Psicoanalisi contro n.2 – Io ho paura della solitudine: problemi di un musicista, forse ingenuo

ottobre , 1993

Io posseggo dodici suoni. Sulla ta­stiera del mio pianoforte dodici ta­sti bianchi e neri; poi si raddoppia­no; ma sono sempre quelli: frequen­ze diverse, frutto di un calcolo ma­tematico, ma il mio orecchio li sco­pre: acuti o gravi, sempre quelli. Quando le mie mani frugano fra quei tasti, senza sforzo, grappoli di suo­ni nascono e si susseguono; hanno un senso, una sintassi, una gram­matica.

Nella mia mente ci sono dodici suo­ni. Quando scrivo musica li sento concreti e presenti dentro di me. Qualche volta hanno la concretezza di un timbro particolare: un violino, un oboe, un contrabbasso… oppure sono più astratti, vibranti, tesi: so­no tra il suono e l’immagine.

Quando si percepisce un’immagine, questa si distende in un tempo e con un ritmo. Quando si ascoltano suoni, questi si appropriano di uno spazio. L’orecchio percorre lo spa­zio musicale, come l’occhio percor­re la figura dipinta o scolpita; spez­za l’involucro del momento in cui il suono è presente; ricordo e attesa sono spazio, lo spazio è: ricordo e attesa.

Dentro e fuori di me sento molti suoni. Dodici sono privilegiati e, di questi dodici, particolari successioni di sette si sovrappongono come la­stre di cristallo, grani di un rosario o serie di momenti colorati.

Anche per me le varie tonalità hanno un colore. Musicologi e musicisti hanno tentato di scoprire le ogget­tive colorazioni delle tonalità. Sfor­zo ingenuo e inutile; eppure io penso che non esista nessuno che non dia un colore ai suoni; perciò il musi­cista, che sa più o meno cosa vuol dire mi bemolle maggiore o fa mino­re, quando sente nell’orecchio l’ac­cordo di mi e di fa, immediatamen­te, nella mente, li colora.

Per me, ad esempio, la tonalità di mi bemolle maggiore è bruno dora­ta, quella di fa minore sfuma dal blu all’azzurro; ben diversa da quel­la di fa maggiore, tutta azzurra, con una sola nota evidente ed allegra, di un giallo brillante: il si bemolle. Anche i rapporti tra i suoni hanno un colore che cambia: ogni settima, ogni nona, ogni diminuita hanno un colore; ogni consonanza, ogni disso­nanza.

Questo è un linguaggio antico, colo­rato e preciso.

Io sono un compositore d’oggi ed ho scelto di tendere questo linguaggio oltre se stesso. Talvolta mi si spez­za tra le mani. Imperiosa nella mia mente si presenta una successione armonica: tonica – sottodominante e poi una serie di suoni ammucchiati e contraddittori. L’ultimo va alla ri­cerca di una sensibile come un’eco lontana che mi attrae. Mi ribello alla tonica e una serie di dodici suo­ni imita un altro linguaggio. Spero sempre che non sia soltanto un ge­sto di ribellione. Voglio che, dietro a tutto, ci sia una linea di sviluppo.

Io mi sento solitario.

Nei tempi passati il linguaggio mu­sicale era più omogeneo.

A Versailles e sotto la Bastiglia vi erano musiche un po’ diverse; ma i moduli linguistici erano gli stessi. La Juppiter di Mozart si radica nella stessa struttura di linguaggio di una corrente popolare del Settecento. Perché io, adesso, debbo usare (quan­do sono un compositore « serio ») un linguaggio diverso da quello che continuano ad usare tutti? Perché, se adesso mi proponessero di scri­vere un branetto musicale per il ca­rillon di un campanile, non saprei che linguaggio usare’)

Perché la gente, quando passa per strada, fischietta (quando fischietta, naturalmente) usando una gramma­tica ed una sintassi che io debbo rifiutare in una sala da concerto? Freud aveva detto che la psicoana­lisi ha un linguaggio particolare, per cui può essere usata soltanto con persone che siano in grado di co­gliere questo linguaggio, di penetrar­lo e di usarlo.

Io ho rifiutato questa aristocrazia e mi sono accorto che era un bluff di Freud. Il linguaggio è prima della psicoanalisi. II linguaggio è quello C-Iirio ho, “Che tu hai.

Íl linguaggi-O non coincide con il de­siderio; ma il linguaggio può servi­re a costruire il desiderio. Le parole sono sempre presenti.

Anche le lettere dell’alfabeto hanno un colore; così le parole. Si è cercato di determinarlo, sforzo inutile in sé, ma utile perché divertente. Mi sono sempre chiesto se le formu­le linguistiche delle immagini siano meno rigide di quelle dei suoni. Molte persone, quando telefonano o ascoltano una conferenza, se hanno una matita in mano, formano dise­gni. C’è chi disegna volti di profilo, occhi, fiori; c’è chi circonda il pro­prio nome di svolazzi barocchi, e c’è anche chi costruisce grate sempre più fitte e intricate. Molti fanno di­segni astratti, linee e macchie. Nes­suno, però, soprattutto se non è un musicista, che se lo impone per do­vere, canta brani atonali mentre si fa la doccia o guida l’automobile, canta cioè al di fuori di quel lin­guaggio musicale appreso alle ele­mentari e ribadito dalla televisione. , Io ho paura ella banalità, ho paura/ ii aTEPetermi; ma ho so~utto pau- iiiradrtlasalitudifiem. so che potrebbe I i perdermi.

Ogni volta che scrivo musica spero di non usare più il linguaggio tradi­zionale e spero cheogrti mia compo- sizione imposti, ogni voTfa, perento- iTahfente, un linguaggio. bifovo.

Ogni brano che scrivo è comprensi­bile, a fondo, solo al secondo ascol­to. Io imposto una formula lingui­stica_ e poi la sviluppo. Mi_eliedo sempre però- _ba senso costruire ogni volta un nuovo esperanto?

Io h,o soprattutto paura della solitudine.