Psicoanalisi contro n.2 – La sordità di Beethoven

ottobre , 1993

L’essere è un gesto; un gesto fra tanti. L’inesauribilità del gesto si realizza nella sua presenza. Il gesto è una frontiera che oltrepassa il presente; si dirige verso… costruendo la persona come tale. Dove sarei io senza i miei gesti?

L’essere è un piccolo gesto. Il significato della presenza lo trascende. Essere è un ver­bo; non è «il verbo». Il verbo non è soltan­to una parola, è un gesto. Un gesto che si realizza costruendo un corpo, che non è mai semplicemente qui ed ora; è anche prima e dopo, perché il corpo si distende nel deside­rio.

Il desiderio è possibile perché è presente; impossibile perché sfugge, anche, sempre. Capire è un gesto, uno fra tanti. Capire è an­che, sempre, inventare. L’essere umano os­serva i propri gesti, cerca di capirli nel pre­sente, spingendoli, però, nel prima e nel dopo. Voler capire è legittimo. Queste paro­le sono oscure, ruotano su loro stesse, nel tentativo di capirsi e di farsi capire. Una fra­se oscura è un gesto abortito, ma anche un aborto è un gesto.

Non è possibile, quindi, mai, semplicemen­te essere. Il gesto, che è un corpo, si com­promette manifestandosi: epifania inevi­tabile, come inevitabile è il voler essere. Non è possibile capire un gesto, se questo, semplicemente, è. L’universo e la natura non sono altro che il pun­to di incontro delle proiezioni ed identifica­zioni umane. Il cielo stellato sopra di me è la mia legge morale; come la mia legge mo­rale non è altro che il cielo stellato dentro di me.

Capire un gesto vuol dire comprendere an­che i suoi compromessi. Ogni essere umano vorrebbe compiere azioni giuste; ma la giu­stizia non è una possibilità umana. Capire un gesto è accettare un compromesso con l’in­giustizia, che è presente come un desiderio oscuro.

La psicoanalisi tenta di comprendere i gesti con una ipotesi sempre trascendente, perché sempre in bilico tra la falsità e la creazione. Anche la mia psicoanalisi cerca di capire i gesti. La mia psicoanalisi capisce un’inven­zione, inventando una comprensione. Il pun­to di partenza della mia psicoanalisi sono io: centro di un mondo senza centro.

Io non credo nella sublimazione. Ritengo questo concetto politicamente pericoloso, ol­tre che inutile da un punto di vista econo­mico. Il concetto di sublimazione è super­fluo: persino la teoria classica non riesce più a trovargli una coerente sistemazione metapsicologica.

Io non so quando un’espressione dell’attività umana sia arte. Molti quando dicono che una cosa è «opera d’arte» , intendono attribuirle un grande valore. Io, più semplicemente, penso che un’opera d’arte sia tale quando e perché la si è voluta così etichettare. Non sono in gra­do di andare oltre. Andare oltre vorrebbe dire definire l’arte e, anche, espone i prin­cipi per cui qualcos’altro non è arte.

Eppure io sono un artista, cioè produco qual­cosa che io chiamo «arte».

Io sostengo che il desiderio e la rappresen­tazione desiderante non sono unidirezionali come il tempo, ma che essi si diramano per vie molteplici. La rappresentazione deside­rante è per me l’arte; che è sempre rappre­sentazione. Ogni gesto si dirige verso… quindi anche il gesto chiamato arte. Perciò questo gesto non può mai coincidere con se stesso: si travalica nel tentativo di manife­starsi. Io credo anche che la rappresentazio­ne sorga nell’attesa, quando l’attesa viene percepita come tale. Anche se penso che af­fermare ciò mi faccia correre il rischio di sembrare troppo vicino alla antica concezio­ne psicoanalitica per cui l’arte, tutto som­mato, sorgerebbe da una situazione di desi­derio frustrato, nell’attesa del desiderio, per colmare un vuoto. Al contrario, io rifiuto di credere che l’arte sorga dalla frustrazione e dal dolore; come mi rifiuto di affermare che sorga dalla gioia. Io dico: l’arte sorge dal­l’arte. È un gesto come tanti, fra tanti. L’iconografia dell’artista dolente, che parto­risce nella sofferenza, incompreso, pallido ed emaciato, è, per me, non solo ridicola, ma anche profondamente stupida. L’artista è an­che triste, come è anche allegro: parla di tri­stezza e di allegria.

L’arte, come la psicoanalisi, costruisce un mondo, né vero né verosimile; un mondo e basta. Ciò che muove l’arte è ciò che muo­ve anche il resto: il desiderio. L’arte non col­ma un’attesa, ma realizza un’attesa; ed è a sua volta attesa. Nell’arte vi sono desideri contraddittori presenti; ma che si distendono nel prima e nel poi. Perché, infine, l’arte do­vrebbe avere un rapporto soltanto simbolico con la sessualità? Perché non può essere direttamente sessuale? Si dice che l’arte che esprime direttamente la ses­sualità sia pornografia. Questa è un’affermazione grottesca. Io so che esisto­no gesti stupidi e volgari; ma non so bene se alcuni di essi possano o no essere arte; ri­mangono, in ogni caso, gesti stupidi e vol­gari.

Oggi si ride di coloro che fanno coincidere l’arte con il bello. Si preferisce, per lo più, affermare che l’arte è espressione. Alcuni aggiungono che deve essere un’espressione che contribuisca a chiarire l’esistenza all’esi­stenza.

Io non sono soltanto un artista, sono anche tante altre cose… ma una cosa non voglio es­sere in quanto artista: «libero»!

Voglio essere un uomo libero e quindi vo­glio che la mia arte sia libera; ma io, come artista, rifiuto la libertà. La libertà dell’arti­sta è un inganno che l’artista cerca, talvolta, di imporre a sé e agli altri.

L’artista libero è colui che ha accettato, fino in fondo, di essere schiavo delle multinazio­nali: ha accettato, cioè, di essere soltanto «merce». Certo, non esiste qualcosa che non sia, anche, merce; ma l’opera dell’artista che sceglie di essere soltanto libero diventa «sol­tanto» merce.

La libertà piena e totale coincide con il ri­fiuto della comunicazione: l’artista espone la sua opera ed esibisce se stesso, imponendo agli altri la sua presenza, autisticamente li­bero.

Io rifiuto l’artista che rifiuta di sottoporsi alla regola, perché il suo è un rifiuto, fin da subito, del rapporto. Se si vuol comunicare, bisogna accettare anche le regole dell’altro. L’altro, se non è soltanto un mio fantasma, deve danni una regola che io, almeno in par­te, posso e debbo accettare. L’altro, se non è totalmente assoggettato a me, deve esige­re da me una regola. Queste regole, le mie e le altrui, nel loro rapporto, non sono altro che il desiderio di «mettere in comune». Ecco, quindi, che anche l’arte può tentare di realizzarsi secondo gli schemi del narcisi­smo e del sadomasochismo; ma io rifiuto quest’arte.

Il rito dell’arte serve a scoprire in me e nell’altro il piacere; ha perciò un suo linguaggio che deve esser comune o costruito insieme. Nessuno può, certo, all’artista impone dall’esterno un gesto piuttosto che un altro; però tutti abbiamo il diritto e il dovere di domandarci il signifi­cato possibile dei gesti dell’arte e di conse­guenza, anche di accettarli o di rifiutarli.

Eros vive direttamente e indirettamente in tutte le opere d’arte.

L’artista libero vuole solo parlare di sé ai propri fantasmi: si espone, aggredisce o si fa aggredire; ma non accetta la libertà delle re­gole comuni e rivendica la liberrtà di nega­re gli altri. Questa libertà assoluta, però, gli dà la possibilità di sopravvivere, come arti­sta, soltanto se il meccanismo economico del neo-capitalismo gli riconosce un valore; e l’unico valore che gli può riconoscere è quello di merce.

Se l’arte cerca e trova brandelli di linguag­gio, può, in parte, riuscire ad esprimere Eros, sfuggendo al processo totale di mercifica­zione.

Io rifiuto i gesti narcisistici o sadomasochi­stici e voglio dare su di essi un giudizio po­litico ed estetico allo stesso tempo. Non ho parlato fm qui dell’arte didascalica e peda­gogica; ma ho parlato di Eros nell’arte.

Infiniti sono i gesti: gli artigiani ne impara­no alcuni e questi pochi diventano preziosi. L’arte conosce la mia fantasia, le mie paure e le mie allegrie. L’arte non è follia. La fol­lia è un altro gesto che io rifiuto, insieme con la scelta di non mettere in comune. La follia è la ribellione solitaria, che coincide con la schiavitù assoluta. A questo punto, il mio discorso è chiaro: il rifiuto delle regole di un gioco comune coincide con la schia­vitù.

L’arte quindi non può e non deve essere fol­lia; può parlare alla follia che è in noi, ma, per parlarne, deve rinunciare sia alla chiusu­ra narcisistica, sia all’aggressione sadomaso­chistica che la follia contiene in sé: fantasmi al di fuori del tempo, che sfuggono nel pri­ma e nel poi, rifiutando il presente. Follia

non è stranezza, non è ribellione: è la di­struzione del rapporto erotico.

Anche la dipendenza psichica e fisica da so­stanze che turbino il processo di comunica­zione e l’euritmia dell’esistenza distorcono e spesso annullano il gesto artistico. I poeti maledetti ed i musicisti esasperati si sono vantati di essere stati capaci di scrivere ver­si sublimi e di aver creato al saxofono im­provvisazioni meravigliose sotto l’effetto di sostanze allucinogene o stupefacenti. Non nego la grandezza di alcuni di quei gesti, però io affermo che essi sono stupendi no­nostante la condizione di prostrazione e di dipendenza in cui sono stati concepiti dai loro autori. Per fortuna, l’essere umano è so­vente più potente di se stesso: l’uomo vince l’uomo. Tutte le forme di «assenzio» che l’uomo ha propinato a se stesso possono in qualche modo aver stimolato la fantasia e la creatività; ed io credo anche che il loro ef­fetto non sia necessariamente dannoso; ma anche vantaggioso, se la capacità di control­lo non fa perdere di vista l’obiettivo princi­pale che deve sottendere ogni espressione artistica: la volontà cioè di parlare con l’al­tro, di riconoscere, accettare e costruire in­sieme con lui linguaggi comuni, creati per dare vitalità sempre nuova al mondo e a se stessi. L’artista non può essere un vinto e nessuno sconfitto può essere un artista. Il ge­sto artistico è un atto di coraggio di un uomo sano che controlla sufficientemente se stes­so e l’ambiente che lo circonda, per piccolo che questo sia e per limitato che sia l’effet­to che ottiene.

Sono consapevole del rischio che corro, giudicando, di ripetere il delitto che fu perpetrato un giorno, quando si cercò di sva­lutare la Grande fuga di Beethoven, attri­buendola al delirio introverso di un sordo; ma io riaffermo il mio diritto-dovere di dire, di fronte a molte cosiddette «opere d’arte»: — Quella è l’opera di un sordo!