L’essere è un gesto; un gesto fra tanti. L’inesauribilità del gesto si realizza nella sua presenza. Il gesto è una frontiera che oltrepassa il presente; si dirige verso… costruendo la persona come tale. Dove sarei io senza i miei gesti?
L’essere è un piccolo gesto. Il significato della presenza lo trascende. Essere è un verbo; non è «il verbo». Il verbo non è soltanto una parola, è un gesto. Un gesto che si realizza costruendo un corpo, che non è mai semplicemente qui ed ora; è anche prima e dopo, perché il corpo si distende nel desiderio.
Il desiderio è possibile perché è presente; impossibile perché sfugge, anche, sempre. Capire è un gesto, uno fra tanti. Capire è anche, sempre, inventare. L’essere umano osserva i propri gesti, cerca di capirli nel presente, spingendoli, però, nel prima e nel dopo. Voler capire è legittimo. Queste parole sono oscure, ruotano su loro stesse, nel tentativo di capirsi e di farsi capire. Una frase oscura è un gesto abortito, ma anche un aborto è un gesto.
Non è possibile, quindi, mai, semplicemente essere. Il gesto, che è un corpo, si compromette manifestandosi: epifania inevitabile, come inevitabile è il voler essere. Non è possibile capire un gesto, se questo, semplicemente, è. L’universo e la natura non sono altro che il punto di incontro delle proiezioni ed identificazioni umane. Il cielo stellato sopra di me è la mia legge morale; come la mia legge morale non è altro che il cielo stellato dentro di me.
Capire un gesto vuol dire comprendere anche i suoi compromessi. Ogni essere umano vorrebbe compiere azioni giuste; ma la giustizia non è una possibilità umana. Capire un gesto è accettare un compromesso con l’ingiustizia, che è presente come un desiderio oscuro.
La psicoanalisi tenta di comprendere i gesti con una ipotesi sempre trascendente, perché sempre in bilico tra la falsità e la creazione. Anche la mia psicoanalisi cerca di capire i gesti. La mia psicoanalisi capisce un’invenzione, inventando una comprensione. Il punto di partenza della mia psicoanalisi sono io: centro di un mondo senza centro.
Io non credo nella sublimazione. Ritengo questo concetto politicamente pericoloso, oltre che inutile da un punto di vista economico. Il concetto di sublimazione è superfluo: persino la teoria classica non riesce più a trovargli una coerente sistemazione metapsicologica.
Io non so quando un’espressione dell’attività umana sia arte. Molti quando dicono che una cosa è «opera d’arte» , intendono attribuirle un grande valore. Io, più semplicemente, penso che un’opera d’arte sia tale quando e perché la si è voluta così etichettare. Non sono in grado di andare oltre. Andare oltre vorrebbe dire definire l’arte e, anche, espone i principi per cui qualcos’altro non è arte.
Eppure io sono un artista, cioè produco qualcosa che io chiamo «arte».
Io sostengo che il desiderio e la rappresentazione desiderante non sono unidirezionali come il tempo, ma che essi si diramano per vie molteplici. La rappresentazione desiderante è per me l’arte; che è sempre rappresentazione. Ogni gesto si dirige verso… quindi anche il gesto chiamato arte. Perciò questo gesto non può mai coincidere con se stesso: si travalica nel tentativo di manifestarsi. Io credo anche che la rappresentazione sorga nell’attesa, quando l’attesa viene percepita come tale. Anche se penso che affermare ciò mi faccia correre il rischio di sembrare troppo vicino alla antica concezione psicoanalitica per cui l’arte, tutto sommato, sorgerebbe da una situazione di desiderio frustrato, nell’attesa del desiderio, per colmare un vuoto. Al contrario, io rifiuto di credere che l’arte sorga dalla frustrazione e dal dolore; come mi rifiuto di affermare che sorga dalla gioia. Io dico: l’arte sorge dall’arte. È un gesto come tanti, fra tanti. L’iconografia dell’artista dolente, che partorisce nella sofferenza, incompreso, pallido ed emaciato, è, per me, non solo ridicola, ma anche profondamente stupida. L’artista è anche triste, come è anche allegro: parla di tristezza e di allegria.
L’arte, come la psicoanalisi, costruisce un mondo, né vero né verosimile; un mondo e basta. Ciò che muove l’arte è ciò che muove anche il resto: il desiderio. L’arte non colma un’attesa, ma realizza un’attesa; ed è a sua volta attesa. Nell’arte vi sono desideri contraddittori presenti; ma che si distendono nel prima e nel poi. Perché, infine, l’arte dovrebbe avere un rapporto soltanto simbolico con la sessualità? Perché non può essere direttamente sessuale? Si dice che l’arte che esprime direttamente la sessualità sia pornografia. Questa è un’affermazione grottesca. Io so che esistono gesti stupidi e volgari; ma non so bene se alcuni di essi possano o no essere arte; rimangono, in ogni caso, gesti stupidi e volgari.
Oggi si ride di coloro che fanno coincidere l’arte con il bello. Si preferisce, per lo più, affermare che l’arte è espressione. Alcuni aggiungono che deve essere un’espressione che contribuisca a chiarire l’esistenza all’esistenza.
Io non sono soltanto un artista, sono anche tante altre cose… ma una cosa non voglio essere in quanto artista: «libero»!
Voglio essere un uomo libero e quindi voglio che la mia arte sia libera; ma io, come artista, rifiuto la libertà. La libertà dell’artista è un inganno che l’artista cerca, talvolta, di imporre a sé e agli altri.
L’artista libero è colui che ha accettato, fino in fondo, di essere schiavo delle multinazionali: ha accettato, cioè, di essere soltanto «merce». Certo, non esiste qualcosa che non sia, anche, merce; ma l’opera dell’artista che sceglie di essere soltanto libero diventa «soltanto» merce.
La libertà piena e totale coincide con il rifiuto della comunicazione: l’artista espone la sua opera ed esibisce se stesso, imponendo agli altri la sua presenza, autisticamente libero.
Io rifiuto l’artista che rifiuta di sottoporsi alla regola, perché il suo è un rifiuto, fin da subito, del rapporto. Se si vuol comunicare, bisogna accettare anche le regole dell’altro. L’altro, se non è soltanto un mio fantasma, deve danni una regola che io, almeno in parte, posso e debbo accettare. L’altro, se non è totalmente assoggettato a me, deve esigere da me una regola. Queste regole, le mie e le altrui, nel loro rapporto, non sono altro che il desiderio di «mettere in comune». Ecco, quindi, che anche l’arte può tentare di realizzarsi secondo gli schemi del narcisismo e del sadomasochismo; ma io rifiuto quest’arte.
Il rito dell’arte serve a scoprire in me e nell’altro il piacere; ha perciò un suo linguaggio che deve esser comune o costruito insieme. Nessuno può, certo, all’artista impone dall’esterno un gesto piuttosto che un altro; però tutti abbiamo il diritto e il dovere di domandarci il significato possibile dei gesti dell’arte e di conseguenza, anche di accettarli o di rifiutarli.
Eros vive direttamente e indirettamente in tutte le opere d’arte.
L’artista libero vuole solo parlare di sé ai propri fantasmi: si espone, aggredisce o si fa aggredire; ma non accetta la libertà delle regole comuni e rivendica la liberrtà di negare gli altri. Questa libertà assoluta, però, gli dà la possibilità di sopravvivere, come artista, soltanto se il meccanismo economico del neo-capitalismo gli riconosce un valore; e l’unico valore che gli può riconoscere è quello di merce.
Se l’arte cerca e trova brandelli di linguaggio, può, in parte, riuscire ad esprimere Eros, sfuggendo al processo totale di mercificazione.
Io rifiuto i gesti narcisistici o sadomasochistici e voglio dare su di essi un giudizio politico ed estetico allo stesso tempo. Non ho parlato fm qui dell’arte didascalica e pedagogica; ma ho parlato di Eros nell’arte.
Infiniti sono i gesti: gli artigiani ne imparano alcuni e questi pochi diventano preziosi. L’arte conosce la mia fantasia, le mie paure e le mie allegrie. L’arte non è follia. La follia è un altro gesto che io rifiuto, insieme con la scelta di non mettere in comune. La follia è la ribellione solitaria, che coincide con la schiavitù assoluta. A questo punto, il mio discorso è chiaro: il rifiuto delle regole di un gioco comune coincide con la schiavitù.
L’arte quindi non può e non deve essere follia; può parlare alla follia che è in noi, ma, per parlarne, deve rinunciare sia alla chiusura narcisistica, sia all’aggressione sadomasochistica che la follia contiene in sé: fantasmi al di fuori del tempo, che sfuggono nel prima e nel poi, rifiutando il presente. Follia
non è stranezza, non è ribellione: è la distruzione del rapporto erotico.
Anche la dipendenza psichica e fisica da sostanze che turbino il processo di comunicazione e l’euritmia dell’esistenza distorcono e spesso annullano il gesto artistico. I poeti maledetti ed i musicisti esasperati si sono vantati di essere stati capaci di scrivere versi sublimi e di aver creato al saxofono improvvisazioni meravigliose sotto l’effetto di sostanze allucinogene o stupefacenti. Non nego la grandezza di alcuni di quei gesti, però io affermo che essi sono stupendi nonostante la condizione di prostrazione e di dipendenza in cui sono stati concepiti dai loro autori. Per fortuna, l’essere umano è sovente più potente di se stesso: l’uomo vince l’uomo. Tutte le forme di «assenzio» che l’uomo ha propinato a se stesso possono in qualche modo aver stimolato la fantasia e la creatività; ed io credo anche che il loro effetto non sia necessariamente dannoso; ma anche vantaggioso, se la capacità di controllo non fa perdere di vista l’obiettivo principale che deve sottendere ogni espressione artistica: la volontà cioè di parlare con l’altro, di riconoscere, accettare e costruire insieme con lui linguaggi comuni, creati per dare vitalità sempre nuova al mondo e a se stessi. L’artista non può essere un vinto e nessuno sconfitto può essere un artista. Il gesto artistico è un atto di coraggio di un uomo sano che controlla sufficientemente se stesso e l’ambiente che lo circonda, per piccolo che questo sia e per limitato che sia l’effetto che ottiene.
Sono consapevole del rischio che corro, giudicando, di ripetere il delitto che fu perpetrato un giorno, quando si cercò di svalutare la Grande fuga di Beethoven, attribuendola al delirio introverso di un sordo; ma io riaffermo il mio diritto-dovere di dire, di fronte a molte cosiddette «opere d’arte»: — Quella è l’opera di un sordo!