Psicoanalisi contro n. 2 – Eros e Bios: anche la nascita del rito (1^parte)

ottobre , 1993

Io penso che l’essere umano sia, anche, continuamente, alla ricerca della stabi­lità.

La novità affascina e spaventa nello stesso tempo. Affascina perché spezza la monotonia di situazioni ripetute; spaventa perché sem­bra incontrollabile. La novità è difficile da concepire, sfugge con i suoi contorni impre­cisi: dove la mano si aspetta un appiglio si può trovare il vuoto, o, improvvisamente, si presenta sotto le dita qualcosa di compatto, ma di strana consistenza, incomprensibile. Mi sono accorto di aver usato il concetto di novità come se non fosse un concetto e tan­to meno il concetto di novità. Nella mia mente si sono presentate due immagini; la prima era formata da uno sfondo grumoso indefinibile su cui si sono formate le sei let­tere: n-o-v-i-t-à. Un serpente nero con al fondo, sulla a, un monumentale e incisivo accento. La seconda immagine consisteva in una figura fumosa, dai contorni mobili, inaf­ferrabili. È dunque questo, per me, il con­cetto di novità? Nient’altro che l’ingenua immaginazione di un pittore concettuale? In effetti, il concetto di novità assoluta non rie­sco a costruirmelo e a comprenderlo: coin­cide con il nulla. Potrei mettermi a gio­care con il concetto di nulla; ma la fi­losofia occidentale ci ha già giocato fin troppo; credo che annoierei chi legge e, soprattutto, mi annoierei.

La novità è quindi per me non qualcosa di assolutamente nuovo, che, come ho detto, non so cosa voglia dire; ma un che di impre­ciso, di inafferrabile, proiettato in avanti. Il concetto di novità porta con sé altre parole come: attesa, speranza ed, anche, spavento. Quindi è assai meglio far scaturire la novità da ciò che è noto. Dobbiamo abbattere le strutture avendone però in mente di nuove che, essendo già in mente, non sono, però, più novità assoluta.

Ma queste nuove strutture di dove sorgono? Non certo dall’assolutamente ignoto, il vec­chio non essere parmenideo; ma da quello che noi siamo, vogliamo, o crediamo, di volere. La novità, però, non è soltanto il nuovo, il di­verso; è anche l’imprevisto L’imprevisto è l’aspetto ignoto del diverso; però l’imprevisto e l’ignoto, non appena vengono pronunziati, come parole o come concetti, non sono più quello che dovrebbero essere. L’ignoto ha un volto, inquietante l’imprevisto si mescola con i nostri progetti e i nostri desideri.

L’uomo come può controllare la novità, sen­za distruggerla, e nello stesso tempo cercan­do di evitare il rischio di cadere preda del sempre saputo e della noia?

Andando alla ricerca dei principi primi, o dei primi principi o del principio dei principi.

Se riusciamo a dare un ordine a quella che noi chiamiamo realtà; la novità e l’imprevi­sto si debbono assoggettare, tutto sommato, a questo ordine, pur mantenendo le loro ca­ratteristiche indefinibili.

Penso che tutte le culture abbiano tentato di interpretare in qualche modo i fatti che acca­dono. Ho usato il termine «fatto» perché è il più concreto e il meno compromesso. Fatto è un avvenimento storico e fatto è anche un ge­sto quotidiano. Sono i fatti che «avvengono» attorno a noi e in noi. L’occidente ha, da mil­lenni, prodotto un genere di persone chiama­te: i filosofi. Sono costoro individui quanto mai difficile da definire.

Il buon senso comune dice: in fondo siamo tutti filosofi. La cultura, però, ha definito qualcuno con questo nome. Nonostante la difficoltà di definire che cosa sia il filosofo, noi abbiamo la filosofia e la storia di questa nostra filosofia. La storia della nostra filoso­fia segue, secondo me, due direttrici fonda­mentali.

Lungo la prima linea di pensiero si situano tut­te quelle correnti filosofiche che tentano di por­tare l’infinita varietà dei fatti ad ordinarsi se­condo un unico principio ad essi sottinteso e dei quali è guida Queste sono concezioni metafi­sico-spiritualistiche, o materialistiche, che si ritrovano, però, d’accordo nel fissare un prin­cipio, e dopo averne analizzato il meccanismo, perché anche i principi hanno un meccanismo al loro interno, nel porlo come ho detto, prima e dentro ad ogni cosa. Questo principio è estre­mamente protettivo e rassicurante.

Ci sono all’interno di questa concezione, due ulteriori atteggiamenti fondamentali. Il pri­mo vede questo principio come qualcosa di buono, che fa progredire il tutto: uomini, formiche e stelle, verso un futuro sempre migliore, al di qua e al di là della vita. Il secondo più disincantato e forse un po’ sa­dico parla di corsi e ricorsi, di cicli che si ri­chiudono e ricominciano sempre, eterna­mente immutabili.

Spesso, all’interno di questi sistemi, alcune concezioni hanno sentito l’esigenza di scindere il principio guida in due mo­menti antitetici in conflitto che, però, attraverso e per mezzo di questa loro tensione, guidano e determinano il divenire del tutto. Il meccanismo originario rimane uno e comprende e risolve in sé i due oppo­sti. I principi in conflitto trovano il loro si­gnificato nel conflitto stesso, che li controlla e li domina.

Lungo la seconda linea di pensiero si collo­cano tutte quelle filosofie che vedono i fatti dominati da più principi, che possono essere o non essere in conflitto tra loro. Il principio unificatore di tutto è la facoltà interpretativa della ragione. La ragione unifica perché com­prende le concatenazioni causali e compren­de anche se stessa. Anche quando queste con­cezioni ipotizzano un Dio, esso non è tanto il garante della salvezza e dell’ordine universa­le, quanto la facoltà unificatrice della com­prensione razionale. La ragione, compren­dendo ed interpretando, unifica, distingue tutti gli esseri in generi e specie; ne esprime le caratteristiche, ne esprime i significati esi­stenziali e scientifici. La ragione riunisce ciò che è simile e distingue ciò che è diverso. La ragione, divenuta meno ingenua, ha prodotto e fondato essa stessa i propri concetti e il con­cetto di concetto. All’interno di questa cor­rente, alcuni pensatori, con una struttura psi­chica particolarmente paranoide, o depressi­va, hanno sentito vano lo sforzo unificatore della ragione, anche quando fondava se stes­sa, e, usando la ragione, hanno fondato lo scetticismo della ragione. Le teorizzazioni di cui ho parlato prima sono il frutto del pen­siero di menti acculturate e, quindi, sono espressioni della cultura di una classe preci­sa: la classe dominante.(’)

Una cultura si esprime per mezzo di un lin­guaggio comprensibile, soprattutto, a coloro che la producono. Anche i temi trattati sono congeniali alla classe che li esprime, perciò la visione del mondo che ne deriva è inter­pretabile con parametri specifici coerenti con il sistema di valori e di significati espressi da quella cultura.

I libri parlano di tutto: ma non sono per tutti. I libri buttano uno sguardo sul mondo, su tutto il mondo, tentano di comprenderlo di sistemarlo, di chiarirlo; tentano di chiarire i problemi di tutti: dei re e dei servi, dei ricchi e dei poveri; però fino ad ora, lo hanno fatto dal punto di vista dei re e dei ricchi. Anche quando parlano contro i re e contro i ricchi, i libri lo fanno usando il linguaggio, gli strumenti e la cultu­ra di costoro.

È fondamentale 1′ appropriazione, da parte di tutti, di questi strumenti e di questa cultura,io non credo nell’utilità della loro distruzione che significherebbe la definitiva castrazione; ma credo nell’importanza dell’espropriazio­ne di un monopolio. E se l’espropriazione passa anche attraverso strumenti compro­messi dal potere dei re e dei ricchi, chi se ne frega? Spero che avremo abbastanza sapo­nette profumate e detergenti biodegradabili per lavarci con cura le mani sporche. La cul­tura dominante, sebbene propria di una clas­se, è riuscita a dare ugualmente una visione del mondo organica e coerente, anche siste­mando con sufficiente assennatezza i proble­mi e i significati connessi a quella parte di umanità che a questa cultura è abbastanza estranea. La realtà, però, non è qualcosa di oggettivo che è dato e basta; la realtà è co­struita anche dalla interpretazione che se ne dà. Per cui la cultura, nel suo costruirsi, co­struisce anche, almeno in parte, la realtà che tenta di chiarire. Non mi sembra del tutto de­lirante dire che l’interpretazione della realtà, data, nella nostra società, dalla Cultura con la C maiuscola, è un’interpretazione necessaria.

La nostra è, però, soprattutto, una cultura in­telligente, fatta da persone intelligenti, perciò la sua frammentarietà la sua parzialità sono ben camuffate, tanto che, qualche volta, anch’io, frutto ed espressione di questa cul­tura, ho l’impressione di muovermi dentro alla Cultura; cioè dentro all’unica forma pos­sibile di ricerca del significato di ciò che mi trovo addosso ed intorno.

Penso che questa sensazione derivi, in buona parte, da miopia narcisistica, da pigrizia men­tale e dalla paura della destrutturazione deri­vante dal timore di perdere i miei privilegi; penso, però, che derivi anche dal fatto che la cultura dominante non è così stupida da guardarsi solo allo specchio o da guar­dare il mondo solo attraverso il suo specchio; vuole anche appropriarsi di ciò che non è suo, di ciò che non deriva da lei; ma di cui ha bisogno per poter sopravvivere. La classe dominante ha bisogno di condizio­nare la cultura popolare e subalterna, per po­ter controllare la società in generale; c’è riu­scita tanto bene che la cosiddetta cultura po­polare, non ufficiale, o subalterna, è profon­damente compromessa con quella del potere. È abbastanza comprensibile che millenni di violenze e di stupri abbiano fatto partorire alla cultura del popolo figlioletti straordina­riamente somiglianti a Lorenzo il Magnifico. La vergine cultura popolare non esiste più, forse non è mai esistita. Fin dall’inizio, quan­do due persone hanno guardato il mondo e cercato di capirlo e di farsene una ragione, il più forte e il più «intelligente» ha comincia­to a dire e a fare cose bellissime, l’altro, più debole e più stupido (?) ha cominciato a guar­darlo a bocca aperta, a servirlo, e, nello stes­so tempo, a sentirsi venir su, di dentro, una gran voglia di ribellarsi, di dare una ginoc­chiata a quel tale o a quella tale che viveva­no del suo lavoro, torcevano il naso per la sua puzza e che dicevano, parlando tra loro, cose bellissime. Gli è venuta voglia di… ed ha par­lato di ribellione. Però gli è anche venuta vo­glia di… ed ha tentato di imitare quei due; ma è venuto un altro a dirgli che non doveva né ribellarsi né imitare, che Dio non voleva. Al­lora ha avuto paura ed ha incominciato a rac­COMUIS1 storie, cosi, per passare n tempo. Storie in cui tutto era confuso, in cui, sotto sotto, c’era solo la voglia di star bene, di go­dere, con lo stomaco, con il sesso e con il cuore, di avere anch’egli il suo piccolo do­minio

Io ho studiato a lungo la poesia e la musica popolari italiane, ed ho trovato moduli musicali interessanti, antichissimi, misteriosi, mescolati a melodie ed armonie delle musiche del padrone. La stragrande maggioranza dei versi delle canzoni popolari esprimeva una piena accettazione del sistema di valori dominante. Con mio estremo stupore, ho trovato l’arte popolare assai poco rivoluzionaria.

Gli oppressi non hanno mai desiderato altro che poter sognare di essere padroni ma su tutto è prevalsa sempre una malinconica stanchezza, un invito a rinunciare alla lotta: se il mondo è sempre sta­to così è inutile sperare di cambiarlo. I pro­verbi esprimono non tanto la saggezza dei popoli quanto la loro rassegnazione.

La società contadina e proletaria, da alcuni secoli almeno, non è una società che deside­ra la giustizia ed il rispetto; i deboli vi sono schiacciati e i diversi derisi con brutalità e violenza. Basta, per capirlo, ascoltare le an­tiche canzoni venete, le lunghe storie pie­montesi e i lirici canti della Sicilia. I padroni non soltanto hanno saputo costringere i servi a servire, ma li hanno costretti a produrre an­che una sottocultura in cui sopraffazione, vio­lenza ed egoismo sono i temi presenti e do­minanti.

Di giustizia e di libertà, per fortuna, qualche volta si parla, come, per fortuna, lungo i se­coli, gli oppressi hanno preso la falce e i ba­stoni e li hanno usati come armi contro i ca­stelli dei padroni; ma la loro cultura, dopo qualche decina di esecuzioni sui patiboli e sulle forche, ha ricominciato a sognare e a fantasticare; è rinato il desiderio di essere a propria volta padroni. Poi i parroci hanno ri­cominciato a predicare e le buone signore a portare ciambelle ai figli dei poveri e piano piano sono rinati anche i canti della rasse­gnazione e si sono prodotti sempre meno inni di rivolta. Un’antica strofetta delle campagne piemontesi ai piedi della Val d’Aosta, facen­do il verso al suono delle campane, dice così:

«Chi n’a nèn – chi n’a poc – chi n’a tan – tan tan». (C’è chi ha niente, chi ha poco e chi ha tanto, tanto, tanto). Una constatazione di una realtà sociale, ironica e disincantata: lo dico­no anche le campane che non c’è niente da fare.

In questi versi è nascosto tutto il significato della cultura popolare; l’ironia deriva dalla voglia di ridere a tutti i costi, anche delle pro­prie disgrazie. Da quel campanile arriva l’esortazione ad accettare, con umiltà e rasse­gnazione, quello che è; però c’è anche la con­sapevolezza di quello che è; e la consapevo­lezza è il primo, indispensabile passo per riu­scire a cambiare qualche cosa. Io credo, però, che siano stati scritti più canti di protesta in questi ultimi dieci anni, da parte dei cantautori e dei mass media rivoluzionari, di quanti ne siano stati scritti e prodotti in millenni di storia passata. I can­tautori rivoluzionari della nostra epoca non sono, per lo più, proletari. Io scrissi canti di questo genere, alcuni anni or sono, in occa­sione di grossi scioperi alla FIAT di Torino. Ero allora un musicista e un universitario ri­belle, col senso di colpa per essere nato bor­ghese. Quelle canzoni non le ricordo più, fu­rono cantate per un giorno o due, su di un ca­mion e sparse nell’aria con un altoparlante, in­sieme a quelle di altri, più belle e più brutte. Tutto è cosi lontano. Erano canzoni sincere. Anche se molti canti di protesta, prodotti in passato direttamente dal popolo e dai veri sfruttati, non sono giunti fino a noi, soprattut­to, perché a raccoglierli e a tramandarli sono stati, per forza di cose, gli studiosi borghesi, i quali, comprensibilmente, hanno dato più spa­zio ad argomenti meno compromettenti e compromessi come: l’amore, la religione, per­sino il sesso, perché, si sa, il popolo è sempre un po’ volgare; tuttavia, in base alla mia per­sonale esperienza di ricercatore nelle campa­gne e nelle osterie di città, posso dire che il di­scorso di protesta non è stato così presente alla cultura popolare quanto si potrebbe credere. La cultura delle classi dominanti si è espres­sa, da sempre, per mezzo dei libri, che la rac­chiudono e la custodiscono. Attraverso di essi anche le forme di cultura che non si esprimo­no sulla pagina scritta vengono analizzate e meditate. La pagina è la parola congelata. In fondo, si potrebbe dire che il pensiero è stato il primo prodotto dell’uomo ad essere insca­tolato per poter essere sempre pronto per l’uso. Non voglio dire con ciò che il libro sia un male, nemmeno che sia un male necessa­rio. Penso che il libro possa essere usato male, questo sì; ma ritengo che sia, per il momento, uno tra gli oggetti più utili della nostra vita, ed anche tra i più rivoluzionari.

La cultura popolare è da moltissimi secoli una cultura teatrale; questo teatro ha trovato una tra le sue espressioni più concrete nella religione. Sacrificando il «tragos» a Dioniso il sacerdote narrava e mimava una storia. Il popolo ha sentito il rito come una sua espressione culturale. Al rito si è sentito partecipe ed ha portato un contributo proprio ed originale. La teorizza­zione della religione è estranea alla cultura popolare. Le teologie e le dissertazioni dot­trinarie appartengono alla cultura delle clas­si dominanti. II popolo invece, come ho det­to, partecipa al rito; alla sua formazione. Non certo spontaneamente; non sono suoi i desi­deri ed i pensieri immediatamente espressi nel rituale. I templi, i paramenti sono mani­polati, le musiche, per lo più, sono prodotte dal potere; un potere, però, disponibile ad ascoltare il sogno del popolo ed i suoi desi­deri. La ricca complessità dei riti è frutto del­la secolare sedimentazione di leggende, ri­cordi, bisogni, consapevoli e non, provenien­ti da una realtà sociale presa nel suo insieme. Frammenti di rituali di altre religioni si me­scolano a quelli delle religioni dominanti, ge­sti che si perdono in lontananze indecifrabi­li, si intrecciano con gesti che esprimono esi­genze del presente; il tutto nel tentativo, di raccontare.

La cultura borghese poi ha tentato di co­struirsi una religione senza riti: le evoluzioni del luteranesimo, e particolarmente le cor­renti calviniste, hanno trasformato il rito in meditazione lirica collettiva. Il gesto è stato castrato, la parola e il suono sono diventati preponderanti; della rappresentazione non ri­mane che l’involucro.

Resta comunque centrale l’ascoltare in co­mune il racconto della vita di un personaggio vissuto tanti secoli prima: il rito cattolico ed ebraico sono frutto della volontà dei domina­tori; ma i desideri del popolo, almeno nella forma, li condizionano maggiormente: mi preme, però, ribadire l’affermazione che in tutte le espressioni culturali del popolo è pri­maria l’istanza teatrale.(2)

Anche l’espressione laica del popolo è es­senzialmente teatro e rappresentazione: gli istrioni e i cantastorie raccontano e mimano fatti e avventure. Certo, esistono anche mo­menti di espressione lirica e sentimentale del desiderio; ma sorgono come com­mento espressivo a fatti che sono sta­ti narrati o che vengono presupposti, per cui si può onestamente dire che l’aspetto fondamentale del pensiero espresso dal po­polo si è espresso, nella nostra cultura, attra­verso la rappresentazione. Alle origini, nel rito, la partecipazione del gruppo è attiva e diviene man mano più passiva nelle rappre­sentazioni di tipo teatrale o parateatrale più vicine alla nostra epoca; fino all’estrema pas­sivizzazione dello «spettatore» delle rappre­sentazioni cinematografiche e televisive. Qui lo spettatore (che non per nulla si chiama così) ha soprattutto il ruolo di entità pagante, che può, tutt’al più esprimere un parere, ma­gari con lettere ai giornali. Nello spettacolo cinematografico e televisivo è del tutto abo­lita la presenza fisica di persone che parlano e si muovono in contatto emozionale diretto con altre persone che, messe di fronte, assi­stono, presenti con la loro carne, i loro odo­ri, gli applausi e tante altre forme di parteci­pazione. Anche un cataclisma, o una rivolu­zione piena di violenza e di morti reali, ri­presa in diretta su di un teleschermo, divie­ne, soprattutto, spettacolo, teatro In effetti, le indagini in diretta del telegiornale, trasmesse dopo un breve «parapperu» di archi e fiati, scivolano e si confondono, nella penombra dei tinelli, con le prime scene dell’incontro di Elisabetta I che recitando, litiga con l’arcive­scovo di Westminster.

Ancora una volta, il potere ha preso in mano la situazione: spettacoli televisivi, cinemato­grafici e partite di calcio non sono certo espressioni agite ed ideate dal popolo; anzi, questa parola; «popolo», sta diventando sem­pre più ridicola ed ha, forse, ancora un suo reale significato, solo quando viene pronun­ciata da Maria Antonietta in un drammone te­levisivo sulla rivoluzione francese.

Eppure, gli sfruttati esistono ancora: lascia­mo in sospeso, per ora, questo problema.

La cultura dominante ha sempre avuto molta cura di distinguere l’arte dalla filosofia, rite­nendo la prima, di volta in volta, dominati- ce e dominata dalle emozioni e la seconda espressione della ragione. Distinzione quanto mai balzana; che può essere vanificata osservando con un minimo di attenzio­ne quei fenomeni che vengono chia­mati arte e filosofia.

La cultura cosiddetta popolare non ha opera­to questa distinzione; alcuni dicono per sua inferiorità costitutiva, affermando che, essen­do il popolo dominato dalle passioni e dall’immediatezza, non può e non sa riflette­re in modo sistematico e astratto.

Quest’ultima affermazione è, secondo me, assai goffa e semplicistica. Non si tratta tan­to di inferiorità costitutiva, quanto di impos­sibilità pratica di usare alcune forme di co­municazione. Non esiste e non è mai esistita una cultura popolare autonoma. Come sono stati strumentalizzati e manipolati dal potere i singoli individui, così sono state strumenta­lizzate dal potere le forme di cultura.

La cultura del potere cerca, dal suo canto, di strumentalizzare ogni forma espressiva, da qualunque parte essa sorga e qualunque istanza cerchi di esprimere.

Come ho già detto, la cultura popolare non è stata, quindi, la cultura degli oppressi che parla di libertà e di liberazione; tutt’al più è successo e può succedere che dalle oscure profondità di un malessere, quasi inconsape­vole, sorgano dure immagini di rivolta, me­scolate, però, sempre, a considerazioni e pen­sieri che parlano di rassegnazione e di accet­tazione, seppure amara.

Il teatro in genere, non solo quello popolare, ha avuto, sempre, come suo argomento pri­vilegiato, la lotta del bene contro il male o, meglio, dei buoni contro i cattivi. La cosid­detta cultura popolare, essendo, come ho det­to, soprattutto teatro, ha espresso un’infinità di storie incentrate sulla lotta tra i buoni e i cattivi. Di rado, però, questa lotta ha avuto il significato di lotta per la giustizia, intesa in senso vasto e collettivo; per lo più, si è trat­tato di dimostrare che il singolo cattivo deve perdere, e allora sono tutti contenti; oppure, in un accesso masochistico, è il singolo buo­no che viene sconfitto, e allora tutti sono tri­sti. È più un meccanismo compensatotici che una reale volontà di ribellione, sebbene, per fortuna, talvolta, serpeggi anche questa.

Io penso, tutto sommato, che potremmo ri­durre tutta la nostra cultura, sia quella prodotta dai padroni, sia quella balbettata ambiguamente dai servi e dai mezzi padroni, ad una infinita variante dell’istanza del teatro.

La filosofia e la scienza, nel tentativo di ri specchiare il mondo, non fanno altro che rap presentarlo e l’arte, non importa se attravei so suoni, immagini o parole, racconta sempr una storia. Nella filosofia, nella scienza nell’arte la mente umana ha sempre bisogn di ritrovare i buoni e i cattivi. La filosofia la scienza, che sono più narcisistiche, fann sempre vincere i buoni, cioè quel simpatia personaggio che si chiama verità.

Nell’arte si annidano e si manifestano coi maggior precisione le istanze sadomasochi stiche; i buoni talvolta soccombono; ma I rappresentazione è sempre la stessa. Potreb be sembrare che io sia caduto in una con traddizione perché, prima, ho detto che l’ari popolare è in gran parte conservatrice e per meata dai valori della classe dominante, poi dico che ogni espressione culturale esprimi la lotta tra il bene ed il male. Se così fosse bisognerebbe riconoscere nella cultura popo lare un profondo desiderio di rinnovamento di ribellione e di giustizia.

Io ritengo, invece, che l’espressione popola re così succuba e condizionata da coloro chi la dominano, accetti i principi di bene e d male, di giusto e di ingiusto che le vengon imposti, li faccia suoi e li sostenga. Ho detti anche che tutta la cultura si esprime attraver so la rappresentazione. La cultura proponi una visione del mondo, questa visione è sem pre un’interpretazione che consiste ne proiettare al di fuori i desideri e i bisogn dell’uomo.°

La realtà è la mia ipotesi di realtà: cerco d costruire un mondo in cui sia possibile pro gettare la realizzazione dei desideri che m sento dentro. Il male è ciò che si oppone a miei desideri; i miei desideri stessi sono i bene. I desideri e i bisogni sono molti, spes so in opposizione tra di loro; ecco perché visione del mondo è così articolata e con traddittoria.

Io sono il terreno sul quale i miei desider combattono; questa lotta la voglio vedere anche fuori di me, perché sento che soltan to attraverso il fuori di me i miei desii deri acquistano un significato. Proviamo ad immaginarci assolutamente soli, aventi come unica caratteristica quella di essere vivi: la nostra mente non ce la fa. La vita è costitutivamente relazione. Possiamo, al massimo, immaginarci fluttuare nello spazio, possiamo immaginare i nostri gesti liberi dal vincolo della gravità, possia­mo vederci muovere con piacevoli guizzi; però, abbiamo pur sempre immaginato noi stessi immersi in qualcosa che sta fuori di noi; ma che fa parte di noi; o meglio: noi riu­sciamo a percepirci come viventi soltanto in relazione a questo vuoto e a questo spazio in cui abbiamo immaginato di star piacevol­mente sospesi. Non credo neppure che riu­sciamo ad immaginare un vuoto e uno spazio assoluti: se noi descriviamo a noi stessi lo spazio deserto in cui abbiamo immaginato di trovarci, ecco che ci accorgiamo che questo non è altro che lo spazio cosmico; così come lo abbiamo immaginato da bambini; oppure lo assimiliamo all’idea di un grande mare e le nostre braccia e le nostre gambe sentono la fresca consistenza dell’acqua. In un’unica espressione, potrei dire che anche se volessi­mo immaginarci soli in un luogo deserto noi costruiremmo, noi stessi e le nostre immagi­ni, in relazione con questo vuoto deserto, che sarebbe, oltretutto, percepito da noi con ca­ratteristiche palpabili e precise. Io sento di non essere altro dalla mia esperienza. Non voglio fare un discorso di forma, di Io,(4) di contenuto e di esperienza. Voglio solo dire che io sono la mia esperienza e la mia espe­rienza si costituisce nella relazione tra l’Io, che a sua volta non è altro che un insieme di relazioni, e un non io, oppure un oggetto, come siamo stati abituati a chiamarlo, che però non è altro se non la situazione stessa di relazione, o la situazione esperienziale. Pos­siamo distinguere due momenti fondamenta­li del progetto esperienziale: il primo è il mo­mento della relazione e basta; in cui i nostri desideri ci formano come esseri relazionati; e in questa situazione la frustrazione del de­siderio, e tutto ciò che ne consegue, ha la ca­ratteristica dell’immediatezza, quasi del non voluto. Il secondo momento fondamenta­le è quello in cui l’esperienza viene og­gettivata, raccontata, nel tentativo di essere capita; in questo momento l’esperienza viene rappresentata, il mondo in cui l’individuo agisce diventa teatro. Spesso la nostra vita, nei sogni, viene raffigurata con l’immagine di una sala di teatro o un palco­scenico; in quel momento l’uomo vive e re­cita un copione che egli stesso si è scritto, o che ha creduto di scrivere.

Vico diceva che è possibile comprendere, fmo in fondo, soltanto ciò che si è prodotto direttamente: l’uomo non potrà mai com­prendere la natura perché essa non è una sua creazione, l’uomo può comprendere la storia perché l’ha costruita egli stesso. Io non cre­do che l’uomo sia più direttamente creatore della storia che della natura; però so che l’uomo racconta a se stesso la propria storia, nel tentativo di comprenderla; e non solo: con beneplacito di Vico, direi che l’uomo rac­conta, oltre che la propria storia a se stesso, anche la storia dell’universo, a sé e agli altri; la storia dell’universo intero: del sole e delle formiche. Tutto diventa un grande teatro in cui l’uomo spera di essere l’autore e il regi­sta, oltre che l’attore principale, il protagoni­sta, beninteso.

Ma l’uomo non racconta la storia della realtà solo per riuscire a capirla, la racconta anche col desiderio di controllarla e dirigerla. Se è vero che egli scrive il copione, deve essere anche vero che può controllare gli avveni­menti e determinare il finale.

La vita, perciò, diventa più prevedibile; tutto accade come sulla scena; il copione, tutto sommato, protegge da un’inserzione troppo massiccia dell’ignoto. Ciò che comunemente viene chiamato cultura non è altro, secondo me, che la rappresentazione. L’uomo e il suo mondo vengono rappresentati dalla cultura, da quella dei padroni come da quella dei servi.

Arrivati a questo punto del mio discorso, potrebbe sembrare che io abbia voluto dire: «Vi è un momento primo originario (l’infanzia?), in cui l’essere umano si costruisce come relazione e tenta di realizzare i propri desideri e un seguito (cronologicamente concepito) in cui l’uomo riflette sulle proprie relazioni, sulle proprie esperienze e tenta di inserirle in una scena organica rappresentando la vita e tutto ciò che entra a far parte della sua vita». Questo secondo momento sarebbe la cultura. Io, però, non vole­vo dire affatto questo.

Secondo me, questi due momenti non hanno una sistemazione cronologica. Io voglio dire che l’uomo è i propri desideri; e si struttura nella relazione con l’altro perché questa è la direzione dei desideri. Perciò non vi è un mo­mento, o dell’infanzia, neppure la più remo­ta, o della vita interiore, in cui l’Io sia iden­tico a se stesso e coincida pienamente con il sé e, in seguito, un istante successivo in cui questo Io desideri e si proietti fuori di se stes­so, progettando. L’essere umano è questo progetto. In principio non c’era altro. Il se­condo momento non realizza istanze e biso­gni dell’età adulta. Il bisogno di rappresen­tare è presente fin da subito nell’essere uma­no. Questo «fin da subito» è abbastanza dif­ficile da collocare. Quando il bambino co­mincia ad attendere? Credo sia impossibile dirlo; ma è in questo momento che egli inco­mincia a rappresentarsi la realtà. L’attesa del soddisfacimento del desiderio viene riempita da ricchi giochi fantastici; nella tensione dell’attesa vengono evocati personaggi che, pur avendo qualche legame con il desiderio, arrivano, talvolta, da regioni lontane, ina­spettate; proprio come a teatro. E quando il desiderio crede di potersi scaricare (perché il mondo esterno è pronto a soddisfarlo final­mente) accadono due cose bizzarre La prima cosa bizzarra è che alla scarica del desiderio si sovrappongono tutte quelle immagini fan­tastiche, teatrali, che si erano prodotte nella tensione dell’attesa, e perciò la rappresenta­zione continua. La seconda cosa bizzarra è che il desiderio, nel momento del suo appa­gamento, si trova indebolito; buona parte del­la sua energia era stata assorbita dalla rap­presentazione.

E un’esperienza comune quella in cui, dopo aver tanto atteso ed immaginato un avveni­mento piacevole, esso, quando ci si presenta, ci lascia insoddisfatti, come qualcosa di or­mai stanco e sbiadito.

hi tutte le fantasie che immaginano una realtà è sempre presente la lotta tra i buoni e i cattivi, tra i desideri e ciò che loro si oppone. Talvolta gli eroi siamo noi stessi, talaltra sono invece nostri sostituti; ma la lotta è continua ed incessante. La cultura non è quindi lo specchio della realtà: è il nostro progetto della realtà. È il teatro del teatro.

La filosofia, l’arte della classe dominante e la cultura popolare tentano tutte di dare una vi­sione organica e complessiva dell’uomo e del mondo. In nessuna epoca queste tre espres­sioni culturali hanno agito separatamente; tutte e tre unite sono «la cultura di una ci­viltà». Anche ogni singolo essere umano, vi­vendo, rappresenta, a se stesso e agli altri, la propria vita.

Ritengo che siano sempre compresenti e complementari tre istanze psichiche fonda­mentali: la prima è la relazione esperienziale che si costruisce attraverso la vita e che con­tinuamente progetta e tenta di controllare; la seconda è la rappresentazione che io mi fac­cio di ciò che ho e di ciò che sono; la terza, che si potrebbe anche considerare un aspetto della seconda, consiste nel mimare continua­mente la nostra situazione esperienziale; nell’essere contemporaneamente noi stessi e gli interpreti di noi stessi.

Non riesco a decidere se, per l’uomo, venga prima l’esperienza o l’espressione di questa; forse non è di nessuna utilità il cercare di sco­prirlo. Chi muove e sente attraverso i movi­menti e attraverso sensazioni, esperisce se stesso. Un se stesso, però, che non è un sub­strato stabile e individuabile, attorno al qua­le girano le sensazioni; ma è un fascio di rap­porti in cui le sensazioni sono costitutive. Questo non è soltanto un modo di essere e di sentire; è anche un modo di comunicare ed esprimersi. Io ho la mia esperienza che si rea­lizza e si esprime attraverso una numerosa varietà di linguaggi. La persona si realizza at­traverso i linguaggi che la costituiscono. Alcune grossolane e semplicistiche teorizza­zioni del linguaggio, verbale e non, iniziano col dividere ogni gesto umano in due grandi classi fondamentali: la prima comprende quei gesti che hanno come scopo il produrre; la se­conda, quelli che hanno come scopo il comunicare ad altri emozioni e concetti. Questa potrebbe sembrare una distin­zione operativa; che serve a distingue­re il materiale da chiarire in modo da potercisi orientare. Io penso, però, che non sia possibile costruire schemi ed operare di­stinzioni, confini, esclusivamente operativi; dietro allo schema sta sempre il significato dello schema.

La distinzione di cui ho parlato prima non opera soltanto come innocua divisione tra la congerie dei gesti umani; ma nello stesso momento che opera una distinzione impos­sibile, spezza in due quella che io chiamo «espressione-esperienza»; cioè spezza in due l’uomo.

È impossibile distinguere i gesti che produ­cono da quelli che esprimono e comunicano. Ogni gesto ha sempre entrambe le caratteri­stiche. Prendiamo, per esempio, la serie di gesti miranti a produrre un piatto di cibo cu­cinato. Lì per lì, questi gesti potrebbero sem­brare mossi esclusivamente dall’intenzione di produrre; i gesti del cuoco si articolano in­torno ai vari ingredienti della ricetta ed ogni gesto parrebbe soltanto produrre e non espri­mere: la mano impugna la frusta che, con il suo dimenarsi, fa gonfiare la chiara d’uovo… poi si taglia il lardo a dadini… poi «si aggiu­sta di sale e pepe, quanto basta»… e così via. «Dopo aver messo tutto nel forno ben caldo, per trenta minuti circa, si porta in tavola». Eppure, io penso che chi ha cucinato il cibo intendeva, anche, comunicare qualcosa a co­loro per i quali ha cucinato. Questo avviene sempre in tutta la serie complessa di gesti che partono dalla prima manipolazione degli in­gredienti fino a quello di posare il piatto cal­do sul tavolo. Basta stare a sentire la voce del cuoco che dice: «Spero che vi piaccia». Può significare tante cose. Così pure, il gesto del commensale che avvicina la sua posata alla sua porzione di cibo non ha solo la funzione di portare il cibo alla bocca; la rapidità o la lentezza con cui il gesto avviene si trovano a comunicare qualcosa. Questo vale per ogni gesto che compiamo: dal gesto di Napoleone che si mette da sé la corona in testa, al gesto del portiere che apre il cancello.

Mentre fabbrico la mia vita e le cose della mia vita uso, contemporaneamente, quegli stessi gesti per comunicare qualche cosa.

Nessun essere umano è maì solo, neppure l’eremita nel deserto. Attorno a lui si affolla una grande quantità di personaggi che, talvolta, gli balzano addosso da lontananze di­menticate. L’eremita si inginocchia sulla sab­bia; sa di essere osservato, non solo dal suo Dio. Quando diciamo che vogliamo essere soli per essere noi stessi, diciamo una gran sciocchezza; soli non siamo mai, recitiamo sempre il nostro teatro. Ogni nostro gesto è compiuto come se qualcuno ci guardasse. È molto interessante osservare una persona, sola in una stanza: non c’è bisogno di usare gli squallidi trucchi dei laboratori di psicolo­gia sperimentale, che sono soprattutto umi­lianti; basta usare i mezzi della commedia dell’arte, o della pochade fine secolo, o, me­glio, basta che pensiamo a noi stessi quando siamo soli. Ognuno di noi, nella solitudine della propria stanza, ha recitato una gran quantità di personaggi. C’è chi si traveste e si guarda allo specchio; c’è chi si siede come ha visto fare in quel film. Ma il gesto-comu­nicazione non riguarda soltanto i gesti ma­croscopicamente teatrali. Poichè nessuno di noi può mai sentirsi, in realtà, completamen­te solo, ogni gesto deve tenere conto di altre presenze, fantastiche o reali, non importa. Io mi sento sempre anche di fronte ad altri; al­tri che devo blandire, ingannare, da cui farmi perdonare, ammirare. Perciò ogni mio gesto tende a comunicare qualcosa di me e voglio, anzi esigo, che gli altri lo sappiano.

D’altra parte, anche i gesti che, esplicitamente, sembrano realizzarsi esclusivamente nella loro intenzione comunicante non realizzano, assolutamente mai, la sola comunicazione. Se io parlo a qualcuno per raccontare una mia emozione o un fatto che mi è accaduto, sempre, mentre parlo, costruisco, più o meno consciamente, la mia comunicazione, al fine di realizzare anche scopi che vanno oltre la comunicazione stessa. Questo vale per il discorso che racconta la mia vita passata, come per lo sguardo che voglio che esprima tristezza. Con quelle parole non voglio soltanto raccontare che: «…quando ero ragazzo avevo un amico che forse…» Con il lento ruotare dei miei occhi, meglio se umidi di lacrime, non voglio soltanto dire all’altro «sono triste». Tutti questi sono segnali che io uso, intenzionalmen­te, per ottenere, per produrre qualcosa. Ogni gesto non è, dunque, soltanto il risultato di una intenzione che mira a produrre un ef­fetto più o meno concreto, unita e sovrappo­sta ad un’intenzione che tende all’espressione e alla comunicazione; ma è anche ricco di in­tenzioni fattive ed espressive che si sovrap­pongono, si intrecciano e si condensano. Il prodotto più autonomo della esigenza di rappresentare è ciò che, comunemente, viene chiamato cultura. La cultura ha distinto se stessa in tre grandi sottoclassi: la filosofia, la scienza e l’arte. Possiamo tenere per buona questa distinzione: tanto non cambia nulla. Rimane però il fatto che, a mio parere, la cul­tura è il risultato dell’esigenza di rappresen­tare. Quando un gruppo sociale riflette su di sé, sul proprio stare nel mondo e sulle carat­teristiche di questo mondo, questo riflettere vuol dire rappresentare, vuol dire preparare una scena sulla quale agire, ma questo agire e questa scena costruiscono una realtà che si realizza nel momento in cui viene rappresen­tata. Se le strutture psichiche di un gruppo o di un individuo non si trovassero continua­mente nella tensione tra pensiero di… e rap­presentazione di…, noi e il nostro mondo sa­remmo trasparenti ed immutabili. Se il mio vivere è anche il mio rappresentarmi, la rap­presentazione cambia continuamente, forse impercettibilmente; ma cambia in ogni istan­te della mia storia e, ripeto, questo vale per il singolo come per il gruppo. Una cultura, come ho detto prima, è un prodotto abba­stanza autonomo e strutturato al suo interno. Gustav Mahler diceva che una sinfonia è compiuta, è organica, come un mondo; un mondo rappresentato, aggiungo io, un mon­do che racconta se stesso attraverso i suoni. Quest’immagine vale anche per la cultura nel suo insieme; e la rappresentazione che viene agita è la lotta di due forze: il piacere e il do­lore, che per l’essere umano si chiamano sempre bene e male.

Il piacere e il dolore sono presenti alla vita fin da subito; subito quando? Per il mo­mento, dico: «subito» e basta. Questo «subito» esprime una data così precisa da non avere bisogno di altre specificazioni. Stavo dicendo che fin da subito nella vita sono presenti il piacere e il dolore; ma la psiche umana ha, secondo me, una co­stituzionale incapacità di comprendere, sul serio il significato del piacere e il significato del dolore. Il piacere è subito sentito come bene e il dolore è subito sentito come male. Ma si potrebbe obbiettare che si può anche invertire il discorso, e dire che la psiche uma­na sente fin da subito il bene e il male, e che può, proprio avendo una costituzionale inca­pacità a capirli, sentirli come piacere e come dolore.

Pur riconoscendo che sto giocando ai limiti della metafisica, non accetto il capovolgi­mento del mio discorso, perché sarebbe più metafisico ancora. Io ritengo che la metafisi­ca sia ineliminabile; e debba essere affronta­ta. Dicevo quindi che non accetto il capovol­gimento del discorso: il piacere e il dolore sono nella vita fin da subito; ma non sono e non costituiscono la vita. Vorrei puntare i pie­di ben saldi su questo subito e cercare di spin­germi, con sforzo, un po’ più indietro, in un prima un po’ prima di questo subito.

Ho detto che la vita ha il piacere e il dolore; questo lo so, perché anch’io vivo e me li sen­to addosso fin da sempre, o meglio, fin da su­bito però ho anche detto che non sono la vita. La vita non è altro che un oscuro o chiaro de­siderio – desiderio di piacere – quindi la vita è piacere; perché si dirige soltanto verso il piacere.

Alcuni vecchi saggi mi urlano di lontano che il desiderio, per il fatto stesso che è deside­rio, è mancanza; se è mancanza di piacere, non può essere il piacere, perché il piacere è assente. Io, contro la saggezza degli antichi logici, affermo che il desiderio del piacere e il piacere sono i due elementi costitutivi del­la vita.

Piacere del desiderio e desiderio del piacere agiscono in un’unica situazione, nel gesto iniziale, nel gesto costitutivo; che però si costruisce e si realizza, sempre, in una situazione relazionale. Ora mi chiedo: ho ecceduto nel delirio metafisico, oppure nella metafisica delirante? Ho detto che l’essere umano è costituito dal desiderio del piacere e dal piacere del desiderio ed ho aggiunto che l’uomo è costituito dal suo dirigersi verso l’altro. Il dispiacere, il dolore, l’altro attore della rappresentazione, dove si situa, quando sorge?

Sorge fin da subito; ma non contemporanea­mente. Quando l’essere vivente sente il pro­prio desiderio, percependolo come piacere, nello stesso istante si struttura, dirigendosi verso: bisogno, piacere, desiderio esistono come direzioni, sono una direzione; ma, in questo dirigersi, accade, io credo sempre (ma nello stesso tempo affermo: non necessaria­mente), che il desiderio venga contraddetto, il piacere inibito, il bisogno negato.

La frustrazione si presenta con immediatez­za all’essere che vive, il quale se la sente pe­sare addosso e da cui deve in qualche modo difendersi.

La nostra cultura ha inventato un mito: Narci­so, il figlio di Cefiso e Liriope, innamorato di se stesso, contempla la propria immagine ri­flessa nell’acqua, la vuole baciare e in questo gesto trova la propria morte, annegato.

La morte di Narciso esprime l’impossibilità reale di una vita tutta ripiegata su se stessa. Narciso muore perché non può vivere. Ci può essere molto di moralistico in questa storia che pare adombrare discorsi del tipo: chi vive solo per sé è sterile; oppure: è giusto che muoia chi non ama che se stesso, e così via. Io preferisco interpretare il mito come mi fa co­modo e come più mi piace, giungendo anche a raccontarmelo un po’ diverso, per esprime­re a mo’ di parabola un altro mio pensiero: «Narciso, innamorato respinto, cerca di con­solarsi corteggiando la propria immagine».

Narciso è, per me, la rappresentazione di due pensieri. Con il primo pensiero, voglio affer­mare che la chiusura totale verso l’altro e l’assoluto ripiegamento su se stessi sono im­possibili. Se l’apertura e la relazione sono costitutive dell’essere umano, i loro contrari lo negano prima ancora che egli si ponga. Attraverso il secondo pensiero, io affermo che il gesto di Narciso è un gesto essenzialmente difensivo: Narciso cerca di sfuggire il dolore negandone l’origine. Narciso chiede a se stesso di appa­gare il suo desiderio.