Io penso che l’essere umano sia, anche, continuamente, alla ricerca della stabilità.
La novità affascina e spaventa nello stesso tempo. Affascina perché spezza la monotonia di situazioni ripetute; spaventa perché sembra incontrollabile. La novità è difficile da concepire, sfugge con i suoi contorni imprecisi: dove la mano si aspetta un appiglio si può trovare il vuoto, o, improvvisamente, si presenta sotto le dita qualcosa di compatto, ma di strana consistenza, incomprensibile. Mi sono accorto di aver usato il concetto di novità come se non fosse un concetto e tanto meno il concetto di novità. Nella mia mente si sono presentate due immagini; la prima era formata da uno sfondo grumoso indefinibile su cui si sono formate le sei lettere: n-o-v-i-t-à. Un serpente nero con al fondo, sulla a, un monumentale e incisivo accento. La seconda immagine consisteva in una figura fumosa, dai contorni mobili, inafferrabili. È dunque questo, per me, il concetto di novità? Nient’altro che l’ingenua immaginazione di un pittore concettuale? In effetti, il concetto di novità assoluta non riesco a costruirmelo e a comprenderlo: coincide con il nulla. Potrei mettermi a giocare con il concetto di nulla; ma la filosofia occidentale ci ha già giocato fin troppo; credo che annoierei chi legge e, soprattutto, mi annoierei.
La novità è quindi per me non qualcosa di assolutamente nuovo, che, come ho detto, non so cosa voglia dire; ma un che di impreciso, di inafferrabile, proiettato in avanti. Il concetto di novità porta con sé altre parole come: attesa, speranza ed, anche, spavento. Quindi è assai meglio far scaturire la novità da ciò che è noto. Dobbiamo abbattere le strutture avendone però in mente di nuove che, essendo già in mente, non sono, però, più novità assoluta.
Ma queste nuove strutture di dove sorgono? Non certo dall’assolutamente ignoto, il vecchio non essere parmenideo; ma da quello che noi siamo, vogliamo, o crediamo, di volere. La novità, però, non è soltanto il nuovo, il diverso; è anche l’imprevisto L’imprevisto è l’aspetto ignoto del diverso; però l’imprevisto e l’ignoto, non appena vengono pronunziati, come parole o come concetti, non sono più quello che dovrebbero essere. L’ignoto ha un volto, inquietante l’imprevisto si mescola con i nostri progetti e i nostri desideri.
L’uomo come può controllare la novità, senza distruggerla, e nello stesso tempo cercando di evitare il rischio di cadere preda del sempre saputo e della noia?
Andando alla ricerca dei principi primi, o dei primi principi o del principio dei principi.
Se riusciamo a dare un ordine a quella che noi chiamiamo realtà; la novità e l’imprevisto si debbono assoggettare, tutto sommato, a questo ordine, pur mantenendo le loro caratteristiche indefinibili.
Penso che tutte le culture abbiano tentato di interpretare in qualche modo i fatti che accadono. Ho usato il termine «fatto» perché è il più concreto e il meno compromesso. Fatto è un avvenimento storico e fatto è anche un gesto quotidiano. Sono i fatti che «avvengono» attorno a noi e in noi. L’occidente ha, da millenni, prodotto un genere di persone chiamate: i filosofi. Sono costoro individui quanto mai difficile da definire.
Il buon senso comune dice: in fondo siamo tutti filosofi. La cultura, però, ha definito qualcuno con questo nome. Nonostante la difficoltà di definire che cosa sia il filosofo, noi abbiamo la filosofia e la storia di questa nostra filosofia. La storia della nostra filosofia segue, secondo me, due direttrici fondamentali.
Lungo la prima linea di pensiero si situano tutte quelle correnti filosofiche che tentano di portare l’infinita varietà dei fatti ad ordinarsi secondo un unico principio ad essi sottinteso e dei quali è guida Queste sono concezioni metafisico-spiritualistiche, o materialistiche, che si ritrovano, però, d’accordo nel fissare un principio, e dopo averne analizzato il meccanismo, perché anche i principi hanno un meccanismo al loro interno, nel porlo come ho detto, prima e dentro ad ogni cosa. Questo principio è estremamente protettivo e rassicurante.
Ci sono all’interno di questa concezione, due ulteriori atteggiamenti fondamentali. Il primo vede questo principio come qualcosa di buono, che fa progredire il tutto: uomini, formiche e stelle, verso un futuro sempre migliore, al di qua e al di là della vita. Il secondo più disincantato e forse un po’ sadico parla di corsi e ricorsi, di cicli che si richiudono e ricominciano sempre, eternamente immutabili.
Spesso, all’interno di questi sistemi, alcune concezioni hanno sentito l’esigenza di scindere il principio guida in due momenti antitetici in conflitto che, però, attraverso e per mezzo di questa loro tensione, guidano e determinano il divenire del tutto. Il meccanismo originario rimane uno e comprende e risolve in sé i due opposti. I principi in conflitto trovano il loro significato nel conflitto stesso, che li controlla e li domina.
Lungo la seconda linea di pensiero si collocano tutte quelle filosofie che vedono i fatti dominati da più principi, che possono essere o non essere in conflitto tra loro. Il principio unificatore di tutto è la facoltà interpretativa della ragione. La ragione unifica perché comprende le concatenazioni causali e comprende anche se stessa. Anche quando queste concezioni ipotizzano un Dio, esso non è tanto il garante della salvezza e dell’ordine universale, quanto la facoltà unificatrice della comprensione razionale. La ragione, comprendendo ed interpretando, unifica, distingue tutti gli esseri in generi e specie; ne esprime le caratteristiche, ne esprime i significati esistenziali e scientifici. La ragione riunisce ciò che è simile e distingue ciò che è diverso. La ragione, divenuta meno ingenua, ha prodotto e fondato essa stessa i propri concetti e il concetto di concetto. All’interno di questa corrente, alcuni pensatori, con una struttura psichica particolarmente paranoide, o depressiva, hanno sentito vano lo sforzo unificatore della ragione, anche quando fondava se stessa, e, usando la ragione, hanno fondato lo scetticismo della ragione. Le teorizzazioni di cui ho parlato prima sono il frutto del pensiero di menti acculturate e, quindi, sono espressioni della cultura di una classe precisa: la classe dominante.(’)
Una cultura si esprime per mezzo di un linguaggio comprensibile, soprattutto, a coloro che la producono. Anche i temi trattati sono congeniali alla classe che li esprime, perciò la visione del mondo che ne deriva è interpretabile con parametri specifici coerenti con il sistema di valori e di significati espressi da quella cultura.
I libri parlano di tutto: ma non sono per tutti. I libri buttano uno sguardo sul mondo, su tutto il mondo, tentano di comprenderlo di sistemarlo, di chiarirlo; tentano di chiarire i problemi di tutti: dei re e dei servi, dei ricchi e dei poveri; però fino ad ora, lo hanno fatto dal punto di vista dei re e dei ricchi. Anche quando parlano contro i re e contro i ricchi, i libri lo fanno usando il linguaggio, gli strumenti e la cultura di costoro.
È fondamentale 1′ appropriazione, da parte di tutti, di questi strumenti e di questa cultura,io non credo nell’utilità della loro distruzione che significherebbe la definitiva castrazione; ma credo nell’importanza dell’espropriazione di un monopolio. E se l’espropriazione passa anche attraverso strumenti compromessi dal potere dei re e dei ricchi, chi se ne frega? Spero che avremo abbastanza saponette profumate e detergenti biodegradabili per lavarci con cura le mani sporche. La cultura dominante, sebbene propria di una classe, è riuscita a dare ugualmente una visione del mondo organica e coerente, anche sistemando con sufficiente assennatezza i problemi e i significati connessi a quella parte di umanità che a questa cultura è abbastanza estranea. La realtà, però, non è qualcosa di oggettivo che è dato e basta; la realtà è costruita anche dalla interpretazione che se ne dà. Per cui la cultura, nel suo costruirsi, costruisce anche, almeno in parte, la realtà che tenta di chiarire. Non mi sembra del tutto delirante dire che l’interpretazione della realtà, data, nella nostra società, dalla Cultura con la C maiuscola, è un’interpretazione necessaria.
La nostra è, però, soprattutto, una cultura intelligente, fatta da persone intelligenti, perciò la sua frammentarietà la sua parzialità sono ben camuffate, tanto che, qualche volta, anch’io, frutto ed espressione di questa cultura, ho l’impressione di muovermi dentro alla Cultura; cioè dentro all’unica forma possibile di ricerca del significato di ciò che mi trovo addosso ed intorno.
Penso che questa sensazione derivi, in buona parte, da miopia narcisistica, da pigrizia mentale e dalla paura della destrutturazione derivante dal timore di perdere i miei privilegi; penso, però, che derivi anche dal fatto che la cultura dominante non è così stupida da guardarsi solo allo specchio o da guardare il mondo solo attraverso il suo specchio; vuole anche appropriarsi di ciò che non è suo, di ciò che non deriva da lei; ma di cui ha bisogno per poter sopravvivere. La classe dominante ha bisogno di condizionare la cultura popolare e subalterna, per poter controllare la società in generale; c’è riuscita tanto bene che la cosiddetta cultura popolare, non ufficiale, o subalterna, è profondamente compromessa con quella del potere. È abbastanza comprensibile che millenni di violenze e di stupri abbiano fatto partorire alla cultura del popolo figlioletti straordinariamente somiglianti a Lorenzo il Magnifico. La vergine cultura popolare non esiste più, forse non è mai esistita. Fin dall’inizio, quando due persone hanno guardato il mondo e cercato di capirlo e di farsene una ragione, il più forte e il più «intelligente» ha cominciato a dire e a fare cose bellissime, l’altro, più debole e più stupido (?) ha cominciato a guardarlo a bocca aperta, a servirlo, e, nello stesso tempo, a sentirsi venir su, di dentro, una gran voglia di ribellarsi, di dare una ginocchiata a quel tale o a quella tale che vivevano del suo lavoro, torcevano il naso per la sua puzza e che dicevano, parlando tra loro, cose bellissime. Gli è venuta voglia di… ed ha parlato di ribellione. Però gli è anche venuta voglia di… ed ha tentato di imitare quei due; ma è venuto un altro a dirgli che non doveva né ribellarsi né imitare, che Dio non voleva. Allora ha avuto paura ed ha incominciato a racCOMUIS1 storie, cosi, per passare n tempo. Storie in cui tutto era confuso, in cui, sotto sotto, c’era solo la voglia di star bene, di godere, con lo stomaco, con il sesso e con il cuore, di avere anch’egli il suo piccolo dominio
Io ho studiato a lungo la poesia e la musica popolari italiane, ed ho trovato moduli musicali interessanti, antichissimi, misteriosi, mescolati a melodie ed armonie delle musiche del padrone. La stragrande maggioranza dei versi delle canzoni popolari esprimeva una piena accettazione del sistema di valori dominante. Con mio estremo stupore, ho trovato l’arte popolare assai poco rivoluzionaria.
Gli oppressi non hanno mai desiderato altro che poter sognare di essere padroni ma su tutto è prevalsa sempre una malinconica stanchezza, un invito a rinunciare alla lotta: se il mondo è sempre stato così è inutile sperare di cambiarlo. I proverbi esprimono non tanto la saggezza dei popoli quanto la loro rassegnazione.
La società contadina e proletaria, da alcuni secoli almeno, non è una società che desidera la giustizia ed il rispetto; i deboli vi sono schiacciati e i diversi derisi con brutalità e violenza. Basta, per capirlo, ascoltare le antiche canzoni venete, le lunghe storie piemontesi e i lirici canti della Sicilia. I padroni non soltanto hanno saputo costringere i servi a servire, ma li hanno costretti a produrre anche una sottocultura in cui sopraffazione, violenza ed egoismo sono i temi presenti e dominanti.
Di giustizia e di libertà, per fortuna, qualche volta si parla, come, per fortuna, lungo i secoli, gli oppressi hanno preso la falce e i bastoni e li hanno usati come armi contro i castelli dei padroni; ma la loro cultura, dopo qualche decina di esecuzioni sui patiboli e sulle forche, ha ricominciato a sognare e a fantasticare; è rinato il desiderio di essere a propria volta padroni. Poi i parroci hanno ricominciato a predicare e le buone signore a portare ciambelle ai figli dei poveri e piano piano sono rinati anche i canti della rassegnazione e si sono prodotti sempre meno inni di rivolta. Un’antica strofetta delle campagne piemontesi ai piedi della Val d’Aosta, facendo il verso al suono delle campane, dice così:
«Chi n’a nèn – chi n’a poc – chi n’a tan – tan tan». (C’è chi ha niente, chi ha poco e chi ha tanto, tanto, tanto). Una constatazione di una realtà sociale, ironica e disincantata: lo dicono anche le campane che non c’è niente da fare.
In questi versi è nascosto tutto il significato della cultura popolare; l’ironia deriva dalla voglia di ridere a tutti i costi, anche delle proprie disgrazie. Da quel campanile arriva l’esortazione ad accettare, con umiltà e rassegnazione, quello che è; però c’è anche la consapevolezza di quello che è; e la consapevolezza è il primo, indispensabile passo per riuscire a cambiare qualche cosa. Io credo, però, che siano stati scritti più canti di protesta in questi ultimi dieci anni, da parte dei cantautori e dei mass media rivoluzionari, di quanti ne siano stati scritti e prodotti in millenni di storia passata. I cantautori rivoluzionari della nostra epoca non sono, per lo più, proletari. Io scrissi canti di questo genere, alcuni anni or sono, in occasione di grossi scioperi alla FIAT di Torino. Ero allora un musicista e un universitario ribelle, col senso di colpa per essere nato borghese. Quelle canzoni non le ricordo più, furono cantate per un giorno o due, su di un camion e sparse nell’aria con un altoparlante, insieme a quelle di altri, più belle e più brutte. Tutto è cosi lontano. Erano canzoni sincere. Anche se molti canti di protesta, prodotti in passato direttamente dal popolo e dai veri sfruttati, non sono giunti fino a noi, soprattutto, perché a raccoglierli e a tramandarli sono stati, per forza di cose, gli studiosi borghesi, i quali, comprensibilmente, hanno dato più spazio ad argomenti meno compromettenti e compromessi come: l’amore, la religione, persino il sesso, perché, si sa, il popolo è sempre un po’ volgare; tuttavia, in base alla mia personale esperienza di ricercatore nelle campagne e nelle osterie di città, posso dire che il discorso di protesta non è stato così presente alla cultura popolare quanto si potrebbe credere. La cultura delle classi dominanti si è espressa, da sempre, per mezzo dei libri, che la racchiudono e la custodiscono. Attraverso di essi anche le forme di cultura che non si esprimono sulla pagina scritta vengono analizzate e meditate. La pagina è la parola congelata. In fondo, si potrebbe dire che il pensiero è stato il primo prodotto dell’uomo ad essere inscatolato per poter essere sempre pronto per l’uso. Non voglio dire con ciò che il libro sia un male, nemmeno che sia un male necessario. Penso che il libro possa essere usato male, questo sì; ma ritengo che sia, per il momento, uno tra gli oggetti più utili della nostra vita, ed anche tra i più rivoluzionari.
La cultura popolare è da moltissimi secoli una cultura teatrale; questo teatro ha trovato una tra le sue espressioni più concrete nella religione. Sacrificando il «tragos» a Dioniso il sacerdote narrava e mimava una storia. Il popolo ha sentito il rito come una sua espressione culturale. Al rito si è sentito partecipe ed ha portato un contributo proprio ed originale. La teorizzazione della religione è estranea alla cultura popolare. Le teologie e le dissertazioni dottrinarie appartengono alla cultura delle classi dominanti. II popolo invece, come ho detto, partecipa al rito; alla sua formazione. Non certo spontaneamente; non sono suoi i desideri ed i pensieri immediatamente espressi nel rituale. I templi, i paramenti sono manipolati, le musiche, per lo più, sono prodotte dal potere; un potere, però, disponibile ad ascoltare il sogno del popolo ed i suoi desideri. La ricca complessità dei riti è frutto della secolare sedimentazione di leggende, ricordi, bisogni, consapevoli e non, provenienti da una realtà sociale presa nel suo insieme. Frammenti di rituali di altre religioni si mescolano a quelli delle religioni dominanti, gesti che si perdono in lontananze indecifrabili, si intrecciano con gesti che esprimono esigenze del presente; il tutto nel tentativo, di raccontare.
La cultura borghese poi ha tentato di costruirsi una religione senza riti: le evoluzioni del luteranesimo, e particolarmente le correnti calviniste, hanno trasformato il rito in meditazione lirica collettiva. Il gesto è stato castrato, la parola e il suono sono diventati preponderanti; della rappresentazione non rimane che l’involucro.
Resta comunque centrale l’ascoltare in comune il racconto della vita di un personaggio vissuto tanti secoli prima: il rito cattolico ed ebraico sono frutto della volontà dei dominatori; ma i desideri del popolo, almeno nella forma, li condizionano maggiormente: mi preme, però, ribadire l’affermazione che in tutte le espressioni culturali del popolo è primaria l’istanza teatrale.(2)
Anche l’espressione laica del popolo è essenzialmente teatro e rappresentazione: gli istrioni e i cantastorie raccontano e mimano fatti e avventure. Certo, esistono anche momenti di espressione lirica e sentimentale del desiderio; ma sorgono come commento espressivo a fatti che sono stati narrati o che vengono presupposti, per cui si può onestamente dire che l’aspetto fondamentale del pensiero espresso dal popolo si è espresso, nella nostra cultura, attraverso la rappresentazione. Alle origini, nel rito, la partecipazione del gruppo è attiva e diviene man mano più passiva nelle rappresentazioni di tipo teatrale o parateatrale più vicine alla nostra epoca; fino all’estrema passivizzazione dello «spettatore» delle rappresentazioni cinematografiche e televisive. Qui lo spettatore (che non per nulla si chiama così) ha soprattutto il ruolo di entità pagante, che può, tutt’al più esprimere un parere, magari con lettere ai giornali. Nello spettacolo cinematografico e televisivo è del tutto abolita la presenza fisica di persone che parlano e si muovono in contatto emozionale diretto con altre persone che, messe di fronte, assistono, presenti con la loro carne, i loro odori, gli applausi e tante altre forme di partecipazione. Anche un cataclisma, o una rivoluzione piena di violenza e di morti reali, ripresa in diretta su di un teleschermo, diviene, soprattutto, spettacolo, teatro In effetti, le indagini in diretta del telegiornale, trasmesse dopo un breve «parapperu» di archi e fiati, scivolano e si confondono, nella penombra dei tinelli, con le prime scene dell’incontro di Elisabetta I che recitando, litiga con l’arcivescovo di Westminster.
Ancora una volta, il potere ha preso in mano la situazione: spettacoli televisivi, cinematografici e partite di calcio non sono certo espressioni agite ed ideate dal popolo; anzi, questa parola; «popolo», sta diventando sempre più ridicola ed ha, forse, ancora un suo reale significato, solo quando viene pronunciata da Maria Antonietta in un drammone televisivo sulla rivoluzione francese.
Eppure, gli sfruttati esistono ancora: lasciamo in sospeso, per ora, questo problema.
La cultura dominante ha sempre avuto molta cura di distinguere l’arte dalla filosofia, ritenendo la prima, di volta in volta, dominati- ce e dominata dalle emozioni e la seconda espressione della ragione. Distinzione quanto mai balzana; che può essere vanificata osservando con un minimo di attenzione quei fenomeni che vengono chiamati arte e filosofia.
La cultura cosiddetta popolare non ha operato questa distinzione; alcuni dicono per sua inferiorità costitutiva, affermando che, essendo il popolo dominato dalle passioni e dall’immediatezza, non può e non sa riflettere in modo sistematico e astratto.
Quest’ultima affermazione è, secondo me, assai goffa e semplicistica. Non si tratta tanto di inferiorità costitutiva, quanto di impossibilità pratica di usare alcune forme di comunicazione. Non esiste e non è mai esistita una cultura popolare autonoma. Come sono stati strumentalizzati e manipolati dal potere i singoli individui, così sono state strumentalizzate dal potere le forme di cultura.
La cultura del potere cerca, dal suo canto, di strumentalizzare ogni forma espressiva, da qualunque parte essa sorga e qualunque istanza cerchi di esprimere.
Come ho già detto, la cultura popolare non è stata, quindi, la cultura degli oppressi che parla di libertà e di liberazione; tutt’al più è successo e può succedere che dalle oscure profondità di un malessere, quasi inconsapevole, sorgano dure immagini di rivolta, mescolate, però, sempre, a considerazioni e pensieri che parlano di rassegnazione e di accettazione, seppure amara.
Il teatro in genere, non solo quello popolare, ha avuto, sempre, come suo argomento privilegiato, la lotta del bene contro il male o, meglio, dei buoni contro i cattivi. La cosiddetta cultura popolare, essendo, come ho detto, soprattutto teatro, ha espresso un’infinità di storie incentrate sulla lotta tra i buoni e i cattivi. Di rado, però, questa lotta ha avuto il significato di lotta per la giustizia, intesa in senso vasto e collettivo; per lo più, si è trattato di dimostrare che il singolo cattivo deve perdere, e allora sono tutti contenti; oppure, in un accesso masochistico, è il singolo buono che viene sconfitto, e allora tutti sono tristi. È più un meccanismo compensatotici che una reale volontà di ribellione, sebbene, per fortuna, talvolta, serpeggi anche questa.
Io penso, tutto sommato, che potremmo ridurre tutta la nostra cultura, sia quella prodotta dai padroni, sia quella balbettata ambiguamente dai servi e dai mezzi padroni, ad una infinita variante dell’istanza del teatro.
La filosofia e la scienza, nel tentativo di ri specchiare il mondo, non fanno altro che rap presentarlo e l’arte, non importa se attravei so suoni, immagini o parole, racconta sempr una storia. Nella filosofia, nella scienza nell’arte la mente umana ha sempre bisogn di ritrovare i buoni e i cattivi. La filosofia la scienza, che sono più narcisistiche, fann sempre vincere i buoni, cioè quel simpatia personaggio che si chiama verità.
Nell’arte si annidano e si manifestano coi maggior precisione le istanze sadomasochi stiche; i buoni talvolta soccombono; ma I rappresentazione è sempre la stessa. Potreb be sembrare che io sia caduto in una con traddizione perché, prima, ho detto che l’ari popolare è in gran parte conservatrice e per meata dai valori della classe dominante, poi dico che ogni espressione culturale esprimi la lotta tra il bene ed il male. Se così fosse bisognerebbe riconoscere nella cultura popo lare un profondo desiderio di rinnovamento di ribellione e di giustizia.
Io ritengo, invece, che l’espressione popola re così succuba e condizionata da coloro chi la dominano, accetti i principi di bene e d male, di giusto e di ingiusto che le vengon imposti, li faccia suoi e li sostenga. Ho detti anche che tutta la cultura si esprime attraver so la rappresentazione. La cultura proponi una visione del mondo, questa visione è sem pre un’interpretazione che consiste ne proiettare al di fuori i desideri e i bisogn dell’uomo.°
La realtà è la mia ipotesi di realtà: cerco d costruire un mondo in cui sia possibile pro gettare la realizzazione dei desideri che m sento dentro. Il male è ciò che si oppone a miei desideri; i miei desideri stessi sono i bene. I desideri e i bisogni sono molti, spes so in opposizione tra di loro; ecco perché visione del mondo è così articolata e con traddittoria.
Io sono il terreno sul quale i miei desider combattono; questa lotta la voglio vedere anche fuori di me, perché sento che soltan to attraverso il fuori di me i miei desii deri acquistano un significato. Proviamo ad immaginarci assolutamente soli, aventi come unica caratteristica quella di essere vivi: la nostra mente non ce la fa. La vita è costitutivamente relazione. Possiamo, al massimo, immaginarci fluttuare nello spazio, possiamo immaginare i nostri gesti liberi dal vincolo della gravità, possiamo vederci muovere con piacevoli guizzi; però, abbiamo pur sempre immaginato noi stessi immersi in qualcosa che sta fuori di noi; ma che fa parte di noi; o meglio: noi riusciamo a percepirci come viventi soltanto in relazione a questo vuoto e a questo spazio in cui abbiamo immaginato di star piacevolmente sospesi. Non credo neppure che riusciamo ad immaginare un vuoto e uno spazio assoluti: se noi descriviamo a noi stessi lo spazio deserto in cui abbiamo immaginato di trovarci, ecco che ci accorgiamo che questo non è altro che lo spazio cosmico; così come lo abbiamo immaginato da bambini; oppure lo assimiliamo all’idea di un grande mare e le nostre braccia e le nostre gambe sentono la fresca consistenza dell’acqua. In un’unica espressione, potrei dire che anche se volessimo immaginarci soli in un luogo deserto noi costruiremmo, noi stessi e le nostre immagini, in relazione con questo vuoto deserto, che sarebbe, oltretutto, percepito da noi con caratteristiche palpabili e precise. Io sento di non essere altro dalla mia esperienza. Non voglio fare un discorso di forma, di Io,(4) di contenuto e di esperienza. Voglio solo dire che io sono la mia esperienza e la mia esperienza si costituisce nella relazione tra l’Io, che a sua volta non è altro che un insieme di relazioni, e un non io, oppure un oggetto, come siamo stati abituati a chiamarlo, che però non è altro se non la situazione stessa di relazione, o la situazione esperienziale. Possiamo distinguere due momenti fondamentali del progetto esperienziale: il primo è il momento della relazione e basta; in cui i nostri desideri ci formano come esseri relazionati; e in questa situazione la frustrazione del desiderio, e tutto ciò che ne consegue, ha la caratteristica dell’immediatezza, quasi del non voluto. Il secondo momento fondamentale è quello in cui l’esperienza viene oggettivata, raccontata, nel tentativo di essere capita; in questo momento l’esperienza viene rappresentata, il mondo in cui l’individuo agisce diventa teatro. Spesso la nostra vita, nei sogni, viene raffigurata con l’immagine di una sala di teatro o un palcoscenico; in quel momento l’uomo vive e recita un copione che egli stesso si è scritto, o che ha creduto di scrivere.
Vico diceva che è possibile comprendere, fmo in fondo, soltanto ciò che si è prodotto direttamente: l’uomo non potrà mai comprendere la natura perché essa non è una sua creazione, l’uomo può comprendere la storia perché l’ha costruita egli stesso. Io non credo che l’uomo sia più direttamente creatore della storia che della natura; però so che l’uomo racconta a se stesso la propria storia, nel tentativo di comprenderla; e non solo: con beneplacito di Vico, direi che l’uomo racconta, oltre che la propria storia a se stesso, anche la storia dell’universo, a sé e agli altri; la storia dell’universo intero: del sole e delle formiche. Tutto diventa un grande teatro in cui l’uomo spera di essere l’autore e il regista, oltre che l’attore principale, il protagonista, beninteso.
Ma l’uomo non racconta la storia della realtà solo per riuscire a capirla, la racconta anche col desiderio di controllarla e dirigerla. Se è vero che egli scrive il copione, deve essere anche vero che può controllare gli avvenimenti e determinare il finale.
La vita, perciò, diventa più prevedibile; tutto accade come sulla scena; il copione, tutto sommato, protegge da un’inserzione troppo massiccia dell’ignoto. Ciò che comunemente viene chiamato cultura non è altro, secondo me, che la rappresentazione. L’uomo e il suo mondo vengono rappresentati dalla cultura, da quella dei padroni come da quella dei servi.
Arrivati a questo punto del mio discorso, potrebbe sembrare che io abbia voluto dire: «Vi è un momento primo originario (l’infanzia?), in cui l’essere umano si costruisce come relazione e tenta di realizzare i propri desideri e un seguito (cronologicamente concepito) in cui l’uomo riflette sulle proprie relazioni, sulle proprie esperienze e tenta di inserirle in una scena organica rappresentando la vita e tutto ciò che entra a far parte della sua vita». Questo secondo momento sarebbe la cultura. Io, però, non volevo dire affatto questo.
Secondo me, questi due momenti non hanno una sistemazione cronologica. Io voglio dire che l’uomo è i propri desideri; e si struttura nella relazione con l’altro perché questa è la direzione dei desideri. Perciò non vi è un momento, o dell’infanzia, neppure la più remota, o della vita interiore, in cui l’Io sia identico a se stesso e coincida pienamente con il sé e, in seguito, un istante successivo in cui questo Io desideri e si proietti fuori di se stesso, progettando. L’essere umano è questo progetto. In principio non c’era altro. Il secondo momento non realizza istanze e bisogni dell’età adulta. Il bisogno di rappresentare è presente fin da subito nell’essere umano. Questo «fin da subito» è abbastanza difficile da collocare. Quando il bambino comincia ad attendere? Credo sia impossibile dirlo; ma è in questo momento che egli incomincia a rappresentarsi la realtà. L’attesa del soddisfacimento del desiderio viene riempita da ricchi giochi fantastici; nella tensione dell’attesa vengono evocati personaggi che, pur avendo qualche legame con il desiderio, arrivano, talvolta, da regioni lontane, inaspettate; proprio come a teatro. E quando il desiderio crede di potersi scaricare (perché il mondo esterno è pronto a soddisfarlo finalmente) accadono due cose bizzarre La prima cosa bizzarra è che alla scarica del desiderio si sovrappongono tutte quelle immagini fantastiche, teatrali, che si erano prodotte nella tensione dell’attesa, e perciò la rappresentazione continua. La seconda cosa bizzarra è che il desiderio, nel momento del suo appagamento, si trova indebolito; buona parte della sua energia era stata assorbita dalla rappresentazione.
E un’esperienza comune quella in cui, dopo aver tanto atteso ed immaginato un avvenimento piacevole, esso, quando ci si presenta, ci lascia insoddisfatti, come qualcosa di ormai stanco e sbiadito.
hi tutte le fantasie che immaginano una realtà è sempre presente la lotta tra i buoni e i cattivi, tra i desideri e ciò che loro si oppone. Talvolta gli eroi siamo noi stessi, talaltra sono invece nostri sostituti; ma la lotta è continua ed incessante. La cultura non è quindi lo specchio della realtà: è il nostro progetto della realtà. È il teatro del teatro.
La filosofia, l’arte della classe dominante e la cultura popolare tentano tutte di dare una visione organica e complessiva dell’uomo e del mondo. In nessuna epoca queste tre espressioni culturali hanno agito separatamente; tutte e tre unite sono «la cultura di una civiltà». Anche ogni singolo essere umano, vivendo, rappresenta, a se stesso e agli altri, la propria vita.
Ritengo che siano sempre compresenti e complementari tre istanze psichiche fondamentali: la prima è la relazione esperienziale che si costruisce attraverso la vita e che continuamente progetta e tenta di controllare; la seconda è la rappresentazione che io mi faccio di ciò che ho e di ciò che sono; la terza, che si potrebbe anche considerare un aspetto della seconda, consiste nel mimare continuamente la nostra situazione esperienziale; nell’essere contemporaneamente noi stessi e gli interpreti di noi stessi.
Non riesco a decidere se, per l’uomo, venga prima l’esperienza o l’espressione di questa; forse non è di nessuna utilità il cercare di scoprirlo. Chi muove e sente attraverso i movimenti e attraverso sensazioni, esperisce se stesso. Un se stesso, però, che non è un substrato stabile e individuabile, attorno al quale girano le sensazioni; ma è un fascio di rapporti in cui le sensazioni sono costitutive. Questo non è soltanto un modo di essere e di sentire; è anche un modo di comunicare ed esprimersi. Io ho la mia esperienza che si realizza e si esprime attraverso una numerosa varietà di linguaggi. La persona si realizza attraverso i linguaggi che la costituiscono. Alcune grossolane e semplicistiche teorizzazioni del linguaggio, verbale e non, iniziano col dividere ogni gesto umano in due grandi classi fondamentali: la prima comprende quei gesti che hanno come scopo il produrre; la seconda, quelli che hanno come scopo il comunicare ad altri emozioni e concetti. Questa potrebbe sembrare una distinzione operativa; che serve a distinguere il materiale da chiarire in modo da potercisi orientare. Io penso, però, che non sia possibile costruire schemi ed operare distinzioni, confini, esclusivamente operativi; dietro allo schema sta sempre il significato dello schema.
La distinzione di cui ho parlato prima non opera soltanto come innocua divisione tra la congerie dei gesti umani; ma nello stesso momento che opera una distinzione impossibile, spezza in due quella che io chiamo «espressione-esperienza»; cioè spezza in due l’uomo.
È impossibile distinguere i gesti che producono da quelli che esprimono e comunicano. Ogni gesto ha sempre entrambe le caratteristiche. Prendiamo, per esempio, la serie di gesti miranti a produrre un piatto di cibo cucinato. Lì per lì, questi gesti potrebbero sembrare mossi esclusivamente dall’intenzione di produrre; i gesti del cuoco si articolano intorno ai vari ingredienti della ricetta ed ogni gesto parrebbe soltanto produrre e non esprimere: la mano impugna la frusta che, con il suo dimenarsi, fa gonfiare la chiara d’uovo… poi si taglia il lardo a dadini… poi «si aggiusta di sale e pepe, quanto basta»… e così via. «Dopo aver messo tutto nel forno ben caldo, per trenta minuti circa, si porta in tavola». Eppure, io penso che chi ha cucinato il cibo intendeva, anche, comunicare qualcosa a coloro per i quali ha cucinato. Questo avviene sempre in tutta la serie complessa di gesti che partono dalla prima manipolazione degli ingredienti fino a quello di posare il piatto caldo sul tavolo. Basta stare a sentire la voce del cuoco che dice: «Spero che vi piaccia». Può significare tante cose. Così pure, il gesto del commensale che avvicina la sua posata alla sua porzione di cibo non ha solo la funzione di portare il cibo alla bocca; la rapidità o la lentezza con cui il gesto avviene si trovano a comunicare qualcosa. Questo vale per ogni gesto che compiamo: dal gesto di Napoleone che si mette da sé la corona in testa, al gesto del portiere che apre il cancello.
Mentre fabbrico la mia vita e le cose della mia vita uso, contemporaneamente, quegli stessi gesti per comunicare qualche cosa.
Nessun essere umano è maì solo, neppure l’eremita nel deserto. Attorno a lui si affolla una grande quantità di personaggi che, talvolta, gli balzano addosso da lontananze dimenticate. L’eremita si inginocchia sulla sabbia; sa di essere osservato, non solo dal suo Dio. Quando diciamo che vogliamo essere soli per essere noi stessi, diciamo una gran sciocchezza; soli non siamo mai, recitiamo sempre il nostro teatro. Ogni nostro gesto è compiuto come se qualcuno ci guardasse. È molto interessante osservare una persona, sola in una stanza: non c’è bisogno di usare gli squallidi trucchi dei laboratori di psicologia sperimentale, che sono soprattutto umilianti; basta usare i mezzi della commedia dell’arte, o della pochade fine secolo, o, meglio, basta che pensiamo a noi stessi quando siamo soli. Ognuno di noi, nella solitudine della propria stanza, ha recitato una gran quantità di personaggi. C’è chi si traveste e si guarda allo specchio; c’è chi si siede come ha visto fare in quel film. Ma il gesto-comunicazione non riguarda soltanto i gesti macroscopicamente teatrali. Poichè nessuno di noi può mai sentirsi, in realtà, completamente solo, ogni gesto deve tenere conto di altre presenze, fantastiche o reali, non importa. Io mi sento sempre anche di fronte ad altri; altri che devo blandire, ingannare, da cui farmi perdonare, ammirare. Perciò ogni mio gesto tende a comunicare qualcosa di me e voglio, anzi esigo, che gli altri lo sappiano.
D’altra parte, anche i gesti che, esplicitamente, sembrano realizzarsi esclusivamente nella loro intenzione comunicante non realizzano, assolutamente mai, la sola comunicazione. Se io parlo a qualcuno per raccontare una mia emozione o un fatto che mi è accaduto, sempre, mentre parlo, costruisco, più o meno consciamente, la mia comunicazione, al fine di realizzare anche scopi che vanno oltre la comunicazione stessa. Questo vale per il discorso che racconta la mia vita passata, come per lo sguardo che voglio che esprima tristezza. Con quelle parole non voglio soltanto raccontare che: «…quando ero ragazzo avevo un amico che forse…» Con il lento ruotare dei miei occhi, meglio se umidi di lacrime, non voglio soltanto dire all’altro «sono triste». Tutti questi sono segnali che io uso, intenzionalmente, per ottenere, per produrre qualcosa. Ogni gesto non è, dunque, soltanto il risultato di una intenzione che mira a produrre un effetto più o meno concreto, unita e sovrapposta ad un’intenzione che tende all’espressione e alla comunicazione; ma è anche ricco di intenzioni fattive ed espressive che si sovrappongono, si intrecciano e si condensano. Il prodotto più autonomo della esigenza di rappresentare è ciò che, comunemente, viene chiamato cultura. La cultura ha distinto se stessa in tre grandi sottoclassi: la filosofia, la scienza e l’arte. Possiamo tenere per buona questa distinzione: tanto non cambia nulla. Rimane però il fatto che, a mio parere, la cultura è il risultato dell’esigenza di rappresentare. Quando un gruppo sociale riflette su di sé, sul proprio stare nel mondo e sulle caratteristiche di questo mondo, questo riflettere vuol dire rappresentare, vuol dire preparare una scena sulla quale agire, ma questo agire e questa scena costruiscono una realtà che si realizza nel momento in cui viene rappresentata. Se le strutture psichiche di un gruppo o di un individuo non si trovassero continuamente nella tensione tra pensiero di… e rappresentazione di…, noi e il nostro mondo saremmo trasparenti ed immutabili. Se il mio vivere è anche il mio rappresentarmi, la rappresentazione cambia continuamente, forse impercettibilmente; ma cambia in ogni istante della mia storia e, ripeto, questo vale per il singolo come per il gruppo. Una cultura, come ho detto prima, è un prodotto abbastanza autonomo e strutturato al suo interno. Gustav Mahler diceva che una sinfonia è compiuta, è organica, come un mondo; un mondo rappresentato, aggiungo io, un mondo che racconta se stesso attraverso i suoni. Quest’immagine vale anche per la cultura nel suo insieme; e la rappresentazione che viene agita è la lotta di due forze: il piacere e il dolore, che per l’essere umano si chiamano sempre bene e male.
Il piacere e il dolore sono presenti alla vita fin da subito; subito quando? Per il momento, dico: «subito» e basta. Questo «subito» esprime una data così precisa da non avere bisogno di altre specificazioni. Stavo dicendo che fin da subito nella vita sono presenti il piacere e il dolore; ma la psiche umana ha, secondo me, una costituzionale incapacità di comprendere, sul serio il significato del piacere e il significato del dolore. Il piacere è subito sentito come bene e il dolore è subito sentito come male. Ma si potrebbe obbiettare che si può anche invertire il discorso, e dire che la psiche umana sente fin da subito il bene e il male, e che può, proprio avendo una costituzionale incapacità a capirli, sentirli come piacere e come dolore.
Pur riconoscendo che sto giocando ai limiti della metafisica, non accetto il capovolgimento del mio discorso, perché sarebbe più metafisico ancora. Io ritengo che la metafisica sia ineliminabile; e debba essere affrontata. Dicevo quindi che non accetto il capovolgimento del discorso: il piacere e il dolore sono nella vita fin da subito; ma non sono e non costituiscono la vita. Vorrei puntare i piedi ben saldi su questo subito e cercare di spingermi, con sforzo, un po’ più indietro, in un prima un po’ prima di questo subito.
Ho detto che la vita ha il piacere e il dolore; questo lo so, perché anch’io vivo e me li sento addosso fin da sempre, o meglio, fin da subito però ho anche detto che non sono la vita. La vita non è altro che un oscuro o chiaro desiderio – desiderio di piacere – quindi la vita è piacere; perché si dirige soltanto verso il piacere.
Alcuni vecchi saggi mi urlano di lontano che il desiderio, per il fatto stesso che è desiderio, è mancanza; se è mancanza di piacere, non può essere il piacere, perché il piacere è assente. Io, contro la saggezza degli antichi logici, affermo che il desiderio del piacere e il piacere sono i due elementi costitutivi della vita.
Piacere del desiderio e desiderio del piacere agiscono in un’unica situazione, nel gesto iniziale, nel gesto costitutivo; che però si costruisce e si realizza, sempre, in una situazione relazionale. Ora mi chiedo: ho ecceduto nel delirio metafisico, oppure nella metafisica delirante? Ho detto che l’essere umano è costituito dal desiderio del piacere e dal piacere del desiderio ed ho aggiunto che l’uomo è costituito dal suo dirigersi verso l’altro. Il dispiacere, il dolore, l’altro attore della rappresentazione, dove si situa, quando sorge?
Sorge fin da subito; ma non contemporaneamente. Quando l’essere vivente sente il proprio desiderio, percependolo come piacere, nello stesso istante si struttura, dirigendosi verso: bisogno, piacere, desiderio esistono come direzioni, sono una direzione; ma, in questo dirigersi, accade, io credo sempre (ma nello stesso tempo affermo: non necessariamente), che il desiderio venga contraddetto, il piacere inibito, il bisogno negato.
La frustrazione si presenta con immediatezza all’essere che vive, il quale se la sente pesare addosso e da cui deve in qualche modo difendersi.
La nostra cultura ha inventato un mito: Narciso, il figlio di Cefiso e Liriope, innamorato di se stesso, contempla la propria immagine riflessa nell’acqua, la vuole baciare e in questo gesto trova la propria morte, annegato.
La morte di Narciso esprime l’impossibilità reale di una vita tutta ripiegata su se stessa. Narciso muore perché non può vivere. Ci può essere molto di moralistico in questa storia che pare adombrare discorsi del tipo: chi vive solo per sé è sterile; oppure: è giusto che muoia chi non ama che se stesso, e così via. Io preferisco interpretare il mito come mi fa comodo e come più mi piace, giungendo anche a raccontarmelo un po’ diverso, per esprimere a mo’ di parabola un altro mio pensiero: «Narciso, innamorato respinto, cerca di consolarsi corteggiando la propria immagine».
Narciso è, per me, la rappresentazione di due pensieri. Con il primo pensiero, voglio affermare che la chiusura totale verso l’altro e l’assoluto ripiegamento su se stessi sono impossibili. Se l’apertura e la relazione sono costitutive dell’essere umano, i loro contrari lo negano prima ancora che egli si ponga. Attraverso il secondo pensiero, io affermo che il gesto di Narciso è un gesto essenzialmente difensivo: Narciso cerca di sfuggire il dolore negandone l’origine. Narciso chiede a se stesso di appagare il suo desiderio.