di scri­vere un branetto musicale per il ca­rillon di un campanile, non saprei che linguaggio usare’)

Perché la gente, quando passa per strada, fischietta (quando fischietta, naturalmente) usando una gramma­tica ed una sintassi che io debbo rifiutare in una sala da concerto? Freud aveva detto che la psicoana­lisi ha un linguaggio particolare, per cui può essere usata soltanto con persone che siano in grado di co­gliere questo linguaggio, di penetrar­lo e di usarlo.

Io ho rifiutato questa aristocrazia e mi sono accorto che era un bluff di Freud. Il linguaggio è prima della psicoanalisi. II linguaggio è quello C-Iirio ho, “Che tu hai.

Íl linguaggi-O non coincide con il de­siderio; ma il linguaggio può servi­re a costruire il desiderio. Le parole sono sempre presenti.

Anche le lettere dell’alfabeto hanno un colore; così le parole. Si è cercato di determinarlo, sforzo inutile in sé, ma utile perché divertente. Mi sono sempre chiesto se le formu­le linguistiche delle immagini siano meno rigide di quelle dei suoni. Molte persone, quando telefonano o ascoltano una conferenza, se hanno una matita in mano, formano dise­gni. C’è chi disegna volti di profilo, occhi, fiori; c’è chi circonda il pro­prio nome di svolazzi barocchi, e c’è anche chi costruisce grate sempre più fitte e intricate. Molti fanno di­segni astratti, linee e macchie. Nes­suno, però, soprattutto se non è un musicista, che se lo impone per do­vere, canta brani atonali mentre si fa la doccia o guida l’automobile, canta cioè al di fuori di quel lin­guaggio musicale appreso alle ele­mentari e ribadito dalla televisione. , Io ho paura ella banalità, ho paura/ ii aTEPetermi; ma ho so~utto pau- iiiradrtlasalitudifiem. so che potrebbe I i perdermi.

Ogni volta che scrivo musica spero di non usare più il linguaggio tradi­zionale e spero cheogrti mia compo- sizione imposti, ogni voTfa, perento- iTahfente, un linguaggio. bifovo.

Ogni brano che scrivo è comprensi­bile, a fondo, solo al secondo ascol­to. Io imposto una formula lingui­stica_ e poi la sviluppo. Mi_eliedo sempre però- _ba senso costruire ogni volta un nuovo esperanto?

Io h,o soprattutto paura della solitudine.

Psicoanalisi contro n. 2 – Eros e Bios: anche la nascita del rito (2^parte)

venerdì, 1 ottobre 1993

Quattro sono le cause di quell’atteggiamento di chiusura che ormai siamo avvezzi a chia­mare “Narcisismo”:

1) la frustrazione; 2) la compensazione; 3) la paura; 4) la difesa. Ne tratteremo ponendole in successione: prima l’una, poi l’altra e così via; ma, in realtà, queste cause si dispongo­no circolarmente e si rafforzano reciproca­mente.

La frustrazione del desiderio è il secondo-pri­mo sentimento che l’uomo prova (dico: «se­condo-primo» perché, pur manifestandosi fin da subito, è uno stato che consegue a…): il desiderio del piacere e il piacere del deside­rio, nel loro dirigersi verso…, trovano una barriera, un’ottusità, una sordità, cioè una im­possibilità. L’essere vivente, che è costituito da questo dirigersi verso…, sperimenta una situazione di sofferenza e disorientamento; ma, nuovamente, il desiderio del piacere e il piacere del desiderio risorgono ed egli cerca una compensazione: «se l’altro da me mi re­spinge – si dice – io mi appago in me stesso», e la fantasia dilata il me, smisuratamente. Come ho già detto, sorgono tensioni succes­sive. È presente, però, la paura continua di ul­teriori rifiuti e frustrazioni. Il desiderio del piacere e il piacere del desiderio tentano an­cora di dirigersi verso…, tenteranno sempre. Se però il dolore irrompe, con la sua forza di rifiuto, massicciamente e frequentemente, nell’esperienza si instaura come meccanismo di difesa, il ripiegamento; il tentativo di ri­fiutarsi di percepire il fuori di sé. Ma, abbia­mo detto, il vivente è costituito dalla relazio­ne e dal dirigersi verso…, per cui, non poten­do abolire questo meccanismo, tenta allora di porsi in relazione con sé, dirigendosi verso di sé. Il narcisismo è una situazione esperien­ziale che l’essere umano impara ad usare come difesa. Il narcisismo esprime l’origina­rio atteggiamento di difesa dal dolore che viene attuato negando il fuori di noi che ci ha respinto; con una negazione che è anche un gesto morale di condanna. È un atteggia­mento difensivo. Vi sono strutture di personalità nelle quali la difesa narci­sistica è preponderante, in nessuno, comunque, è completamente eliminabile, poiché, al momento, sono ineliminabili fru­strazione, compensazione e paura della fru­strazione.

Anche le caratteristiche del narcisismo sono quattro. 1) paura; 2) violenza; 3) antropofa­gia; 4) labilità dell’investimento libidico. Ecco che ritorna il termine paura. Avevo po­sto la paura tra le cause della difesa narcisi­stica, ora la ripropongo, come prima, nell’elenco delle caratteristiche essenziali del narcisismo. Abbiamo detto che il piacere è alle origini ed è costitutivo dell’individuo, dobbiamo anche dire, però, che la possibilità della distruzione del piacere sorge contem­poraneamente.

La precarietà è un elemento costante del modo d’essere del vivente: l’individuo impa­ra subito come il desiderio, presente sempre, possa sempre essere distrutto. La paura espri­me l’atteggiamento tipico di chi teme di per­dere ciò a cui tiene massimamente. Il timore e la paura però non rimangono a lungo nel l’essere umano senza provocare i loro effet­ti. Chi teme, chi ha paura, si irrigidisce; ac­quisisce in un primo tempo l’atteggiamento di diffidenza poi scopre (per meglio dire: im­para) la violenza. Il narcisista, o colui che at­traversa un momento narcisistico, è inevita­bilmente violento. Si tratta però di una vio­lenza tutta particolare: una violenza inconsa­pevole. Chi è prigioniero della difesa narci­sistica ha negato l’altro; e il modo migliore di negare l’altro è quello di rifiutarsi di per­cepirlo, rifiutandosi anche di ascoltarlo. Il narcisista non ascolta; egli parla, non sa nep­pure a chi stia parlando, o meglio, non si pone il problema di essere o no in sintonia con l’al­tro; per il narcisista l’altro non ha una realtà che si dirige verso… Chi è chiuso nella dife­sa narcisistica ascolta soltanto se stesso e vio­lenta l’altro, costringendolo ad essere ciò che egli vuole che l’altro sia.

Ecco perché ho detto che il narcisista è an­tropofago: perché non permette agli altri di vivere autonomamente; rifiuta loro ogni au­tonomia esistenziale, perché se fossero

autonomi potrebbero aggredirlo e ferir­lo. L’altro viene quindi ingoiato, in­globato nel mondo del narcisista.

Quali siano i sentimenti dell’altro, marionet­ta nelle mani del narcisista, non importa più; peggio: il narcisista non si pone neppure il problema. Questa incapacità di percepire l’al­tro ha la sua origine in un rifiuto d’amore: chi mette in atto difese narcisistiche non può ce­dere la propria immagine ad un altro e a fa­tica ne sente il richiamo libidico. Potremmo dire che il narcisista «scopa»; ma non fa mai «l’amore». Questa espressione idiomatica: «scopare», esprime abbastanza bene il com­plesso stereotipo di gesti compiuti da un nar­cisista nel rapporto sessuale. Nel rapporto narcisistico, il piacere sessuale cerca essen­zialmente gratificazioni sul sé, l’altro è un pretesto, uno specchio che riflette l’immagi­ne del narcisista.

Spesso il narcisista è profondamente convin­to di essere «perdutamente innamorato»; ma non appena l’oggetto amato cerca di ribellar­si al ruolo impostogli, di pura ombra senza desideri, ecco che il sentimento così assolu­to sfuma, diventando labile. Il narcisista non tollera di avere rapporto con un essere uma­no che manifesti esigenze, affettive o sessua­li, diverse dalle proprie. Quando è costretto a percepire l’altro come altro da sé, il narcisi­sta si sente offeso, perché ne ha paura; e al­lora l’innamoramento cade con estrema faci­lità e un nuovo oggetto verrà investito libidi­camente, ancora una volta l’innamoramento parrà dapprima emotivamente intenso; ma un altra volta cadrà, non appena l’altro cercherà di farsi percepire, e tutto ricomincerà da capo.

Avrei voluto descrivere sia le cause della difesa narcisistica, sia le caratteristiche del comportamento narcisistico con asettica neutralità morale; questo – mi hanno detto – è l’atteggiamento del buono scienziato. Mi accorgo di non esserci riuscito: giudizi morali o moralistici permeano le descrizioni che ho fatto sopra; ma non mi va di riprendere tutto da capo e di riesporlo in altro modo. Per fortuna, mi accorgo che mi sono servito di due tipi di giudizio morale non solo contrastanti; ma addirittura opposti fra loro. In un primo tempo, ho detto che la difesa narcisistica sorge in una situazione di precarietà: chi si sente rifiutato nel proprio dirigersi verso l’altro, cerca in qualche modo di superare la frustrazione negando l’altro e cercando gratificazioni sul sé, e così facendo ho proposto il narcisista come una vittima. In un secondo tempo, ho proseguito il discorso, descrivendo in modo truculento la perfidia del narcisista, trasformandolo così in carnefice. Per ora lascio aperto il discor­so… L’atteggiamento narcisistico compro­mette la persona nella sua interezza; non solo il rapporto sessuale, ma ogni altro tipo di rap­porto acquista un significato particolare. Chi vive narcisisticamente non percepisce i mu­tamenti di umore di chi gli sta intorno e non percepisce neppure i cambiamenti ambienta­li. Ricordo un mio paziente molto narcisista il quale continuò a frequentare il mio studio durante un periodo in cui mobili e suppellet­tili venivano cambiati; egli non si accorse as­solutamente di nulla. Quando gli feci notare i cambiamenti rimase stupefatto e anche un po’ offeso. Da quel giorno incominciò, a sca­denze regolari, a notare che un mobile era stato spostato, un altro sostituito, che un nuo­vo oggetto era comparso; naturalmente sba­gliando quasi sempre. Una signora dolce ed elegante, convinta di essere molto sensibile, altruista e attentissima ai sentimenti degli al­tri, dopo aver sentito un mio discorso in pub­blico sulla impermeabilità dei narcisisti nei confronti del mondo esterno, rimase alquan­to toccata e, da quella volta, quando mi in­contra, scrutandomi con attenta amorevolez­za, mi attribuisce le situazioni emozionali più strane e variopinte, mentre palesemente, con­tinua a non percepire niente di me, a non ve­dermi neppure.

La positura narcisistica è, secondo me, l’im­pedimento maggiore per quelli che vogliono diventare psicoterapeuti. La teoria psicoana­litica classica afferma che la chiusura narci­sistica, nel paziente, impedendo l’instaurarsi di un transfert produttivo, rende impossibile l’analisi. Ciò è vero; io ritengo, però, che l’at­teggiamento narcisistico sia ancor più peri­coloso per chi si assume l’onere di fare il te­rapeuta. Conosco alcuni terapeuti profondamente chiusi entro le loro difese nar­cisistiche i quali mimano l’interesse durante le sedute. Il massimo coinvolgimento affettivo e politico che riescono ad avere con il cosiddetto paziente consiste in un contrappunto, caratterizzato da un con­tinuo, e mentale: «anch’io»… «io invece». Qualunque cosa il paziente dica loro, il mas­simo sforzo che riescono a fare consiste nel confrontare continuamente loro stessi con i sentimenti e le scelte dell’altro. Anche il modo di dialogare del narcisista è tipico: o non ascolta, e attende con impazienza che l’interlocutore smetta per cominciare a parla­re egli stesso, oppure replica sempre inizian­do con la formula: «Io invece…».

Quando assumiamo l’atteggiamento narcisi­stico, non riusciamo a calarci libidicamente nell’altro: la carne, il calore, la sessualità dell’altro ci rimangono esterni; guardiamo gli altri senza vederli, parliamo senza ascoltarli, li tocchiamo senza sentirli.

La difesa narcisistica è la maggior responsa­bile dell’ottusità mentale e, talvolta, anche dell’incapacità di memorizzare e di appren­dere. Per imparare davvero qualcosa è indi­spensabile percepire sensualmente tutto ciò che accade intorno a noi. È indispensabile es­sere all’erta e sentire le somiglianze e le di­versità. Studiare quando si è in una situazio­ne di narcisismo significa scontrarsi con la difficoltà di non ricordare ciò che si legge e dover ricominciare ogni volta che si è al ter­mine di una pagina, oppure riuscire a impa­rare alcune nozioni senza sapere poi quale uso farne, perché si è incapaci di proiettarle sul reale.

Un giovane psicoanalista, ottusamente narcisista, mi poneva, con simpatica umiltà, questo problema: «Io – mi diceva – dopo alcuni anni di analisi personale, dopo aver letto la maggior parte dei testi della letteratura psicoanalitica e psichiatrica, ufficiale e non, quando mi trovo davanti ad una persona e voglio cercare di capirla, ho l’impressione che tutto quello che ho studiato sparisca, o meglio: non lo so applicare; la persona parla e a me viene sonno». Questa, io credo, è una esperienza comune a molti psicoterapeuti alle prime armi. Il rapporto diretto con la psiche di un’altra persona li sconvolge e li disorienta. Però, chi ha condotto la propria analisi senza coinvolgimento reale col terapeuta, cercando soprattutto di parlare e ascoltando poco, se pure è riuscito a chiarire a se stesso molti problemi psichici, non è però riuscito a spezzare il diaframma che è indispensabile spezzare perché una ana­lisi possa dirsi riuscita. È il diaframma co­struito dalla paura e dalla difesa narcisistiche. Questa pellicola, talvolta sottile, impalpabile, ma paralizzante come un’armatura, tende continuamente a riformarsi, soprattutto dopo esperienze frustranti.

A questo punto vorrei parlare di un atteggia­mento diametralmente opposto, anche se ha la stessa genesi difensiva: il comportamento sadomasochistico.

Mi pare abbastanza evidente (ma è meglio esplicitarlo) che io, qui, ora, sto elaborando una sistemazione soprattutto logica: sto de­scrivendo due atteggiamenti e comportamen­ti esistenziali, il narcisismo e il sadomaso­chismo, usando una serie di astrazioni utili anche operativamente, ma che servono so­prattutto per il discorso. Allora dovrei dire che si tratta di pure costruzioni mentali? Io spero di no, per due ragioni: la prima è che una costruzione mentale non è mai soltanto una costruzione mentale; la seconda è che un discorso sistematico, anche se astratto, è si­stematico appunto perché cerca di sistemare un materiale che tende alla sistemazione, seb­bene, per fortuna, non sia riducibile intera­mente alla sola sistemazione.

La cultura dell’Ottocento, nei romanzi, in teatro e in psicologia, ha scoperto il sadismo e il masochismo Il marchese de Sade e lo scrittore Sacher von Masoch hanno prestato i loro nomi alla definizione di questi due com­portamenti umani vecchi quasi quanto l’uomo. Le osservazioni più o meno psicolo­giche hanno inoltre scoperto che questi due comportamenti sessuali si presentavano in coppia. Colui che, per provare il piacere ses­suale, deve infliggere sofferenze al partner, allo stesso tempo, in modo più o meno fan­tastico, desidera anche provare le esperienze della sua vittima e, ovviamente, viceversa, colui che ama essere la vittima si identi­fica anche con il carnefice.

La psicologia, descrittiva e non, del tardo Ottocento, e anche la psicoanalisi, hanno tentato di compilare un elenco del­le cosiddette perversioni sessuali, cioè di quei comportamenti che si allontanano così tanto da ciò che la consuetudine ritiene deb­ba essere la sana attività sessuale da perver­tirne il senso; e il senso della sessualità nor­male è identificato soprattutto con la pro­creazione. (Il fine e il significato della ses­sualità è stato posto nella procreazione, come ho detto, ma non bisogna tacere che la psi­coanalisi si è sempre sforzata di mettere in evidenza anche l’aspetto legato al piacere). È un fatto ormai che le perversioni sessuali, elencate, discusse e raccontate fanno bella mostra di sé nei trattati e nella letteratura. La coppia sadismo-masochismo, insieme con l’omosessualità, rappresenta il tipo di perver­sione che ha fatto più orrore alle coscienze nell’ultimo secolo. Un orrore pieno di fasci­no tenebroso.

Era abbastanza inevitabile che da queste basi scaturissero poi anche gli esaltatori della perversione; per ragioni estetiche prima, politiche poi. Ed ecco le estetiche e le ideologie che esaltano il diverso. Un diverso, però, secondo me, assai poco diverso. Tutto sommato, la cultura contemporanea ha preso per buone l’elencazione e la descrizione delle perversioni come le ha catalogate la bèlle époque ed ha tentato di metterli addosso a noi, come se fossero costumi di carnevale: il costume del normale in una categoria a parte; poi quello dell’omosessuale, del sadomasochista, dell’esibizionista, del feticista, e via discorrendo. La psicoanalisi, dal canto suo, teorizzava che l’essere umano nasce, vero prodigio di circo, avendo addosso, o almeno a disposizione, tutti i costumi di questo carnevale della sessualità. Da quando ho incominciato ad interessarmi della psiche umana, mi sono imbattuto nella diagnosi. Dapprima vi ho creduto assolutamente, tentando di calare ogni persona che incontravo dentro uno schema diagnostico; poi mi sono accorto di come le diagnosi siano abiti che non si adattano mai alle persone singole; malgrado i più abili lavori di aggiustamento che una sartoria potrebbe fare. Ogni essere umano sfugge, sempre, con ostinazione, ai tentativi più volenterosi di imprigionarlo in uno schema rigido. A questo punto sorge (sorse anche in me) l’iconoclastia anti­diagnostica. Con furia mi diedi a distruggere le nuove icone, le cartelle cliniche, le descri­zioni precise. Ora mi sono stancato anche di questo furore delirante. Mi rimangono molti brandelli variopinti e intatta e insoddisfatta la voglia di capire gli altri e me stesso. Potrei assumere l’atteggiamento moderato di chi dice che le diagnosi e le definizioni hanno un carattere strumentale ed operativo; che pur sapendo che l’essere umano è molto più ric­co bisogna comunque tentare di descriverne il comportamento. Io, però, conosco anche il pericolo che si nasconde nelle parole. Le pa­role non soltanto descrivono; ma, spesso, creano. Le parole sono altro dal desiderio; ma condizionano il desiderio. Io sento e dico con le parole che io non sono solo parole; ma esse sono presenti nei miei pensieri e, spesso, le mie parole e la mia carne sono sentite e pro­nunciate allo stesso tempo.

Il catalogo delle perversioni, quindi, è un elenco di diagnosi e una serie di «parole». Accettarlo è riduttivo, rifiutarlo interamente pare impossibile. Non voglio, però, esserne prigioniero. Voglio cercare di liberarmene al­meno in parte. Ho contrapposto, prima, il nar­cisismo al sadomasochismo: questa è una contrapposizione che mette in relazione. Ho sommato due concetti che non bisognava sommare. Il narcisismo non faceva parte del catalogo delle perversioni, tutt’al più è la cau­sa di alcune di queste, il sadomasochismo, in­vece, è una perversione. E allora ? Allora si vede che ho preso questi due vecchi concetti e li ho un po’ rimescolati e stravolti.

Il narcisismo e il sadomasochismo sono, per me, due modi fondamentali di affrontare la relazione sessuale, e poiché ogni relazione sessuale è anche una relazione e ogni rela­zione una relazione sessuale, possiamo dire che sono due modi fondamentali di affronta­re il rapporto con l’altro.

Il primo modo, quello narcisistico, affronta la relazione tentando di negarla. O meglio: il narcisista tenta di negare l’altro come altro riconoscendogli soltanto una pre­senza fantasmatica nell’obbiettivo di renderlo innocuo e controllabile.

Il sadomasochista, invece, va alla ricerca dell’altro, come tale, nella sua concretezza. Se l’altro non è sentito e vissuto come altro, il sadomasochismo non è sadomasochismo. Il comportamento sadico sessuale consapevole, non solo vuole, ma deve sentire l’altro come altro da far soffrire. Più l’altro è altro, mag­giore è il piacere di infliggergli sofferenza. Nel rapporto sadico è indispensabile percepi­re l’altro nelle sue vibrazioni sensuali, per meglio coglierle realmente, per vibrare con precisione il colpo. Così nella situazione ma­sochistica l’altro deve essere sentito come al­tro che, nella sua alterità, infligge la soffe­renza. Perché il piacere sia pieno bisogna convincersi che sia realmente un altro a strin­gere, ad opprimere ad umiliare. L’Io non deve sapere nulla dei meccanismi proiettivi per i quali l’altro diviene anche non altro, in un gioco di specchi contrapposti. Il gioco ha le sue regole e solo una stupida pedagogia considera il gioco come un’illusione.

Un pomeriggio venne da me un ragazzo: gentile e bruttino. Con una vocetta sentimentale incominciò a parlarmi usando molte espressioni convenzionali da rotocalco; ma c’era in lui qualcosa di leggermente inquietante. Pian piano, nel corso della conversazione, vennero fuori fantasie sadomasochistiche attente e precise. Poi mi parlò dell’esperienza di collegio, dei terribili giochi cercati e subiti, echeggianti il ricordo letterario di Musil e del suo giovane Thrless.

La volta successiva ritornò; era passata una settimana; ma, dalle sue parole, mi accorsi che aveva percepito tutto nel corso del nostro precedente incontro: il mio abbigliamento, la mia casa, gli odori, i suoni, i rumori del quartiere. Un inizio di transfert? Senz’altro, ma anche qualcosa di più. Un bisogno di attenzione, di mettere all’erta la pelle e lo sguardo, per essere pronto a non perdere la possibilità di ferite da infliggere e da subire. Altrimenti la realtà sfugge, il piacere rischia di non essere avvertito, di presentarsi senza la sua punizione e questo non sia mai! Ecco: di nuovo la difesa, il desiderio del piacere e il piacere del desiderio che fanno muovere l’essere vivente o meglio: che cominciano a muovere nell’essere vivente. Ma ciò che è intorno è sentito come rigido ed ostile; il de­siderio si smarrisce e si disorienta, si sente debole, ha paura; ma non fugge: attacca. La sofferenza è un modo di appropriarsi di una relazione difficile in cui il senso di col­pa si presenta subito, perché è già presente tutto intorno. Il desiderio è piacevole; ma cer­ca di travestirsi con i panni del suo contrario. Sono nuovamente presenti le quattro cause che hanno originato anche il narcisismo: la frustrazione del desiderio, da cui la ribellio­ne compensatoria; la paura di un’ulteriore impossibilità della relazione, da cui inizia il meccanismo di difesa. Il piacere nega se stes­so, negando il rapporto diretto con l’altro: è indispensabile il diaframma del dolore; ma, poiché si cerca fuori di sé la compensazione, non si devono qui chiudere le finestre sul­l’esterno, anzi: i giochi sono capovolti, i ge­sti vengono rovesciati.

Il sadismo e il masochismo riescono di rado a raggiungere la consapevolezza. Nell’ana­lizzare il narcisismo e il sadomasochismo, ho ritrovato in pieno il pregnante significato dell’inconscio. Io ho più volte ripetuto che la psicoanalisi tradizionale ha eccessivamente schematizzato la psiche umana, dividendo in modo troppo netto il conscio dall’inconscio (inserire il concetto di pre-conscio non è suf­ficiente). Pur continuando a ritenere valida questa mia affermazione, mi rendo però con­to di aver avuto troppa vergogna dell’incon­scio; come se offrisse una scappatoia troppo facile per non spiegare ciò che non si ha il coraggio di capire.

Eppure l’inconscio non è un’ingenua trovati­na tardo ottocentesca. È la più importante scoperta impossibile del nostro secolo. L’in­conscio mi si è ripresentato ora con tutta la sua oscura forza. Il narcisismo si presenta compatto; ma con una gran parte di sé ri­mossa e, sotto ancora, ci sono fantasie sado­masochistiche decisamente inconsce. Il sado­masochismo ha, da parte sua, operato una massiccia rimozione del narcisismo, produ­cendo un Io claudicante e falsamente on­nipotente. Sulla strada del sadomaso­chismo ho anche trovato, però, un at­teggiamento particolare, che mi ha, lì per lì, lasciato perplesso. È, questo, un atteg­giamento al quale la psicologia non ha anco­ra affibbiato un nome-etichetta; perciò si trat­ta di qualcosa di particolarmente sfuggente; ma che si può riscontrare nella realtà della persona, preciso e puntuale. È l’atteggiamen­to di colui che, pur avendo poche fantasie sa­domasochistiche consce, è riuscito a liberar­si sufficientemente del meccanismo di difesa narcisistico e, quindi, percepisce l’altro in­tensamente, perché cerca dall’altro gratifica­zione, consenso. L’altro è percepito come al­tro perché possa appoggiare ed applaudire e, soprattutto, ammirare. Intendiamoci, non parlo del desiderio di ammirazione ottuso ed opaco del narcisista, per il quale l’altro e gli altri sono una presenza indistinta, una platea, immersa nel buio, di fronte alla quale egli re­cita. In questa situazione, gli altri debbono necessariamente essere altri, altrimenti non si gode a sufficienza, non si è adeguatamente rassicurati. A questo punto del mio discorso, sono assolutamente certo che i narcisisti che stanno leggendo queste righe si sono identi­ficati con quest’ultimo tipo di persone. Que­sto è, invece, un atteggiamento che si riscon­tra abbastanza raramente; ma la cui presenza ha rischiato, per un po’, di mettere in crisi la mia bella visione dicotomica e speculare. Fortunatamente, i quattro meccanismi di cui ho detto più sopra si trovavano già ad essere elementi unificanti originari dell’atteggia­mento narcisistico e di quello sadomasochi­stico; atteggiamenti la cui differenziazione avviene poi per ragioni legate alla storia del desiderio individuale.

Questo, apparentemente, terzo atteggiamento, che chiamerei: senso ontologico di ca‑strazione, lo situo sulla strada del sadomasochismo. La frustrazione originaria costituisce la persona come mancante. La paura e la difesa mettono in atto un particolare tipo di compensazione, per cui non è tanto il senso di colpa ad agire, quanto il bisogno di una gratificazione immediata, che viene trovata nell’ammirazione protettiva. Se portiamo a fondo l’analisi di questa personalità e di questi atteggiamenti, troviamo una gran quantità di desideri sadomasochistici abortiti ed un egoismo tenace e caparbio che ha superato persino il ripiega­mento sul sé narcisistico. Chi si trova im­merso in questo atteggiamento ha, spesso, un estremo bisogno del sentimento di ricono­scenza da parte dell’altro. Vediamo questi in­dividui profondamente offesi, quasi si sentis­sero espropriati, quando un dono che essi fan­no, anche piccolissimo, non viene notato dall’altro che non si affretta a manifestare su­bito una profonda gratitudine. Colui che si trova in questa situazione è anche un avaro, quanto e, forse, più del sadomasochista. Il de­naro ha per lui un profondo significato sim­bolico; riesce a destargli immaginazioni di aggressione, agita e subita. Costui prova spesso una profonda avversione ad entrare nei negozi, soprattutto in quelli in cui il rap­porto col venditore è più personale, con il di­retto scambio tra merce e denaro.

Anche per questo, forse, l’economia di mer­cato ha inventato la formula del grande ma­gazzino, luogo in cui il rapporto è più ano­nimo, dove manca la figura che ti assilla os­servandoti mentre chiedi e strappandoti di­rettamente di mano il denaro. Nel grande magazzino le commesse e i commessi sono persone distratte e disinteressate; la merce è sciorinata in un’inerzia spesso caotica; il de­naro viene ingoiato da un aggeggio mecca­nico che produce suoni fantascientifici, non ben distinto dalla figura della persona che lo manovra.

Le persone che si trovano in questa situa­zione non reggono alla competizione, a dif­ferenza del narcisista che la cerca; ma, spes­so, non la percepisce. Qui, il sadomasochi­smo fa che la competizione sia desiderata; ma il timore della sconfitta rende spesso troppo insicuri e perciò rinunciatari. In que­sto aspetto possiamo forse vedere il punto che unisce narcisismo e sadomasochismo: entrambi sono comportamenti sempre ses­suali, perché sessuale è, sempre, ogni com­portamento.

Non me la sento, e non ne ho voglia, di de­finire qui che cosa sia la sessualità (debbo purtroppo riconoscere che il non detto soverchia, sempre e di gran lunga, il pochissimo detto).

Sessualità e rapporto narcisistico, sessualità e rapporto sadomasochistico (per­ché pur sempre di rapporto si tratta) sono comportamenti che si circoscrivono entro la dinamica vitale. Wittgenstein ha detto: «La morte non è evento della vita. La morte non si vive» (cfr. «Tractatus», 6.4311).

La psicoanalisi in una balorda crisi metafisi­ca, ha teorizzato la pulsione di morte; ma noi dobbiamo sapere che la morte che avviene è tutt’altra cosa: la vita è circoscritta, tutta, nel­la vita. È troppo ingenuo far coincidere il do­lore con la morte, e forse anche troppo co­modo. Il dolore è distruttivo appunto perché non distrugge del tutto. Le fantasie dell’adul­to e del bambino sentono il dolore come male, proprio perché è presente come forza della vita.

Ho detto che la cultura è rappresentazione, e la rappresentazione è sempre rappresentazio­ne di una lotta fra il bene e il male, i quali non sono altro che il piacere e il dolore. Ho anche detto che questa rappresentazione si realizza negli istanti dell’attesa. La fantasia colma i vuoti apparenti (perché mi sembra abbastanza evidente che non esiste, vera­mente, il vuoto). Nell’attesa in cui sorge e si distende il desiderio, nasce il nostro bisogno di inventarci il tempo.

Il tempo misura la durata del desiderio. L’at­tesa è sempre un proiettarsi all’esterno. In questo dirigersi, il desiderio aspetta. In que­sto aspettare sorge il concetto di tempo. Un concetto, questo, la cui unica raffigurazione corretta è rappresentata dalla misurazione che ne fanno i nostri imprecisi orologi; im­precisi sempre, perché sempre altro dal desi­derio; ma, nello stesso tempo, sempre preci­si, perché sono l’unica oggettivazione possi­bile del tempo.

In questa temporale estensione del desiderio sorge il teatro della cultura: tempo e cultura, tempo e arte, coincidono.

La rappresentazione desiderante non coincide con la pulsione desiderante; ma le si sovrappone. I contorni quasi combaciano; ma non perfettamente. Il tempo non è il significato dell’esistenza.

L’esistenza si inventa il tempo per colmare e placare la tensione del desiderio. Il tempo è il senso della rappresentazione. La rappre­sentazione desiderante si sovrappone al de­siderio, senza contrasto: potrei dire che è un desiderio che si sovrappone ad un altro de­siderio. La rappresentazione desiderante si distende nel tempo per appagare ciò che il tempo ci fa sentire come di là da venire. A questo punto, le avventure mentali posso­no essere molte: giochi e capriole logiche che, forse, mi costringerebbero a trarre una conclusione che non voglio, cioè che la rap­presentazione desiderante, pur avendo come suo senso il tempo, sorgerebbe per contrad­dire il tempo, per opporglisi, per costringer­lo in un presente atemporale.

Cerco di spiegarmi meglio: il tempo e la rap­presentazione desiderante sorgono entrambi quando il desiderio attende, e il desiderio è sempre un po’ in attesa. La rappresentazione desiderante sorgerebbe allora per colmare la sensazione di vuoto dell’attesa, la quale si presenta a noi perché c’è il tempo; quindi la rappresentazione desiderante sorgerebbe per distruggere il tempo. Ma, se il tempo è il suo significato, la rappresentazione desiderante sorgerebbe per distruggere il proprio signifi­cato.

Io che amo le contraddizioni sono talvolta messo a disagio dalle contraddizioni stesse. Questa è una di quelle che rischiano di mo­dificare i miei pensieri, rendendoli sterili ed inefficaci. La soluzione la trovo, forse, im­mergendomi con un po’ meno di paura nel concetto di tempo.

Finora ho parlato di tempo come di qualco­sa di reale e di misurabile solo con se stes­so; ma gli orologi non sono il tempo, ne sono soltanto la misura. Il desiderio e la rap­presentazione desiderante non sono unidire­zionali come il tempo; essi si diramano per vie molteplici. Il tempo sorge per imprigio­nare il desiderio: prigionia assai utile; ma che è solo una delle possibilità del deside­rio. Quindi, la rappresentazione desiderante ha come suo senso il tempo; ma non coincide con esso: sorge nel tempo, si distende nel tempo, ma tenta, peren­nemente, di liberarsene.

Ecco perché io penso che la rappresentazio­ne del desiderio più immediata, quella più vi­cina al desiderio stesso, sia la musica. La mu­sica fa del tempo la sua ossatura; ma riesce quasi (o forse ci riesce del tutto) a distrug­gerne l’unidirezionalità. Il tempo della musi­ca è il ritmo. Il ritmo è il tempo nel momen­to stesso in cui è sentito, nel momento, quin­di, in cui, quasi, non è ancora tempo; ma è solo pulsione che si dirige e che, in questo suo dirigersi, gode nell’ascoltare il suo mo­vimento. Movimento che non è spazio, ma è ritmo.

Il ritmo è costituito dall’alternarsi della pau­sa e della presenza: pausa che diventa pre­senza e presenza che si trasforma in pausa. Il bene e il male, cioè: il piacere e il dolore, pulsano e si distendono in un ritmo. Io, però, nego che il dolore sia necessario al ritmo del piacere. Tutto viene ritmato; ma il ritmo è su­bito, è prima: nel distendersi stesso del pia­cere. Se non ci fosse il ritmo, il piacere, è vero, non percepirebbe se stesso; ma io riaf­fermo, con tutte le forze di cui sono capace, che il ritmo del piacere non è dato dal suo al­ternarsi col dolore, bensì dal piacere che sco­pre se stesso. Il dolore è la contraddizione non necessaria del piacere e viene incluso nel ritmo, malgrado il ritmo stesso.

La rappresentazione sorge nell’attesa, quan­do l’attesa viene percepita come tale. Il pen­siero si realizza nel teatro: è una fantasia che coincide, quasi, con la realtà; ma che non è la realtà.

Il teatro è la prima e forse l’unica forma di cultura. La tradizione storica pretende che il teatro sia scaturito dal rito. Nei tempi antichi, si racconta a sostegno di questa tesi, avevano luogo rappresentazioni sacrificali. Presso i villaggi, in luoghi aperti e sacri, talvolta presso qualche grande albero, la gente si radunava per sacrificare a qualche dio (alcuni dicono a Dioniso). Il sacerdote raccontava le imprese del dio, il popolo punteggiava questo racconto con canti. In seguito, il racconto divenne rappresentazione e i fedeli, da partecipanti al rito che erano, si trasformarono in spettatori. I compiti si differenziarono in modo più netto: nacquero gli attori, qualcuno scrisse i testi e le musiche, sorse il teatro; in seguito sorsero i teatri.

Io intendo capovolgere questa storia, affer­mando che: prima sorse il teatro, poi, sui mo­dello del teatro, sorse il rito. Secondo me il rito è figlio del teatro, e non viceversa.(6) Il sogno è forse la prima forma concreta di teatro: nel sogno l’uomo racconta a se stes­so, impersonandoli, i propri desideri. Un la­psus che tutti facciamo molto frequentemen­te è quello di chiamare sogno uno spettacolo cinematografico o una rappresentazione tea­trale, non facciamo più nessun caso a questo lapsus, poiché lo riteniamo una di quelle ov­vietà che non hanno bisogno di spiegazioni. Tutti percepiamo il sogno come rappresen­tazione, e viceversa. I sogni si sono formati per primi; poi, lentamente, dalle rappresen­tazioni del pensiero, nel sonno o nella ve­glia, si passò a brevi rappresentazioni quoti­dianamente agite: il canto, il lamento, il pas­so danzante; si incominciò ad usare suoni e gesti per esorcizzare la paura. Questi suoni e questi gesti confluirono poi nel rito, dove ‘,i organizzarono, nell’intenzione di raccon­tare una storia che servisse ad esorcizzare il pericolo.

Il rito è ancora così vicino al desiderio che ri­produce, quasi intatto, il ritmo del piacere. Il rito si snoda con un ritmo esplicito e quasi sempre evidente: i gesti, le parole, gli odori, riproducono la danza originaria, scaturita dai 2esideri del sogno e della veglia. Il piacere e e pulsione libidica pulsano, seguendo il loro amo. Il sogno, il pensiero e la danza mima­eo questo piacere cogliendolo, quasi, nel- ‘istante stesso in cui sorge. Lo riproducono, fanno scaturire dalla successione dei gesti, :no a produrre una rappresentazione autono­-.a, organica, che si distende e si articola nel – :mo suo proprio. L’apparente autonomia ne i gesti rituali sembrano conservare nei -infronti della loro fonte piacevole serve a • calizzare la loro funzione di esorcismo.

L’essere umano sente fin da subito che frustrazione del desiderio non è cau:a soltanto dalla propria debolezza; ma, soprattutto, da una forza esterna cattiva e vendicatrice.

Credo che il primo pensiero che nasce dopo la frustrazione esprima il timore di essere vittime della punizione. È impossibile, per l’uomo, accettare la precarietà sentendola solo come tale; la precarietà è sentita anche come opaca e impersonale, lascia l’uomo esposto al pericolo oscuro della solitudine.

Ho detto prima che l’uomo è programmato per la relazione: tutto l’individuo, tutto l’organismo umano, è programmato per la relazione, strutturato per reagire in rapporto con l’altro da sé, inanimato o animato che l’altro sia. La psiche, in particolare, è programmata per l’inter-azione con gli altri esseri viventi e l’uomo accetta con fatica l’idea che alcune delle cose che lo circondano siano inanimate. Basta osservare qualcuno alle prese con una radiolina che non funziona, per accorgersi, dai suoi gesti e dalle sue espressioni, che in fondo rimane la convinzione che la radio sia ammutolita anche con una intenzione, per fargli dispetto. Il desiderio, quando è frustrato, sente rivolgerglisi contro un altro desiderio, o meglio sente che è il desiderio di qualcun altro che gli si oppone, anche quando non è così. Il rito, come dicevo, con i suoi gesti carichi di sensualità, scarica parte del desiderio, appaga e, nello stesso tempo, protegge dalla punizione. Spesso, le motivazioni del rito, quelle remote come quelle immediate, non sono neppure più percepite ed il rito stesso realizza tutto il suo significato perché difende dalla paura che il piacere venga frustrato, appagandolo in modo autonomo. Il desiderio, la pulsione, la sessualità, si realizzano nella relazione con l’altro. La difesa immediata da questa relazione, o meglio dalle possibili frustrazioni che dalla relazione possono derivare, può essere di due tipi. Nel primo tipo, la difesa non tenta di negare il rapporto con l’altro; tenta piuttosto di rappresentarlo, colmando così il vuoto creato dalla tensione dell’attesa: ed ecco la rappresentazione, il teatro, la cultura. Il teatro colma l’attesa, divenendo egli stesso piacere ed appropriazione anche se, paradossalmente, riproduce una miriade di situazioni di attesa. Nel secondo tipo, la difesa mette in atto meccanismi che distaccano dal rapporto con l’altro. Il narcisismo e il sado­masochismo sono atteggiamenti in cui il pia­cere del rapporto libidico si traveste e, tal­volta, si disorienta. È, questo, un disorienta­mento profondo, che consegue a millenni di instabilità e di paura. Sarà mai possibile su­perare questa paura?

Esiste la possibilità di un rapporto che sia ses­suale e felice nello stesso tempo? È possibi­le sentire l’altro come tale? È possibile tro­vare la propria realizzazione in un rapporto che percepisca l’altro nella sua autonomia e nella sua piacevolezza? Se gli altri sono altri, possono ferire: sarà possibile non temere queste ferite?

Noto che queste ultime righe sono cosparse dai graziosi riccioli insinuanti dei punti in­terrogativi. Questo grazioso ricciolo preten­de, talvolta, una risposta; ma io penso che la risposta sia, per ora, impossibile.

Potrei dichiarare che mi accontento di sape­re almeno ciò che non bisogna volere. Po­trebbe bastarmi conoscere quali sono gli at­teggiamenti in cui è pericoloso cadere ed im­parare a difendermene. Significherebbe di­fendersi dalle difese: quante contraddizioni e quante parole! Finalmente eccoci alla smilza e petulante asticciola del punto esclamativo; che però, devo ammettere, non è venuta a concludere una risposta. Un esclamativo messo lì soltanto per rafforzare una constata­zione.

Una parola sta roteando vorticosamente nel­la mia mente; una parola che non ho il co­raggio di esprimere; una parola che viene di lontano, da un altra lingua e, quasi, da un al­tro mondo. Una parola che potrebbe servirmi a definire l’atteggia mento possibile, che io ritengo accettabile e produttivo e anche poli­ticamente soddisfacente. Ho paura però di definire un’altra volta, con troppa concretez­za, un comportamento umano.

La parola che ho così paura di dire è: Eros. A me richiama alla mente una divinità lonta­na, gradevole e felice. Ad altri può rievocare immagini meno gradevoli, o addirittura bru­tali. Una parola a metà suono e a metà dio che io pongo a conclusione di questo discor­so, per un mio incomprensibile bisogno di mitologia. Voglio dire che, secondo me, il rapporto pieno e diretto, che non teme la fru­strazione e che non nega l’altro, è il rappor­to erotico.

Ma non voglio difendere oltre questa mia scelta di una parola-dio e l’aggettivo che da essa deriva. Bisognava pur concludere con una cadenza elegante.

(9 11 concetto di “classe”, ormai obsoleto, è di­ventato oggi molto più difficilmente usabile di quanto non lo fosse quando furono stese queste righe (nel 1979).

(2)  S’intende che mi riferisco soltanto alla nostra area socio-culturale, di cui non voglio definire i confini geografici, ma che spero sia ugual­mente abbastanza localizzabile.

(3)  A questo proposito va detto che è qui abbozzata “in nuce” quella che in seguito diventerà la mia teoria dell’”Inconscio Socia­le”. (cfr. L’oro della psicoanalisi, A. Guida, Na­poli, 1993)

(4) L’Io, per me, non è un’istanza distinta dall’Es, dal Super-io o da qualcos’altro, ma è tutta la per­sona.

(5) Questo è un concetto, un po’ oscuro, da me, in seguito, abbandonato.

(6) Questa mia affermazione non vuole togliere nulla alla sacralità del rito.

Psicoanalisi contro n. 2 – Eros e Bios: anche la nascita del rito (1^parte)

venerdì, 1 ottobre 1993

Io penso che l’essere umano sia, anche, continuamente, alla ricerca della stabi­lità.

La novità affascina e spaventa nello stesso tempo. Affascina perché spezza la monotonia di situazioni ripetute; spaventa perché sem­bra incontrollabile. La novità è difficile da concepire, sfugge con i suoi contorni impre­cisi: dove la mano si aspetta un appiglio si può trovare il vuoto, o, improvvisamente, si presenta sotto le dita qualcosa di compatto, ma di strana consistenza, incomprensibile. Mi sono accorto di aver usato il concetto di novità come se non fosse un concetto e tan­to meno il concetto di novità. Nella mia mente si sono presentate due immagini; la prima era formata da uno sfondo grumoso indefinibile su cui si sono formate le sei let­tere: n-o-v-i-t-à. Un serpente nero con al fondo, sulla a, un monumentale e incisivo accento. La seconda immagine consisteva in una figura fumosa, dai contorni mobili, inaf­ferrabili. È dunque questo, per me, il con­cetto di novità? Nient’altro che l’ingenua immaginazione di un pittore concettuale? In effetti, il concetto di novità assoluta non rie­sco a costruirmelo e a comprenderlo: coin­cide con il nulla. Potrei mettermi a gio­care con il concetto di nulla; ma la fi­losofia occidentale ci ha già giocato fin troppo; credo che annoierei chi legge e, soprattutto, mi annoierei.

La novità è quindi per me non qualcosa di assolutamente nuovo, che, come ho detto, non so cosa voglia dire; ma un che di impre­ciso, di inafferrabile, proiettato in avanti. Il concetto di novità porta con sé altre parole come: attesa, speranza ed, anche, spavento. Quindi è assai meglio far scaturire la novità da ciò che è noto. Dobbiamo abbattere le strutture avendone però in mente di nuove che, essendo già in mente, non sono, però, più novità assoluta.

Ma queste nuove strutture di dove sorgono? Non certo dall’assolutamente ignoto, il vec­chio non essere parmenideo; ma da quello che noi siamo, vogliamo, o crediamo, di volere. La novità, però, non è soltanto il nuovo, il di­verso; è anche l’imprevisto L’imprevisto è l’aspetto ignoto del diverso; però l’imprevisto e l’ignoto, non appena vengono pronunziati, come parole o come concetti, non sono più quello che dovrebbero essere. L’ignoto ha un volto, inquietante l’imprevisto si mescola con i nostri progetti e i nostri desideri.

L’uomo come può controllare la novità, sen­za distruggerla, e nello stesso tempo cercan­do di evitare il rischio di cadere preda del sempre saputo e della noia?

Andando alla ricerca dei principi primi, o dei primi principi o del principio dei principi.

Se riusciamo a dare un ordine a quella che noi chiamiamo realtà; la novità e l’imprevi­sto si debbono assoggettare, tutto sommato, a questo ordine, pur mantenendo le loro ca­ratteristiche indefinibili.

Penso che tutte le culture abbiano tentato di interpretare in qualche modo i fatti che acca­dono. Ho usato il termine «fatto» perché è il più concreto e il meno compromesso. Fatto è un avvenimento storico e fatto è anche un ge­sto quotidiano. Sono i fatti che «avvengono» attorno a noi e in noi. L’occidente ha, da mil­lenni, prodotto un genere di persone chiama­te: i filosofi. Sono costoro individui quanto mai difficile da definire.

Il buon senso comune dice: in fondo siamo tutti filosofi. La cultura, però, ha definito qualcuno con questo nome. Nonostante la difficoltà di definire che cosa sia il filosofo, noi abbiamo la filosofia e la storia di questa nostra filosofia. La storia della nostra filoso­fia segue, secondo me, due direttrici fonda­mentali.

Lungo la prima linea di pensiero si situano tut­te quelle correnti filosofiche che tentano di por­tare l’infinita varietà dei fatti ad ordinarsi se­condo un unico principio ad essi sottinteso e dei quali è guida Queste sono concezioni metafi­sico-spiritualistiche, o materialistiche, che si ritrovano, però, d’accordo nel fissare un prin­cipio, e dopo averne analizzato il meccanismo, perché anche i principi hanno un meccanismo al loro interno, nel porlo come ho detto, prima e dentro ad ogni cosa. Questo principio è estre­mamente protettivo e rassicurante.

Ci sono all’interno di questa concezione, due ulteriori atteggiamenti fondamentali. Il pri­mo vede questo principio come qualcosa di buono, che fa progredire il tutto: uomini, formiche e stelle, verso un futuro sempre migliore, al di qua e al di là della vita. Il secondo più disincantato e forse un po’ sa­dico parla di corsi e ricorsi, di cicli che si ri­chiudono e ricominciano sempre, eterna­mente immutabili.

Spesso, all’interno di questi sistemi, alcune concezioni hanno sentito l’esigenza di scindere il principio guida in due mo­menti antitetici in conflitto che, però, attraverso e per mezzo di questa loro tensione, guidano e determinano il divenire del tutto. Il meccanismo originario rimane uno e comprende e risolve in sé i due oppo­sti. I principi in conflitto trovano il loro si­gnificato nel conflitto stesso, che li controlla e li domina.

Lungo la seconda linea di pensiero si collo­cano tutte quelle filosofie che vedono i fatti dominati da più principi, che possono essere o non essere in conflitto tra loro. Il principio unificatore di tutto è la facoltà interpretativa della ragione. La ragione unifica perché com­prende le concatenazioni causali e compren­de anche se stessa. Anche quando queste con­cezioni ipotizzano un Dio, esso non è tanto il garante della salvezza e dell’ordine universa­le, quanto la facoltà unificatrice della com­prensione razionale. La ragione, compren­dendo ed interpretando, unifica, distingue tutti gli esseri in generi e specie; ne esprime le caratteristiche, ne esprime i significati esi­stenziali e scientifici. La ragione riunisce ciò che è simile e distingue ciò che è diverso. La ragione, divenuta meno ingenua, ha prodotto e fondato essa stessa i propri concetti e il con­cetto di concetto. All’interno di questa cor­rente, alcuni pensatori, con una struttura psi­chica particolarmente paranoide, o depressi­va, hanno sentito vano lo sforzo unificatore della ragione, anche quando fondava se stes­sa, e, usando la ragione, hanno fondato lo scetticismo della ragione. Le teorizzazioni di cui ho parlato prima sono il frutto del pen­siero di menti acculturate e, quindi, sono espressioni della cultura di una classe preci­sa: la classe dominante.(’)

Una cultura si esprime per mezzo di un lin­guaggio comprensibile, soprattutto, a coloro che la producono. Anche i temi trattati sono congeniali alla classe che li esprime, perciò la visione del mondo che ne deriva è inter­pretabile con parametri specifici coerenti con il sistema di valori e di significati espressi da quella cultura.

I libri parlano di tutto: ma non sono per tutti. I libri buttano uno sguardo sul mondo, su tutto il mondo, tentano di comprenderlo di sistemarlo, di chiarirlo; tentano di chiarire i problemi di tutti: dei re e dei servi, dei ricchi e dei poveri; però fino ad ora, lo hanno fatto dal punto di vista dei re e dei ricchi. Anche quando parlano contro i re e contro i ricchi, i libri lo fanno usando il linguaggio, gli strumenti e la cultu­ra di costoro.

È fondamentale 1′ appropriazione, da parte di tutti, di questi strumenti e di questa cultura,io non credo nell’utilità della loro distruzione che significherebbe la definitiva castrazione; ma credo nell’importanza dell’espropriazio­ne di un monopolio. E se l’espropriazione passa anche attraverso strumenti compro­messi dal potere dei re e dei ricchi, chi se ne frega? Spero che avremo abbastanza sapo­nette profumate e detergenti biodegradabili per lavarci con cura le mani sporche. La cul­tura dominante, sebbene propria di una clas­se, è riuscita a dare ugualmente una visione del mondo organica e coerente, anche siste­mando con sufficiente assennatezza i proble­mi e i significati connessi a quella parte di umanità che a questa cultura è abbastanza estranea. La realtà, però, non è qualcosa di oggettivo che è dato e basta; la realtà è co­struita anche dalla interpretazione che se ne dà. Per cui la cultura, nel suo costruirsi, co­struisce anche, almeno in parte, la realtà che tenta di chiarire. Non mi sembra del tutto de­lirante dire che l’interpretazione della realtà, data, nella nostra società, dalla Cultura con la C maiuscola, è un’interpretazione necessaria.

La nostra è, però, soprattutto, una cultura in­telligente, fatta da persone intelligenti, perciò la sua frammentarietà la sua parzialità sono ben camuffate, tanto che, qualche volta, anch’io, frutto ed espressione di questa cul­tura, ho l’impressione di muovermi dentro alla Cultura; cioè dentro all’unica forma pos­sibile di ricerca del significato di ciò che mi trovo addosso ed intorno.

Penso che questa sensazione derivi, in buona parte, da miopia narcisistica, da pigrizia men­tale e dalla paura della destrutturazione deri­vante dal timore di perdere i miei privilegi; penso, però, che derivi anche dal fatto che la cultura dominante non è così stupida da guardarsi solo allo specchio o da guar­dare il mondo solo attraverso il suo specchio; vuole anche appropriarsi di ciò che non è suo, di ciò che non deriva da lei; ma di cui ha bisogno per poter sopravvivere. La classe dominante ha bisogno di condizio­nare la cultura popolare e subalterna, per po­ter controllare la società in generale; c’è riu­scita tanto bene che la cosiddetta cultura po­polare, non ufficiale, o subalterna, è profon­damente compromessa con quella del potere. È abbastanza comprensibile che millenni di violenze e di stupri abbiano fatto partorire alla cultura del popolo figlioletti straordina­riamente somiglianti a Lorenzo il Magnifico. La vergine cultura popolare non esiste più, forse non è mai esistita. Fin dall’inizio, quan­do due persone hanno guardato il mondo e cercato di capirlo e di farsene una ragione, il più forte e il più «intelligente» ha comincia­to a dire e a fare cose bellissime, l’altro, più debole e più stupido (?) ha cominciato a guar­darlo a bocca aperta, a servirlo, e, nello stes­so tempo, a sentirsi venir su, di dentro, una gran voglia di ribellarsi, di dare una ginoc­chiata a quel tale o a quella tale che viveva­no del suo lavoro, torcevano il naso per la sua puzza e che dicevano, parlando tra loro, cose bellissime. Gli è venuta voglia di… ed ha par­lato di ribellione. Però gli è anche venuta vo­glia di… ed ha tentato di imitare quei due; ma è venuto un altro a dirgli che non doveva né ribellarsi né imitare, che Dio non voleva. Al­lora ha avuto paura ed ha incominciato a rac­COMUIS1 storie, cosi, per passare n tempo. Storie in cui tutto era confuso, in cui, sotto sotto, c’era solo la voglia di star bene, di go­dere, con lo stomaco, con il sesso e con il cuore, di avere anch’egli il suo piccolo do­minio

Io ho studiato a lungo la poesia e la musica popolari italiane, ed ho trovato moduli musicali interessanti, antichissimi, misteriosi, mescolati a melodie ed armonie delle musiche del padrone. La stragrande maggioranza dei versi delle canzoni popolari esprimeva una piena accettazione del sistema di valori dominante. Con mio estremo stupore, ho trovato l’arte popolare assai poco rivoluzionaria.

Gli oppressi non hanno mai desiderato altro che poter sognare di essere padroni ma su tutto è prevalsa sempre una malinconica stanchezza, un invito a rinunciare alla lotta: se il mondo è sempre sta­to così è inutile sperare di cambiarlo. I pro­verbi esprimono non tanto la saggezza dei popoli quanto la loro rassegnazione.

La società contadina e proletaria, da alcuni secoli almeno, non è una società che deside­ra la giustizia ed il rispetto; i deboli vi sono schiacciati e i diversi derisi con brutalità e violenza. Basta, per capirlo, ascoltare le an­tiche canzoni venete, le lunghe storie pie­montesi e i lirici canti della Sicilia. I padroni non soltanto hanno saputo costringere i servi a servire, ma li hanno costretti a produrre an­che una sottocultura in cui sopraffazione, vio­lenza ed egoismo sono i temi presenti e do­minanti.

Di giustizia e di libertà, per fortuna, qualche volta si parla, come, per fortuna, lungo i se­coli, gli oppressi hanno preso la falce e i ba­stoni e li hanno usati come armi contro i ca­stelli dei padroni; ma la loro cultura, dopo qualche decina di esecuzioni sui patiboli e sulle forche, ha ricominciato a sognare e a fantasticare; è rinato il desiderio di essere a propria volta padroni. Poi i parroci hanno ri­cominciato a predicare e le buone signore a portare ciambelle ai figli dei poveri e piano piano sono rinati anche i canti della rasse­gnazione e si sono prodotti sempre meno inni di rivolta. Un’antica strofetta delle campagne piemontesi ai piedi della Val d’Aosta, facen­do il verso al suono delle campane, dice così:

«Chi n’a nèn – chi n’a poc – chi n’a tan – tan tan». (C’è chi ha niente, chi ha poco e chi ha tanto, tanto, tanto). Una constatazione di una realtà sociale, ironica e disincantata: lo dico­no anche le campane che non c’è niente da fare.

In questi versi è nascosto tutto il significato della cultura popolare; l’ironia deriva dalla voglia di ridere a tutti i costi, anche delle pro­prie disgrazie. Da quel campanile arriva l’esortazione ad accettare, con umiltà e rasse­gnazione, quello che è; però c’è anche la con­sapevolezza di quello che è; e la consapevo­lezza è il primo, indispensabile passo per riu­scire a cambiare qualche cosa. Io credo, però, che siano stati scritti più canti di protesta in questi ultimi dieci anni, da parte dei cantautori e dei mass media rivoluzionari, di quanti ne siano stati scritti e prodotti in millenni di storia passata. I can­tautori rivoluzionari della nostra epoca non sono, per lo più, proletari. Io scrissi canti di questo genere, alcuni anni or sono, in occa­sione di grossi scioperi alla FIAT di Torino. Ero allora un musicista e un universitario ri­belle, col senso di colpa per essere nato bor­ghese. Quelle canzoni non le ricordo più, fu­rono cantate per un giorno o due, su di un ca­mion e sparse nell’aria con un altoparlante, in­sieme a quelle di altri, più belle e più brutte. Tutto è cosi lontano. Erano canzoni sincere. Anche se molti canti di protesta, prodotti in passato direttamente dal popolo e dai veri sfruttati, non sono giunti fino a noi, soprattut­to, perché a raccoglierli e a tramandarli sono stati, per forza di cose, gli studiosi borghesi, i quali, comprensibilmente, hanno dato più spa­zio ad argomenti meno compromettenti e compromessi come: l’amore, la religione, per­sino il sesso, perché, si sa, il popolo è sempre un po’ volgare; tuttavia, in base alla mia per­sonale esperienza di ricercatore nelle campa­gne e nelle osterie di città, posso dire che il di­scorso di protesta non è stato così presente alla cultura popolare quanto si potrebbe credere. La cultura delle classi dominanti si è espres­sa, da sempre, per mezzo dei libri, che la rac­chiudono e la custodiscono. Attraverso di essi anche le forme di cultura che non si esprimo­no sulla pagina scritta vengono analizzate e meditate. La pagina è la parola congelata. In fondo, si potrebbe dire che il pensiero è stato il primo prodotto dell’uomo ad essere insca­tolato per poter essere sempre pronto per l’uso. Non voglio dire con ciò che il libro sia un male, nemmeno che sia un male necessa­rio. Penso che il libro possa essere usato male, questo sì; ma ritengo che sia, per il momento, uno tra gli oggetti più utili della nostra vita, ed anche tra i più rivoluzionari.

La cultura popolare è da moltissimi secoli una cultura teatrale; questo teatro ha trovato una tra le sue espressioni più concrete nella religione. Sacrificando il «tragos» a Dioniso il sacerdote narrava e mimava una storia. Il popolo ha sentito il rito come una sua espressione culturale. Al rito si è sentito partecipe ed ha portato un contributo proprio ed originale. La teorizza­zione della religione è estranea alla cultura popolare. Le teologie e le dissertazioni dot­trinarie appartengono alla cultura delle clas­si dominanti. II popolo invece, come ho det­to, partecipa al rito; alla sua formazione. Non certo spontaneamente; non sono suoi i desi­deri ed i pensieri immediatamente espressi nel rituale. I templi, i paramenti sono mani­polati, le musiche, per lo più, sono prodotte dal potere; un potere, però, disponibile ad ascoltare il sogno del popolo ed i suoi desi­deri. La ricca complessità dei riti è frutto del­la secolare sedimentazione di leggende, ri­cordi, bisogni, consapevoli e non, provenien­ti da una realtà sociale presa nel suo insieme. Frammenti di rituali di altre religioni si me­scolano a quelli delle religioni dominanti, ge­sti che si perdono in lontananze indecifrabi­li, si intrecciano con gesti che esprimono esi­genze del presente; il tutto nel tentativo, di raccontare.

La cultura borghese poi ha tentato di co­struirsi una religione senza riti: le evoluzioni del luteranesimo, e particolarmente le cor­renti calviniste, hanno trasformato il rito in meditazione lirica collettiva. Il gesto è stato castrato, la parola e il suono sono diventati preponderanti; della rappresentazione non ri­mane che l’involucro.

Resta comunque centrale l’ascoltare in co­mune il racconto della vita di un personaggio vissuto tanti secoli prima: il rito cattolico ed ebraico sono frutto della volontà dei domina­tori; ma i desideri del popolo, almeno nella forma, li condizionano maggiormente: mi preme, però, ribadire l’affermazione che in tutte le espressioni culturali del popolo è pri­maria l’istanza teatrale.(2)

Anche l’espressione laica del popolo è es­senzialmente teatro e rappresentazione: gli istrioni e i cantastorie raccontano e mimano fatti e avventure. Certo, esistono anche mo­menti di espressione lirica e sentimentale del desiderio; ma sorgono come com­mento espressivo a fatti che sono sta­ti narrati o che vengono presupposti, per cui si può onestamente dire che l’aspetto fondamentale del pensiero espresso dal po­polo si è espresso, nella nostra cultura, attra­verso la rappresentazione. Alle origini, nel rito, la partecipazione del gruppo è attiva e diviene man mano più passiva nelle rappre­sentazioni di tipo teatrale o parateatrale più vicine alla nostra epoca; fino all’estrema pas­sivizzazione dello «spettatore» delle rappre­sentazioni cinematografiche e televisive. Qui lo spettatore (che non per nulla si chiama così) ha soprattutto il ruolo di entità pagante, che può, tutt’al più esprimere un parere, ma­gari con lettere ai giornali. Nello spettacolo cinematografico e televisivo è del tutto abo­lita la presenza fisica di persone che parlano e si muovono in contatto emozionale diretto con altre persone che, messe di fronte, assi­stono, presenti con la loro carne, i loro odo­ri, gli applausi e tante altre forme di parteci­pazione. Anche un cataclisma, o una rivolu­zione piena di violenza e di morti reali, ri­presa in diretta su di un teleschermo, divie­ne, soprattutto, spettacolo, teatro In effetti, le indagini in diretta del telegiornale, trasmesse dopo un breve «parapperu» di archi e fiati, scivolano e si confondono, nella penombra dei tinelli, con le prime scene dell’incontro di Elisabetta I che recitando, litiga con l’arcive­scovo di Westminster.

Ancora una volta, il potere ha preso in mano la situazione: spettacoli televisivi, cinemato­grafici e partite di calcio non sono certo espressioni agite ed ideate dal popolo; anzi, questa parola; «popolo», sta diventando sem­pre più ridicola ed ha, forse, ancora un suo reale significato, solo quando viene pronun­ciata da Maria Antonietta in un drammone te­levisivo sulla rivoluzione francese.

Eppure, gli sfruttati esistono ancora: lascia­mo in sospeso, per ora, questo problema.

La cultura dominante ha sempre avuto molta cura di distinguere l’arte dalla filosofia, rite­nendo la prima, di volta in volta, dominati- ce e dominata dalle emozioni e la seconda espressione della ragione. Distinzione quanto mai balzana; che può essere vanificata osservando con un minimo di attenzio­ne quei fenomeni che vengono chia­mati arte e filosofia.

La cultura cosiddetta popolare non ha opera­to questa distinzione; alcuni dicono per sua inferiorità costitutiva, affermando che, essen­do il popolo dominato dalle passioni e dall’immediatezza, non può e non sa riflette­re in modo sistematico e astratto.

Quest’ultima affermazione è, secondo me, assai goffa e semplicistica. Non si tratta tan­to di inferiorità costitutiva, quanto di impos­sibilità pratica di usare alcune forme di co­municazione. Non esiste e non è mai esistita una cultura popolare autonoma. Come sono stati strumentalizzati e manipolati dal potere i singoli individui, così sono state strumenta­lizzate dal potere le forme di cultura.

La cultura del potere cerca, dal suo canto, di strumentalizzare ogni forma espressiva, da qualunque parte essa sorga e qualunque istanza cerchi di esprimere.

Come ho già detto, la cultura popolare non è stata, quindi, la cultura degli oppressi che parla di libertà e di liberazione; tutt’al più è successo e può succedere che dalle oscure profondità di un malessere, quasi inconsape­vole, sorgano dure immagini di rivolta, me­scolate, però, sempre, a considerazioni e pen­sieri che parlano di rassegnazione e di accet­tazione, seppure amara.

Il teatro in genere, non solo quello popolare, ha avuto, sempre, come suo argomento pri­vilegiato, la lotta del bene contro il male o, meglio, dei buoni contro i cattivi. La cosid­detta cultura popolare, essendo, come ho det­to, soprattutto teatro, ha espresso un’infinità di storie incentrate sulla lotta tra i buoni e i cattivi. Di rado, però, questa lotta ha avuto il significato di lotta per la giustizia, intesa in senso vasto e collettivo; per lo più, si è trat­tato di dimostrare che il singolo cattivo deve perdere, e allora sono tutti contenti; oppure, in un accesso masochistico, è il singolo buo­no che viene sconfitto, e allora tutti sono tri­sti. È più un meccanismo compensatotici che una reale volontà di ribellione, sebbene, per fortuna, talvolta, serpeggi anche questa.

Io penso, tutto sommato, che potremmo ri­durre tutta la nostra cultura, sia quella prodotta dai padroni, sia quella balbettata ambiguamente dai servi e dai mezzi padroni, ad una infinita variante dell’istanza del teatro.

La filosofia e la scienza, nel tentativo di ri specchiare il mondo, non fanno altro che rap presentarlo e l’arte, non importa se attravei so suoni, immagini o parole, racconta sempr una storia. Nella filosofia, nella scienza nell’arte la mente umana ha sempre bisogn di ritrovare i buoni e i cattivi. La filosofia la scienza, che sono più narcisistiche, fann sempre vincere i buoni, cioè quel simpatia personaggio che si chiama verità.

Nell’arte si annidano e si manifestano coi maggior precisione le istanze sadomasochi stiche; i buoni talvolta soccombono; ma I rappresentazione è sempre la stessa. Potreb be sembrare che io sia caduto in una con traddizione perché, prima, ho detto che l’ari popolare è in gran parte conservatrice e per meata dai valori della classe dominante, poi dico che ogni espressione culturale esprimi la lotta tra il bene ed il male. Se così fosse bisognerebbe riconoscere nella cultura popo lare un profondo desiderio di rinnovamento di ribellione e di giustizia.

Io ritengo, invece, che l’espressione popola re così succuba e condizionata da coloro chi la dominano, accetti i principi di bene e d male, di giusto e di ingiusto che le vengon imposti, li faccia suoi e li sostenga. Ho detti anche che tutta la cultura si esprime attraver so la rappresentazione. La cultura proponi una visione del mondo, questa visione è sem pre un’interpretazione che consiste ne proiettare al di fuori i desideri e i bisogn dell’uomo.°

La realtà è la mia ipotesi di realtà: cerco d costruire un mondo in cui sia possibile pro gettare la realizzazione dei desideri che m sento dentro. Il male è ciò che si oppone a miei desideri; i miei desideri stessi sono i bene. I desideri e i bisogni sono molti, spes so in opposizione tra di loro; ecco perché visione del mondo è così articolata e con traddittoria.

Io sono il terreno sul quale i miei desider combattono; questa lotta la voglio vedere anche fuori di me, perché sento che soltan to attraverso il fuori di me i miei desii deri acquistano un significato. Proviamo ad immaginarci assolutamente soli, aventi come unica caratteristica quella di essere vivi: la nostra mente non ce la fa. La vita è costitutivamente relazione. Possiamo, al massimo, immaginarci fluttuare nello spazio, possiamo immaginare i nostri gesti liberi dal vincolo della gravità, possia­mo vederci muovere con piacevoli guizzi; però, abbiamo pur sempre immaginato noi stessi immersi in qualcosa che sta fuori di noi; ma che fa parte di noi; o meglio: noi riu­sciamo a percepirci come viventi soltanto in relazione a questo vuoto e a questo spazio in cui abbiamo immaginato di star piacevol­mente sospesi. Non credo neppure che riu­sciamo ad immaginare un vuoto e uno spazio assoluti: se noi descriviamo a noi stessi lo spazio deserto in cui abbiamo immaginato di trovarci, ecco che ci accorgiamo che questo non è altro che lo spazio cosmico; così come lo abbiamo immaginato da bambini; oppure lo assimiliamo all’idea di un grande mare e le nostre braccia e le nostre gambe sentono la fresca consistenza dell’acqua. In un’unica espressione, potrei dire che anche se volessi­mo immaginarci soli in un luogo deserto noi costruiremmo, noi stessi e le nostre immagi­ni, in relazione con questo vuoto deserto, che sarebbe, oltretutto, percepito da noi con ca­ratteristiche palpabili e precise. Io sento di non essere altro dalla mia esperienza. Non voglio fare un discorso di forma, di Io,(4) di contenuto e di esperienza. Voglio solo dire che io sono la mia esperienza e la mia espe­rienza si costituisce nella relazione tra l’Io, che a sua volta non è altro che un insieme di relazioni, e un non io, oppure un oggetto, come siamo stati abituati a chiamarlo, che però non è altro se non la situazione stessa di relazione, o la situazione esperienziale. Pos­siamo distinguere due momenti fondamenta­li del progetto esperienziale: il primo è il mo­mento della relazione e basta; in cui i nostri desideri ci formano come esseri relazionati; e in questa situazione la frustrazione del de­siderio, e tutto ciò che ne consegue, ha la ca­ratteristica dell’immediatezza, quasi del non voluto. Il secondo momento fondamenta­le è quello in cui l’esperienza viene og­gettivata, raccontata, nel tentativo di essere capita; in questo momento l’esperienza viene rappresentata, il mondo in cui l’individuo agisce diventa teatro. Spesso la nostra vita, nei sogni, viene raffigurata con l’immagine di una sala di teatro o un palco­scenico; in quel momento l’uomo vive e re­cita un copione che egli stesso si è scritto, o che ha creduto di scrivere.

Vico diceva che è possibile comprendere, fmo in fondo, soltanto ciò che si è prodotto direttamente: l’uomo non potrà mai com­prendere la natura perché essa non è una sua creazione, l’uomo può comprendere la storia perché l’ha costruita egli stesso. Io non cre­do che l’uomo sia più direttamente creatore della storia che della natura; però so che l’uomo racconta a se stesso la propria storia, nel tentativo di comprenderla; e non solo: con beneplacito di Vico, direi che l’uomo rac­conta, oltre che la propria storia a se stesso, anche la storia dell’universo, a sé e agli altri; la storia dell’universo intero: del sole e delle formiche. Tutto diventa un grande teatro in cui l’uomo spera di essere l’autore e il regi­sta, oltre che l’attore principale, il protagoni­sta, beninteso.

Ma l’uomo non racconta la storia della realtà solo per riuscire a capirla, la racconta anche col desiderio di controllarla e dirigerla. Se è vero che egli scrive il copione, deve essere anche vero che può controllare gli avveni­menti e determinare il finale.

La vita, perciò, diventa più prevedibile; tutto accade come sulla scena; il copione, tutto sommato, protegge da un’inserzione troppo massiccia dell’ignoto. Ciò che comunemente viene chiamato cultura non è altro, secondo me, che la rappresentazione. L’uomo e il suo mondo vengono rappresentati dalla cultura, da quella dei padroni come da quella dei servi.

Arrivati a questo punto del mio discorso, potrebbe sembrare che io abbia voluto dire: «Vi è un momento primo originario (l’infanzia?), in cui l’essere umano si costruisce come relazione e tenta di realizzare i propri desideri e un seguito (cronologicamente concepito) in cui l’uomo riflette sulle proprie relazioni, sulle proprie esperienze e tenta di inserirle in una scena organica rappresentando la vita e tutto ciò che entra a far parte della sua vita». Questo secondo momento sarebbe la cultura. Io, però, non vole­vo dire affatto questo.

Secondo me, questi due momenti non hanno una sistemazione cronologica. Io voglio dire che l’uomo è i propri desideri; e si struttura nella relazione con l’altro perché questa è la direzione dei desideri. Perciò non vi è un mo­mento, o dell’infanzia, neppure la più remo­ta, o della vita interiore, in cui l’Io sia iden­tico a se stesso e coincida pienamente con il sé e, in seguito, un istante successivo in cui questo Io desideri e si proietti fuori di se stes­so, progettando. L’essere umano è questo progetto. In principio non c’era altro. Il se­condo momento non realizza istanze e biso­gni dell’età adulta. Il bisogno di rappresen­tare è presente fin da subito nell’essere uma­no. Questo «fin da subito» è abbastanza dif­ficile da collocare. Quando il bambino co­mincia ad attendere? Credo sia impossibile dirlo; ma è in questo momento che egli inco­mincia a rappresentarsi la realtà. L’attesa del soddisfacimento del desiderio viene riempita da ricchi giochi fantastici; nella tensione dell’attesa vengono evocati personaggi che, pur avendo qualche legame con il desiderio, arrivano, talvolta, da regioni lontane, ina­spettate; proprio come a teatro. E quando il desiderio crede di potersi scaricare (perché il mondo esterno è pronto a soddisfarlo final­mente) accadono due cose bizzarre La prima cosa bizzarra è che alla scarica del desiderio si sovrappongono tutte quelle immagini fan­tastiche, teatrali, che si erano prodotte nella tensione dell’attesa, e perciò la rappresenta­zione continua. La seconda cosa bizzarra è che il desiderio, nel momento del suo appa­gamento, si trova indebolito; buona parte del­la sua energia era stata assorbita dalla rap­presentazione.

E un’esperienza comune quella in cui, dopo aver tanto atteso ed immaginato un avveni­mento piacevole, esso, quando ci si presenta, ci lascia insoddisfatti, come qualcosa di or­mai stanco e sbiadito.

hi tutte le fantasie che immaginano una realtà è sempre presente la lotta tra i buoni e i cattivi, tra i desideri e ciò che loro si oppone. Talvolta gli eroi siamo noi stessi, talaltra sono invece nostri sostituti; ma la lotta è continua ed incessante. La cultura non è quindi lo specchio della realtà: è il nostro progetto della realtà. È il teatro del teatro.

La filosofia, l’arte della classe dominante e la cultura popolare tentano tutte di dare una vi­sione organica e complessiva dell’uomo e del mondo. In nessuna epoca queste tre espres­sioni culturali hanno agito separatamente; tutte e tre unite sono «la cultura di una ci­viltà». Anche ogni singolo essere umano, vi­vendo, rappresenta, a se stesso e agli altri, la propria vita.

Ritengo che siano sempre compresenti e complementari tre istanze psichiche fonda­mentali: la prima è la relazione esperienziale che si costruisce attraverso la vita e che con­tinuamente progetta e tenta di controllare; la seconda è la rappresentazione che io mi fac­cio di ciò che ho e di ciò che sono; la terza, che si potrebbe anche considerare un aspetto della seconda, consiste nel mimare continua­mente la nostra situazione esperienziale; nell’essere contemporaneamente noi stessi e gli interpreti di noi stessi.

Non riesco a decidere se, per l’uomo, venga prima l’esperienza o l’espressione di questa; forse non è di nessuna utilità il cercare di sco­prirlo. Chi muove e sente attraverso i movi­menti e attraverso sensazioni, esperisce se stesso. Un se stesso, però, che non è un sub­strato stabile e individuabile, attorno al qua­le girano le sensazioni; ma è un fascio di rap­porti in cui le sensazioni sono costitutive. Questo non è soltanto un modo di essere e di sentire; è anche un modo di comunicare ed esprimersi. Io ho la mia esperienza che si rea­lizza e si esprime attraverso una numerosa varietà di linguaggi. La persona si realizza at­traverso i linguaggi che la costituiscono. Alcune grossolane e semplicistiche teorizza­zioni del linguaggio, verbale e non, iniziano col dividere ogni gesto umano in due grandi classi fondamentali: la prima comprende quei gesti che hanno come scopo il produrre; la se­conda, quelli che hanno come scopo il comunicare ad altri emozioni e concetti. Questa potrebbe sembrare una distin­zione operativa; che serve a distingue­re il materiale da chiarire in modo da potercisi orientare. Io penso, però, che non sia possibile costruire schemi ed operare di­stinzioni, confini, esclusivamente operativi; dietro allo schema sta sempre il significato dello schema.

La distinzione di cui ho parlato prima non opera soltanto come innocua divisione tra la congerie dei gesti umani; ma nello stesso momento che opera una distinzione impos­sibile, spezza in due quella che io chiamo «espressione-esperienza»; cioè spezza in due l’uomo.

È impossibile distinguere i gesti che produ­cono da quelli che esprimono e comunicano. Ogni gesto ha sempre entrambe le caratteri­stiche. Prendiamo, per esempio, la serie di gesti miranti a produrre un piatto di cibo cu­cinato. Lì per lì, questi gesti potrebbero sem­brare mossi esclusivamente dall’intenzione di produrre; i gesti del cuoco si articolano in­torno ai vari ingredienti della ricetta ed ogni gesto parrebbe soltanto produrre e non espri­mere: la mano impugna la frusta che, con il suo dimenarsi, fa gonfiare la chiara d’uovo… poi si taglia il lardo a dadini… poi «si aggiu­sta di sale e pepe, quanto basta»… e così via. «Dopo aver messo tutto nel forno ben caldo, per trenta minuti circa, si porta in tavola». Eppure, io penso che chi ha cucinato il cibo intendeva, anche, comunicare qualcosa a co­loro per i quali ha cucinato. Questo avviene sempre in tutta la serie complessa di gesti che partono dalla prima manipolazione degli in­gredienti fino a quello di posare il piatto cal­do sul tavolo. Basta stare a sentire la voce del cuoco che dice: «Spero che vi piaccia». Può significare tante cose. Così pure, il gesto del commensale che avvicina la sua posata alla sua porzione di cibo non ha solo la funzione di portare il cibo alla bocca; la rapidità o la lentezza con cui il gesto avviene si trovano a comunicare qualcosa. Questo vale per ogni gesto che compiamo: dal gesto di Napoleone che si mette da sé la corona in testa, al gesto del portiere che apre il cancello.

Mentre fabbrico la mia vita e le cose della mia vita uso, contemporaneamente, quegli stessi gesti per comunicare qualche cosa.

Nessun essere umano è maì solo, neppure l’eremita nel deserto. Attorno a lui si affolla una grande quantità di personaggi che, talvolta, gli balzano addosso da lontananze di­menticate. L’eremita si inginocchia sulla sab­bia; sa di essere osservato, non solo dal suo Dio. Quando diciamo che vogliamo essere soli per essere noi stessi, diciamo una gran sciocchezza; soli non siamo mai, recitiamo sempre il nostro teatro. Ogni nostro gesto è compiuto come se qualcuno ci guardasse. È molto interessante osservare una persona, sola in una stanza: non c’è bisogno di usare gli squallidi trucchi dei laboratori di psicolo­gia sperimentale, che sono soprattutto umi­lianti; basta usare i mezzi della commedia dell’arte, o della pochade fine secolo, o, me­glio, basta che pensiamo a noi stessi quando siamo soli. Ognuno di noi, nella solitudine della propria stanza, ha recitato una gran quantità di personaggi. C’è chi si traveste e si guarda allo specchio; c’è chi si siede come ha visto fare in quel film. Ma il gesto-comu­nicazione non riguarda soltanto i gesti ma­croscopicamente teatrali. Poichè nessuno di noi può mai sentirsi, in realtà, completamen­te solo, ogni gesto deve tenere conto di altre presenze, fantastiche o reali, non importa. Io mi sento sempre anche di fronte ad altri; al­tri che devo blandire, ingannare, da cui farmi perdonare, ammirare. Perciò ogni mio gesto tende a comunicare qualcosa di me e voglio, anzi esigo, che gli altri lo sappiano.

D’altra parte, anche i gesti che, esplicitamente, sembrano realizzarsi esclusivamente nella loro intenzione comunicante non realizzano, assolutamente mai, la sola comunicazione. Se io parlo a qualcuno per raccontare una mia emozione o un fatto che mi è accaduto, sempre, mentre parlo, costruisco, più o meno consciamente, la mia comunicazione, al fine di realizzare anche scopi che vanno oltre la comunicazione stessa. Questo vale per il discorso che racconta la mia vita passata, come per lo sguardo che voglio che esprima tristezza. Con quelle parole non voglio soltanto raccontare che: «…quando ero ragazzo avevo un amico che forse…» Con il lento ruotare dei miei occhi, meglio se umidi di lacrime, non voglio soltanto dire all’altro «sono triste». Tutti questi sono segnali che io uso, intenzionalmen­te, per ottenere, per produrre qualcosa. Ogni gesto non è, dunque, soltanto il risultato di una intenzione che mira a produrre un ef­fetto più o meno concreto, unita e sovrappo­sta ad un’intenzione che tende all’espressione e alla comunicazione; ma è anche ricco di in­tenzioni fattive ed espressive che si sovrap­pongono, si intrecciano e si condensano. Il prodotto più autonomo della esigenza di rappresentare è ciò che, comunemente, viene chiamato cultura. La cultura ha distinto se stessa in tre grandi sottoclassi: la filosofia, la scienza e l’arte. Possiamo tenere per buona questa distinzione: tanto non cambia nulla. Rimane però il fatto che, a mio parere, la cul­tura è il risultato dell’esigenza di rappresen­tare. Quando un gruppo sociale riflette su di sé, sul proprio stare nel mondo e sulle carat­teristiche di questo mondo, questo riflettere vuol dire rappresentare, vuol dire preparare una scena sulla quale agire, ma questo agire e questa scena costruiscono una realtà che si realizza nel momento in cui viene rappresen­tata. Se le strutture psichiche di un gruppo o di un individuo non si trovassero continua­mente nella tensione tra pensiero di… e rap­presentazione di…, noi e il nostro mondo sa­remmo trasparenti ed immutabili. Se il mio vivere è anche il mio rappresentarmi, la rap­presentazione cambia continuamente, forse impercettibilmente; ma cambia in ogni istan­te della mia storia e, ripeto, questo vale per il singolo come per il gruppo. Una cultura, come ho detto prima, è un prodotto abba­stanza autonomo e strutturato al suo interno. Gustav Mahler diceva che una sinfonia è compiuta, è organica, come un mondo; un mondo rappresentato, aggiungo io, un mon­do che racconta se stesso attraverso i suoni. Quest’immagine vale anche per la cultura nel suo insieme; e la rappresentazione che viene agita è la lotta di due forze: il piacere e il do­lore, che per l’essere umano si chiamano sempre bene e male.

Il piacere e il dolore sono presenti alla vita fin da subito; subito quando? Per il mo­mento, dico: «subito» e basta. Questo «subito» esprime una data così precisa da non avere bisogno di altre specificazioni. Stavo dicendo che fin da subito nella vita sono presenti il piacere e il dolore; ma la psiche umana ha, secondo me, una co­stituzionale incapacità di comprendere, sul serio il significato del piacere e il significato del dolore. Il piacere è subito sentito come bene e il dolore è subito sentito come male. Ma si potrebbe obbiettare che si può anche invertire il discorso, e dire che la psiche uma­na sente fin da subito il bene e il male, e che può, proprio avendo una costituzionale inca­pacità a capirli, sentirli come piacere e come dolore.

Pur riconoscendo che sto giocando ai limiti della metafisica, non accetto il capovolgi­mento del mio discorso, perché sarebbe più metafisico ancora. Io ritengo che la metafisi­ca sia ineliminabile; e debba essere affronta­ta. Dicevo quindi che non accetto il capovol­gimento del discorso: il piacere e il dolore sono nella vita fin da subito; ma non sono e non costituiscono la vita. Vorrei puntare i pie­di ben saldi su questo subito e cercare di spin­germi, con sforzo, un po’ più indietro, in un prima un po’ prima di questo subito.

Ho detto che la vita ha il piacere e il dolore; questo lo so, perché anch’io vivo e me li sen­to addosso fin da sempre, o meglio, fin da su­bito però ho anche detto che non sono la vita. La vita non è altro che un oscuro o chiaro de­siderio – desiderio di piacere – quindi la vita è piacere; perché si dirige soltanto verso il piacere.

Alcuni vecchi saggi mi urlano di lontano che il desiderio, per il fatto stesso che è deside­rio, è mancanza; se è mancanza di piacere, non può essere il piacere, perché il piacere è assente. Io, contro la saggezza degli antichi logici, affermo che il desiderio del piacere e il piacere sono i due elementi costitutivi del­la vita.

Piacere del desiderio e desiderio del piacere agiscono in un’unica situazione, nel gesto iniziale, nel gesto costitutivo; che però si costruisce e si realizza, sempre, in una situazione relazionale. Ora mi chiedo: ho ecceduto nel delirio metafisico, oppure nella metafisica delirante? Ho detto che l’essere umano è costituito dal desiderio del piacere e dal piacere del desiderio ed ho aggiunto che l’uomo è costituito dal suo dirigersi verso l’altro. Il dispiacere, il dolore, l’altro attore della rappresentazione, dove si situa, quando sorge?

Sorge fin da subito; ma non contemporanea­mente. Quando l’essere vivente sente il pro­prio desiderio, percependolo come piacere, nello stesso istante si struttura, dirigendosi verso: bisogno, piacere, desiderio esistono come direzioni, sono una direzione; ma, in questo dirigersi, accade, io credo sempre (ma nello stesso tempo affermo: non necessaria­mente), che il desiderio venga contraddetto, il piacere inibito, il bisogno negato.

La frustrazione si presenta con immediatez­za all’essere che vive, il quale se la sente pe­sare addosso e da cui deve in qualche modo difendersi.

La nostra cultura ha inventato un mito: Narci­so, il figlio di Cefiso e Liriope, innamorato di se stesso, contempla la propria immagine ri­flessa nell’acqua, la vuole baciare e in questo gesto trova la propria morte, annegato.

La morte di Narciso esprime l’impossibilità reale di una vita tutta ripiegata su se stessa. Narciso muore perché non può vivere. Ci può essere molto di moralistico in questa storia che pare adombrare discorsi del tipo: chi vive solo per sé è sterile; oppure: è giusto che muoia chi non ama che se stesso, e così via. Io preferisco interpretare il mito come mi fa co­modo e come più mi piace, giungendo anche a raccontarmelo un po’ diverso, per esprime­re a mo’ di parabola un altro mio pensiero: «Narciso, innamorato respinto, cerca di con­solarsi corteggiando la propria immagine».

Narciso è, per me, la rappresentazione di due pensieri. Con il primo pensiero, voglio affer­mare che la chiusura totale verso l’altro e l’assoluto ripiegamento su se stessi sono im­possibili. Se l’apertura e la relazione sono costitutive dell’essere umano, i loro contrari lo negano prima ancora che egli si ponga. Attraverso il secondo pensiero, io affermo che il gesto di Narciso è un gesto essenzialmente difensivo: Narciso cerca di sfuggire il dolore negandone l’origine. Narciso chiede a se stesso di appa­gare il suo desiderio.

Psicoanalisi contro n. 2 – Nel velluto un’armonia in silenzio

venerdì, 1 ottobre 1993

«Si immagini tutta questa severa allegria, sormontatadall’aurea sontuosa architettura dell’arpa a pedali di Erard, e si comprenderà la magica attrazione che il negozio dello zio, quel paradiso di armonie silenti ma preannunciate in cento forme, esercitava su noi ragazzi… »
(T. Mann, « Doctor Faustus »).

Il fascino degli strumenti musicali è infinito: superfici di legno liscio e lucido, spessori compatti di legno caldo; metalli freddi o teneri come la carne, ance, pistoni, tasti, riccioli, velluto, fessure che aprono profondità misteriose, e poi, odore di musica.Lo strumento musicale è un corpo. Si è venuto costruendo a contatto con il corpo umano. Secoli di amore e di ricerca hanno partorito il violino e il clarinetto.
Un’ingenua favoletta ci racconta che la musica è nata dall’imitazione del canto degli uccelli. Io dico che la musica è prima e dopo; solo per accidente essa è suono.La musica è prima di tutto silenzio, la musica si esprime col tatto. La via del suono l’ha imparata dopo. La musica vive nel corpo che vive. Il corpo che vive si muove: un fluire, un pulsare di organi, un contrarsi di fibre. Un corpo che vive e che muove è anche: il respiro, la gamba che fa il passo, la mano che accarezza. Tutto questo si distende in momenti successivi. Prima ho detto che la musica è prima di tutto silenzio; però avrei potuto dire che la musica è soltanto tensione e distensione; ma è una distensione che si costruisce attraverso tante piccole tensioni; ed è una tensione che si scioglie in una miriade di morbide distensioni.

La musica è il gesto più vicino al sogno; meglio: è prima del sogno. La musica si esprime attraverso la considerazione. La melodia, anche quando è omofona, ha dietro di sé, presupposta, una complicata polifonia. Gli armonici di un suono non sono soltanto il suo chiaroscuro, sono altri suoni che si condensano. Poi, ancora, armonie che sfumano, appena intuite, silenziose; talvolta precise come un sillogismo, talaltra arbitrarie e impreviste. Non esistono quindi melodie da intendersi come una pura successione nel tempo di suoni, la musica è prima del suono; è una condensazione di istanti vitali che, nel contrarsi e nel distendersi, roteano attorno e dentro al suono. La musica è sotto la pelle, la musica è anche la pelle. Quando le mani palpano uno strumento musicale questo deve diventare una parte del corpo. Questa è la magia dello strumento musicale: quando sonnecchia nel suo astuccio di velluto è un corpo intatto ed intero, autonomo. Quando incontra un corpo umano, perde la sua autonomia, deve diventare il prolungamento di questo: caldo, sudato, insalivato; odore di legno, di metallo, di panno. Qualche volta lo strumento è apparentemente più dentro al corpo stesso, quando la musica trova, cioè, la strada della voce umana. Ma non cambia niente: strumento di metallo, di legno, oppure tessuto organico la musica è prima, è già nell’impossibile silenzio.

Perché ho detto: impossibile silenzio? Perché quando penso alla musica la mia mente si riempie di suoni silenziosi: note che sono immagini, e che sono anche altro, si intrecciano e si sciolgono. E’ così forte quel suono che sento dentro di me!

E poi la musica si annida nei polpastrelli delle mie dita, quando disegno ritmi sul ricciolo massiccio di legno del bracciolo della mia sedia. La musica è sempre un gesto ossessivo, tutti i gesti sono sempre un po’ ossessivi, – quindi tutti i gesti sono anche musica. Il mio corpo nudo che tocca un altro corpo nudo si esprime in gesti che non sono mai del tutto spontanei: quel corpo e questo corpo, cercandosi, si esprimono in gesti desiderati ed imparati in precedenza, cui si aggiungono gesti che sono imparati in quello stesso momento, ma che diventano, immediatamente, rito.

Anche la spontaneità si esprime attraverso la coazione di piccoli gesti, inconsapevoli, ma consueti. E’ impossibile uscire dal gesto ossessivo, coatto. Come ho detto prima: tensione e distensione, ritmo e attesa, piacere che cerca il suo desiderio, questa è, per me, l’essenza della musica.

Ci sono persone che suonano; ma, anche se usano la loro voce, lo strumento rimane staccato, separato da loro. La musica, in questo caso, trova suoni rigidi ed inerti; tanti pezzi di legno, senza vita, che costruiscono una rigida gabbia. Quando succede che la musica sia una cosa ed il corpo un’altra cosa, è estremamente pericolose e dannoso stare a sentire. E’ dannoso anche suonare in questo modo. Mi basta sentire un corpo manifestarsi anche attraverso quattro note per capire se quella è musica « buona ». Ho usato questa espressione « buona », perché non volevo ricorrere ad espressioni più ricercate; tutti sanno, credo, cosa vuol dire « buona ». Quando la mia mano affonda nei tasti, in un modo che non so descrivere, quella volta, allora, capisco che sto suonando davvero, allora anch’io mi accorgo di esprimermi con una musica « buona ».

Il discorso è lo stesso, né più né meno, se la musica nasce da un gesto, con o senza la bacchetta: si in- contrano più corpi; ma è importante che non vi sia separazione.

Ho trovato un pensiero di Stock- hausen, che, secondo me, è reazionario, oltre che stupido: « … La nostra musica è divenuta musica di discorso… Essa è determinata dai muscoli: quelli della laringe per il canto, quelli delle dita per gli strumenti a tastiera, quelli della respirazione per gli strumenti a fiato: tutto era determinato dal corpo dell’uomo ed è per questo che non si è mai suonato su ritmi più rapidi o più lenti di quelli dei movimenti naturali dei corpo… ritmo di marcia, ritmo di polsi, ritmo di cuore, tutti questi ritmi meccanici che sono anche quelli dei nostro corpo e che rimangono al nostro corpo e non a qualcosa di libero, qualcosa che voli, qualcosa che mi lasci provare tra le battute il mio ritmo personale, che mi lasci il tempo, qualcosa che cambia, che non è statico, che ha una facoltà di variazione che non trovo nella vita meccanica di tutti i giorni » (Cfr. Guillot, Jost, Lecourt, « La musicoterapia », Guaraldi ed.).

Dove è il mio ritmo personale, al dì fuori di questo mio corpo? Forse in un improbabile spirito, che cerca una libertà ridicola, perché soltanto detta.

Anche i musicisti cadono, a volte, nell’ingenuo qualunquismo proprio a molti artisti ed hanno paura del corpo e del quotidiano. Certo, sono pienamente d’accordo nel rifiutare al ritmo di questo corpo, qui ed ora, l’attributo di « buon ritmo naturale ». Ritmo, suono ed espressione debbono dilatarsi e restringersi continuamente. Non credo che sia giusto e naturale ciò che adesso trova e sente questo mio corpo. E’, però, in questo mio corpo che voglio trovare la radice del desiderio, del l’espressione e della musica.

E’ estremamente gradevole ed è sessualmente eccitante, quando si ascolta una chitarra, sentire il frusciare delle corde sotto le dita di chi la suona; o sentire il respiro del flautista; ed è bello capire che non possono andare più in là, anche perché hanno questo corpo. C’è chi parla dell’infinita libertà dello spirito; io preferisco parlare dell’indefinibile tenerezza e possibilità del corpo.

Lo spirito è la mia voglia di comunicare. Non esistono limiti positivi, ma sentire, come limite, il mio corpo non è un limite.