Psicoanalisi contro n. 2 – Eros e Bios: anche la nascita del rito (2^parte)

ottobre , 1993

Quattro sono le cause di quell’atteggiamento di chiusura che ormai siamo avvezzi a chia­mare “Narcisismo”:

1) la frustrazione; 2) la compensazione; 3) la paura; 4) la difesa. Ne tratteremo ponendole in successione: prima l’una, poi l’altra e così via; ma, in realtà, queste cause si dispongo­no circolarmente e si rafforzano reciproca­mente.

La frustrazione del desiderio è il secondo-pri­mo sentimento che l’uomo prova (dico: «se­condo-primo» perché, pur manifestandosi fin da subito, è uno stato che consegue a…): il desiderio del piacere e il piacere del deside­rio, nel loro dirigersi verso…, trovano una barriera, un’ottusità, una sordità, cioè una im­possibilità. L’essere vivente, che è costituito da questo dirigersi verso…, sperimenta una situazione di sofferenza e disorientamento; ma, nuovamente, il desiderio del piacere e il piacere del desiderio risorgono ed egli cerca una compensazione: «se l’altro da me mi re­spinge – si dice – io mi appago in me stesso», e la fantasia dilata il me, smisuratamente. Come ho già detto, sorgono tensioni succes­sive. È presente, però, la paura continua di ul­teriori rifiuti e frustrazioni. Il desiderio del piacere e il piacere del desiderio tentano an­cora di dirigersi verso…, tenteranno sempre. Se però il dolore irrompe, con la sua forza di rifiuto, massicciamente e frequentemente, nell’esperienza si instaura come meccanismo di difesa, il ripiegamento; il tentativo di ri­fiutarsi di percepire il fuori di sé. Ma, abbia­mo detto, il vivente è costituito dalla relazio­ne e dal dirigersi verso…, per cui, non poten­do abolire questo meccanismo, tenta allora di porsi in relazione con sé, dirigendosi verso di sé. Il narcisismo è una situazione esperien­ziale che l’essere umano impara ad usare come difesa. Il narcisismo esprime l’origina­rio atteggiamento di difesa dal dolore che viene attuato negando il fuori di noi che ci ha respinto; con una negazione che è anche un gesto morale di condanna. È un atteggia­mento difensivo. Vi sono strutture di personalità nelle quali la difesa narci­sistica è preponderante, in nessuno, comunque, è completamente eliminabile, poiché, al momento, sono ineliminabili fru­strazione, compensazione e paura della fru­strazione.

Anche le caratteristiche del narcisismo sono quattro. 1) paura; 2) violenza; 3) antropofa­gia; 4) labilità dell’investimento libidico. Ecco che ritorna il termine paura. Avevo po­sto la paura tra le cause della difesa narcisi­stica, ora la ripropongo, come prima, nell’elenco delle caratteristiche essenziali del narcisismo. Abbiamo detto che il piacere è alle origini ed è costitutivo dell’individuo, dobbiamo anche dire, però, che la possibilità della distruzione del piacere sorge contem­poraneamente.

La precarietà è un elemento costante del modo d’essere del vivente: l’individuo impa­ra subito come il desiderio, presente sempre, possa sempre essere distrutto. La paura espri­me l’atteggiamento tipico di chi teme di per­dere ciò a cui tiene massimamente. Il timore e la paura però non rimangono a lungo nel l’essere umano senza provocare i loro effet­ti. Chi teme, chi ha paura, si irrigidisce; ac­quisisce in un primo tempo l’atteggiamento di diffidenza poi scopre (per meglio dire: im­para) la violenza. Il narcisista, o colui che at­traversa un momento narcisistico, è inevita­bilmente violento. Si tratta però di una vio­lenza tutta particolare: una violenza inconsa­pevole. Chi è prigioniero della difesa narci­sistica ha negato l’altro; e il modo migliore di negare l’altro è quello di rifiutarsi di per­cepirlo, rifiutandosi anche di ascoltarlo. Il narcisista non ascolta; egli parla, non sa nep­pure a chi stia parlando, o meglio, non si pone il problema di essere o no in sintonia con l’al­tro; per il narcisista l’altro non ha una realtà che si dirige verso… Chi è chiuso nella dife­sa narcisistica ascolta soltanto se stesso e vio­lenta l’altro, costringendolo ad essere ciò che egli vuole che l’altro sia.

Ecco perché ho detto che il narcisista è an­tropofago: perché non permette agli altri di vivere autonomamente; rifiuta loro ogni au­tonomia esistenziale, perché se fossero

autonomi potrebbero aggredirlo e ferir­lo. L’altro viene quindi ingoiato, in­globato nel mondo del narcisista.

Quali siano i sentimenti dell’altro, marionet­ta nelle mani del narcisista, non importa più; peggio: il narcisista non si pone neppure il problema. Questa incapacità di percepire l’al­tro ha la sua origine in un rifiuto d’amore: chi mette in atto difese narcisistiche non può ce­dere la propria immagine ad un altro e a fa­tica ne sente il richiamo libidico. Potremmo dire che il narcisista «scopa»; ma non fa mai «l’amore». Questa espressione idiomatica: «scopare», esprime abbastanza bene il com­plesso stereotipo di gesti compiuti da un nar­cisista nel rapporto sessuale. Nel rapporto narcisistico, il piacere sessuale cerca essen­zialmente gratificazioni sul sé, l’altro è un pretesto, uno specchio che riflette l’immagi­ne del narcisista.

Spesso il narcisista è profondamente convin­to di essere «perdutamente innamorato»; ma non appena l’oggetto amato cerca di ribellar­si al ruolo impostogli, di pura ombra senza desideri, ecco che il sentimento così assolu­to sfuma, diventando labile. Il narcisista non tollera di avere rapporto con un essere uma­no che manifesti esigenze, affettive o sessua­li, diverse dalle proprie. Quando è costretto a percepire l’altro come altro da sé, il narcisi­sta si sente offeso, perché ne ha paura; e al­lora l’innamoramento cade con estrema faci­lità e un nuovo oggetto verrà investito libidi­camente, ancora una volta l’innamoramento parrà dapprima emotivamente intenso; ma un altra volta cadrà, non appena l’altro cercherà di farsi percepire, e tutto ricomincerà da capo.

Avrei voluto descrivere sia le cause della difesa narcisistica, sia le caratteristiche del comportamento narcisistico con asettica neutralità morale; questo – mi hanno detto – è l’atteggiamento del buono scienziato. Mi accorgo di non esserci riuscito: giudizi morali o moralistici permeano le descrizioni che ho fatto sopra; ma non mi va di riprendere tutto da capo e di riesporlo in altro modo. Per fortuna, mi accorgo che mi sono servito di due tipi di giudizio morale non solo contrastanti; ma addirittura opposti fra loro. In un primo tempo, ho detto che la difesa narcisistica sorge in una situazione di precarietà: chi si sente rifiutato nel proprio dirigersi verso l’altro, cerca in qualche modo di superare la frustrazione negando l’altro e cercando gratificazioni sul sé, e così facendo ho proposto il narcisista come una vittima. In un secondo tempo, ho proseguito il discorso, descrivendo in modo truculento la perfidia del narcisista, trasformandolo così in carnefice. Per ora lascio aperto il discor­so… L’atteggiamento narcisistico compro­mette la persona nella sua interezza; non solo il rapporto sessuale, ma ogni altro tipo di rap­porto acquista un significato particolare. Chi vive narcisisticamente non percepisce i mu­tamenti di umore di chi gli sta intorno e non percepisce neppure i cambiamenti ambienta­li. Ricordo un mio paziente molto narcisista il quale continuò a frequentare il mio studio durante un periodo in cui mobili e suppellet­tili venivano cambiati; egli non si accorse as­solutamente di nulla. Quando gli feci notare i cambiamenti rimase stupefatto e anche un po’ offeso. Da quel giorno incominciò, a sca­denze regolari, a notare che un mobile era stato spostato, un altro sostituito, che un nuo­vo oggetto era comparso; naturalmente sba­gliando quasi sempre. Una signora dolce ed elegante, convinta di essere molto sensibile, altruista e attentissima ai sentimenti degli al­tri, dopo aver sentito un mio discorso in pub­blico sulla impermeabilità dei narcisisti nei confronti del mondo esterno, rimase alquan­to toccata e, da quella volta, quando mi in­contra, scrutandomi con attenta amorevolez­za, mi attribuisce le situazioni emozionali più strane e variopinte, mentre palesemente, con­tinua a non percepire niente di me, a non ve­dermi neppure.

La positura narcisistica è, secondo me, l’im­pedimento maggiore per quelli che vogliono diventare psicoterapeuti. La teoria psicoana­litica classica afferma che la chiusura narci­sistica, nel paziente, impedendo l’instaurarsi di un transfert produttivo, rende impossibile l’analisi. Ciò è vero; io ritengo, però, che l’at­teggiamento narcisistico sia ancor più peri­coloso per chi si assume l’onere di fare il te­rapeuta. Conosco alcuni terapeuti profondamente chiusi entro le loro difese nar­cisistiche i quali mimano l’interesse durante le sedute. Il massimo coinvolgimento affettivo e politico che riescono ad avere con il cosiddetto paziente consiste in un contrappunto, caratterizzato da un con­tinuo, e mentale: «anch’io»… «io invece». Qualunque cosa il paziente dica loro, il mas­simo sforzo che riescono a fare consiste nel confrontare continuamente loro stessi con i sentimenti e le scelte dell’altro. Anche il modo di dialogare del narcisista è tipico: o non ascolta, e attende con impazienza che l’interlocutore smetta per cominciare a parla­re egli stesso, oppure replica sempre inizian­do con la formula: «Io invece…».

Quando assumiamo l’atteggiamento narcisi­stico, non riusciamo a calarci libidicamente nell’altro: la carne, il calore, la sessualità dell’altro ci rimangono esterni; guardiamo gli altri senza vederli, parliamo senza ascoltarli, li tocchiamo senza sentirli.

La difesa narcisistica è la maggior responsa­bile dell’ottusità mentale e, talvolta, anche dell’incapacità di memorizzare e di appren­dere. Per imparare davvero qualcosa è indi­spensabile percepire sensualmente tutto ciò che accade intorno a noi. È indispensabile es­sere all’erta e sentire le somiglianze e le di­versità. Studiare quando si è in una situazio­ne di narcisismo significa scontrarsi con la difficoltà di non ricordare ciò che si legge e dover ricominciare ogni volta che si è al ter­mine di una pagina, oppure riuscire a impa­rare alcune nozioni senza sapere poi quale uso farne, perché si è incapaci di proiettarle sul reale.

Un giovane psicoanalista, ottusamente narcisista, mi poneva, con simpatica umiltà, questo problema: «Io – mi diceva – dopo alcuni anni di analisi personale, dopo aver letto la maggior parte dei testi della letteratura psicoanalitica e psichiatrica, ufficiale e non, quando mi trovo davanti ad una persona e voglio cercare di capirla, ho l’impressione che tutto quello che ho studiato sparisca, o meglio: non lo so applicare; la persona parla e a me viene sonno». Questa, io credo, è una esperienza comune a molti psicoterapeuti alle prime armi. Il rapporto diretto con la psiche di un’altra persona li sconvolge e li disorienta. Però, chi ha condotto la propria analisi senza coinvolgimento reale col terapeuta, cercando soprattutto di parlare e ascoltando poco, se pure è riuscito a chiarire a se stesso molti problemi psichici, non è però riuscito a spezzare il diaframma che è indispensabile spezzare perché una ana­lisi possa dirsi riuscita. È il diaframma co­struito dalla paura e dalla difesa narcisistiche. Questa pellicola, talvolta sottile, impalpabile, ma paralizzante come un’armatura, tende continuamente a riformarsi, soprattutto dopo esperienze frustranti.

A questo punto vorrei parlare di un atteggia­mento diametralmente opposto, anche se ha la stessa genesi difensiva: il comportamento sadomasochistico.

Mi pare abbastanza evidente (ma è meglio esplicitarlo) che io, qui, ora, sto elaborando una sistemazione soprattutto logica: sto de­scrivendo due atteggiamenti e comportamen­ti esistenziali, il narcisismo e il sadomaso­chismo, usando una serie di astrazioni utili anche operativamente, ma che servono so­prattutto per il discorso. Allora dovrei dire che si tratta di pure costruzioni mentali? Io spero di no, per due ragioni: la prima è che una costruzione mentale non è mai soltanto una costruzione mentale; la seconda è che un discorso sistematico, anche se astratto, è si­stematico appunto perché cerca di sistemare un materiale che tende alla sistemazione, seb­bene, per fortuna, non sia riducibile intera­mente alla sola sistemazione.

La cultura dell’Ottocento, nei romanzi, in teatro e in psicologia, ha scoperto il sadismo e il masochismo Il marchese de Sade e lo scrittore Sacher von Masoch hanno prestato i loro nomi alla definizione di questi due com­portamenti umani vecchi quasi quanto l’uomo. Le osservazioni più o meno psicolo­giche hanno inoltre scoperto che questi due comportamenti sessuali si presentavano in coppia. Colui che, per provare il piacere ses­suale, deve infliggere sofferenze al partner, allo stesso tempo, in modo più o meno fan­tastico, desidera anche provare le esperienze della sua vittima e, ovviamente, viceversa, colui che ama essere la vittima si identi­fica anche con il carnefice.

La psicologia, descrittiva e non, del tardo Ottocento, e anche la psicoanalisi, hanno tentato di compilare un elenco del­le cosiddette perversioni sessuali, cioè di quei comportamenti che si allontanano così tanto da ciò che la consuetudine ritiene deb­ba essere la sana attività sessuale da perver­tirne il senso; e il senso della sessualità nor­male è identificato soprattutto con la pro­creazione. (Il fine e il significato della ses­sualità è stato posto nella procreazione, come ho detto, ma non bisogna tacere che la psi­coanalisi si è sempre sforzata di mettere in evidenza anche l’aspetto legato al piacere). È un fatto ormai che le perversioni sessuali, elencate, discusse e raccontate fanno bella mostra di sé nei trattati e nella letteratura. La coppia sadismo-masochismo, insieme con l’omosessualità, rappresenta il tipo di perver­sione che ha fatto più orrore alle coscienze nell’ultimo secolo. Un orrore pieno di fasci­no tenebroso.

Era abbastanza inevitabile che da queste basi scaturissero poi anche gli esaltatori della perversione; per ragioni estetiche prima, politiche poi. Ed ecco le estetiche e le ideologie che esaltano il diverso. Un diverso, però, secondo me, assai poco diverso. Tutto sommato, la cultura contemporanea ha preso per buone l’elencazione e la descrizione delle perversioni come le ha catalogate la bèlle époque ed ha tentato di metterli addosso a noi, come se fossero costumi di carnevale: il costume del normale in una categoria a parte; poi quello dell’omosessuale, del sadomasochista, dell’esibizionista, del feticista, e via discorrendo. La psicoanalisi, dal canto suo, teorizzava che l’essere umano nasce, vero prodigio di circo, avendo addosso, o almeno a disposizione, tutti i costumi di questo carnevale della sessualità. Da quando ho incominciato ad interessarmi della psiche umana, mi sono imbattuto nella diagnosi. Dapprima vi ho creduto assolutamente, tentando di calare ogni persona che incontravo dentro uno schema diagnostico; poi mi sono accorto di come le diagnosi siano abiti che non si adattano mai alle persone singole; malgrado i più abili lavori di aggiustamento che una sartoria potrebbe fare. Ogni essere umano sfugge, sempre, con ostinazione, ai tentativi più volenterosi di imprigionarlo in uno schema rigido. A questo punto sorge (sorse anche in me) l’iconoclastia anti­diagnostica. Con furia mi diedi a distruggere le nuove icone, le cartelle cliniche, le descri­zioni precise. Ora mi sono stancato anche di questo furore delirante. Mi rimangono molti brandelli variopinti e intatta e insoddisfatta la voglia di capire gli altri e me stesso. Potrei assumere l’atteggiamento moderato di chi dice che le diagnosi e le definizioni hanno un carattere strumentale ed operativo; che pur sapendo che l’essere umano è molto più ric­co bisogna comunque tentare di descriverne il comportamento. Io, però, conosco anche il pericolo che si nasconde nelle parole. Le pa­role non soltanto descrivono; ma, spesso, creano. Le parole sono altro dal desiderio; ma condizionano il desiderio. Io sento e dico con le parole che io non sono solo parole; ma esse sono presenti nei miei pensieri e, spesso, le mie parole e la mia carne sono sentite e pro­nunciate allo stesso tempo.

Il catalogo delle perversioni, quindi, è un elenco di diagnosi e una serie di «parole». Accettarlo è riduttivo, rifiutarlo interamente pare impossibile. Non voglio, però, esserne prigioniero. Voglio cercare di liberarmene al­meno in parte. Ho contrapposto, prima, il nar­cisismo al sadomasochismo: questa è una contrapposizione che mette in relazione. Ho sommato due concetti che non bisognava sommare. Il narcisismo non faceva parte del catalogo delle perversioni, tutt’al più è la cau­sa di alcune di queste, il sadomasochismo, in­vece, è una perversione. E allora ? Allora si vede che ho preso questi due vecchi concetti e li ho un po’ rimescolati e stravolti.

Il narcisismo e il sadomasochismo sono, per me, due modi fondamentali di affrontare la relazione sessuale, e poiché ogni relazione sessuale è anche una relazione e ogni rela­zione una relazione sessuale, possiamo dire che sono due modi fondamentali di affronta­re il rapporto con l’altro.

Il primo modo, quello narcisistico, affronta la relazione tentando di negarla. O meglio: il narcisista tenta di negare l’altro come altro riconoscendogli soltanto una pre­senza fantasmatica nell’obbiettivo di renderlo innocuo e controllabile.

Il sadomasochista, invece, va alla ricerca dell’altro, come tale, nella sua concretezza. Se l’altro non è sentito e vissuto come altro, il sadomasochismo non è sadomasochismo. Il comportamento sadico sessuale consapevole, non solo vuole, ma deve sentire l’altro come altro da far soffrire. Più l’altro è altro, mag­giore è il piacere di infliggergli sofferenza. Nel rapporto sadico è indispensabile percepi­re l’altro nelle sue vibrazioni sensuali, per meglio coglierle realmente, per vibrare con precisione il colpo. Così nella situazione ma­sochistica l’altro deve essere sentito come al­tro che, nella sua alterità, infligge la soffe­renza. Perché il piacere sia pieno bisogna convincersi che sia realmente un altro a strin­gere, ad opprimere ad umiliare. L’Io non deve sapere nulla dei meccanismi proiettivi per i quali l’altro diviene anche non altro, in un gioco di specchi contrapposti. Il gioco ha le sue regole e solo una stupida pedagogia considera il gioco come un’illusione.

Un pomeriggio venne da me un ragazzo: gentile e bruttino. Con una vocetta sentimentale incominciò a parlarmi usando molte espressioni convenzionali da rotocalco; ma c’era in lui qualcosa di leggermente inquietante. Pian piano, nel corso della conversazione, vennero fuori fantasie sadomasochistiche attente e precise. Poi mi parlò dell’esperienza di collegio, dei terribili giochi cercati e subiti, echeggianti il ricordo letterario di Musil e del suo giovane Thrless.

La volta successiva ritornò; era passata una settimana; ma, dalle sue parole, mi accorsi che aveva percepito tutto nel corso del nostro precedente incontro: il mio abbigliamento, la mia casa, gli odori, i suoni, i rumori del quartiere. Un inizio di transfert? Senz’altro, ma anche qualcosa di più. Un bisogno di attenzione, di mettere all’erta la pelle e lo sguardo, per essere pronto a non perdere la possibilità di ferite da infliggere e da subire. Altrimenti la realtà sfugge, il piacere rischia di non essere avvertito, di presentarsi senza la sua punizione e questo non sia mai! Ecco: di nuovo la difesa, il desiderio del piacere e il piacere del desiderio che fanno muovere l’essere vivente o meglio: che cominciano a muovere nell’essere vivente. Ma ciò che è intorno è sentito come rigido ed ostile; il de­siderio si smarrisce e si disorienta, si sente debole, ha paura; ma non fugge: attacca. La sofferenza è un modo di appropriarsi di una relazione difficile in cui il senso di col­pa si presenta subito, perché è già presente tutto intorno. Il desiderio è piacevole; ma cer­ca di travestirsi con i panni del suo contrario. Sono nuovamente presenti le quattro cause che hanno originato anche il narcisismo: la frustrazione del desiderio, da cui la ribellio­ne compensatoria; la paura di un’ulteriore impossibilità della relazione, da cui inizia il meccanismo di difesa. Il piacere nega se stes­so, negando il rapporto diretto con l’altro: è indispensabile il diaframma del dolore; ma, poiché si cerca fuori di sé la compensazione, non si devono qui chiudere le finestre sul­l’esterno, anzi: i giochi sono capovolti, i ge­sti vengono rovesciati.

Il sadismo e il masochismo riescono di rado a raggiungere la consapevolezza. Nell’ana­lizzare il narcisismo e il sadomasochismo, ho ritrovato in pieno il pregnante significato dell’inconscio. Io ho più volte ripetuto che la psicoanalisi tradizionale ha eccessivamente schematizzato la psiche umana, dividendo in modo troppo netto il conscio dall’inconscio (inserire il concetto di pre-conscio non è suf­ficiente). Pur continuando a ritenere valida questa mia affermazione, mi rendo però con­to di aver avuto troppa vergogna dell’incon­scio; come se offrisse una scappatoia troppo facile per non spiegare ciò che non si ha il coraggio di capire.

Eppure l’inconscio non è un’ingenua trovati­na tardo ottocentesca. È la più importante scoperta impossibile del nostro secolo. L’in­conscio mi si è ripresentato ora con tutta la sua oscura forza. Il narcisismo si presenta compatto; ma con una gran parte di sé ri­mossa e, sotto ancora, ci sono fantasie sado­masochistiche decisamente inconsce. Il sado­masochismo ha, da parte sua, operato una massiccia rimozione del narcisismo, produ­cendo un Io claudicante e falsamente on­nipotente. Sulla strada del sadomaso­chismo ho anche trovato, però, un at­teggiamento particolare, che mi ha, lì per lì, lasciato perplesso. È, questo, un atteg­giamento al quale la psicologia non ha anco­ra affibbiato un nome-etichetta; perciò si trat­ta di qualcosa di particolarmente sfuggente; ma che si può riscontrare nella realtà della persona, preciso e puntuale. È l’atteggiamen­to di colui che, pur avendo poche fantasie sa­domasochistiche consce, è riuscito a liberar­si sufficientemente del meccanismo di difesa narcisistico e, quindi, percepisce l’altro in­tensamente, perché cerca dall’altro gratifica­zione, consenso. L’altro è percepito come al­tro perché possa appoggiare ed applaudire e, soprattutto, ammirare. Intendiamoci, non parlo del desiderio di ammirazione ottuso ed opaco del narcisista, per il quale l’altro e gli altri sono una presenza indistinta, una platea, immersa nel buio, di fronte alla quale egli re­cita. In questa situazione, gli altri debbono necessariamente essere altri, altrimenti non si gode a sufficienza, non si è adeguatamente rassicurati. A questo punto del mio discorso, sono assolutamente certo che i narcisisti che stanno leggendo queste righe si sono identi­ficati con quest’ultimo tipo di persone. Que­sto è, invece, un atteggiamento che si riscon­tra abbastanza raramente; ma la cui presenza ha rischiato, per un po’, di mettere in crisi la mia bella visione dicotomica e speculare. Fortunatamente, i quattro meccanismi di cui ho detto più sopra si trovavano già ad essere elementi unificanti originari dell’atteggia­mento narcisistico e di quello sadomasochi­stico; atteggiamenti la cui differenziazione avviene poi per ragioni legate alla storia del desiderio individuale.

Questo, apparentemente, terzo atteggiamento, che chiamerei: senso ontologico di ca‑strazione, lo situo sulla strada del sadomasochismo. La frustrazione originaria costituisce la persona come mancante. La paura e la difesa mettono in atto un particolare tipo di compensazione, per cui non è tanto il senso di colpa ad agire, quanto il bisogno di una gratificazione immediata, che viene trovata nell’ammirazione protettiva. Se portiamo a fondo l’analisi di questa personalità e di questi atteggiamenti, troviamo una gran quantità di desideri sadomasochistici abortiti ed un egoismo tenace e caparbio che ha superato persino il ripiega­mento sul sé narcisistico. Chi si trova im­merso in questo atteggiamento ha, spesso, un estremo bisogno del sentimento di ricono­scenza da parte dell’altro. Vediamo questi in­dividui profondamente offesi, quasi si sentis­sero espropriati, quando un dono che essi fan­no, anche piccolissimo, non viene notato dall’altro che non si affretta a manifestare su­bito una profonda gratitudine. Colui che si trova in questa situazione è anche un avaro, quanto e, forse, più del sadomasochista. Il de­naro ha per lui un profondo significato sim­bolico; riesce a destargli immaginazioni di aggressione, agita e subita. Costui prova spesso una profonda avversione ad entrare nei negozi, soprattutto in quelli in cui il rap­porto col venditore è più personale, con il di­retto scambio tra merce e denaro.

Anche per questo, forse, l’economia di mer­cato ha inventato la formula del grande ma­gazzino, luogo in cui il rapporto è più ano­nimo, dove manca la figura che ti assilla os­servandoti mentre chiedi e strappandoti di­rettamente di mano il denaro. Nel grande magazzino le commesse e i commessi sono persone distratte e disinteressate; la merce è sciorinata in un’inerzia spesso caotica; il de­naro viene ingoiato da un aggeggio mecca­nico che produce suoni fantascientifici, non ben distinto dalla figura della persona che lo manovra.

Le persone che si trovano in questa situa­zione non reggono alla competizione, a dif­ferenza del narcisista che la cerca; ma, spes­so, non la percepisce. Qui, il sadomasochi­smo fa che la competizione sia desiderata; ma il timore della sconfitta rende spesso troppo insicuri e perciò rinunciatari. In que­sto aspetto possiamo forse vedere il punto che unisce narcisismo e sadomasochismo: entrambi sono comportamenti sempre ses­suali, perché sessuale è, sempre, ogni com­portamento.

Non me la sento, e non ne ho voglia, di de­finire qui che cosa sia la sessualità (debbo purtroppo riconoscere che il non detto soverchia, sempre e di gran lunga, il pochissimo detto).

Sessualità e rapporto narcisistico, sessualità e rapporto sadomasochistico (per­ché pur sempre di rapporto si tratta) sono comportamenti che si circoscrivono entro la dinamica vitale. Wittgenstein ha detto: «La morte non è evento della vita. La morte non si vive» (cfr. «Tractatus», 6.4311).

La psicoanalisi in una balorda crisi metafisi­ca, ha teorizzato la pulsione di morte; ma noi dobbiamo sapere che la morte che avviene è tutt’altra cosa: la vita è circoscritta, tutta, nel­la vita. È troppo ingenuo far coincidere il do­lore con la morte, e forse anche troppo co­modo. Il dolore è distruttivo appunto perché non distrugge del tutto. Le fantasie dell’adul­to e del bambino sentono il dolore come male, proprio perché è presente come forza della vita.

Ho detto che la cultura è rappresentazione, e la rappresentazione è sempre rappresentazio­ne di una lotta fra il bene e il male, i quali non sono altro che il piacere e il dolore. Ho anche detto che questa rappresentazione si realizza negli istanti dell’attesa. La fantasia colma i vuoti apparenti (perché mi sembra abbastanza evidente che non esiste, vera­mente, il vuoto). Nell’attesa in cui sorge e si distende il desiderio, nasce il nostro bisogno di inventarci il tempo.

Il tempo misura la durata del desiderio. L’at­tesa è sempre un proiettarsi all’esterno. In questo dirigersi, il desiderio aspetta. In que­sto aspettare sorge il concetto di tempo. Un concetto, questo, la cui unica raffigurazione corretta è rappresentata dalla misurazione che ne fanno i nostri imprecisi orologi; im­precisi sempre, perché sempre altro dal desi­derio; ma, nello stesso tempo, sempre preci­si, perché sono l’unica oggettivazione possi­bile del tempo.

In questa temporale estensione del desiderio sorge il teatro della cultura: tempo e cultura, tempo e arte, coincidono.

La rappresentazione desiderante non coincide con la pulsione desiderante; ma le si sovrappone. I contorni quasi combaciano; ma non perfettamente. Il tempo non è il significato dell’esistenza.

L’esistenza si inventa il tempo per colmare e placare la tensione del desiderio. Il tempo è il senso della rappresentazione. La rappre­sentazione desiderante si sovrappone al de­siderio, senza contrasto: potrei dire che è un desiderio che si sovrappone ad un altro de­siderio. La rappresentazione desiderante si distende nel tempo per appagare ciò che il tempo ci fa sentire come di là da venire. A questo punto, le avventure mentali posso­no essere molte: giochi e capriole logiche che, forse, mi costringerebbero a trarre una conclusione che non voglio, cioè che la rap­presentazione desiderante, pur avendo come suo senso il tempo, sorgerebbe per contrad­dire il tempo, per opporglisi, per costringer­lo in un presente atemporale.

Cerco di spiegarmi meglio: il tempo e la rap­presentazione desiderante sorgono entrambi quando il desiderio attende, e il desiderio è sempre un po’ in attesa. La rappresentazione desiderante sorgerebbe allora per colmare la sensazione di vuoto dell’attesa, la quale si presenta a noi perché c’è il tempo; quindi la rappresentazione desiderante sorgerebbe per distruggere il tempo. Ma, se il tempo è il suo significato, la rappresentazione desiderante sorgerebbe per distruggere il proprio signifi­cato.

Io che amo le contraddizioni sono talvolta messo a disagio dalle contraddizioni stesse. Questa è una di quelle che rischiano di mo­dificare i miei pensieri, rendendoli sterili ed inefficaci. La soluzione la trovo, forse, im­mergendomi con un po’ meno di paura nel concetto di tempo.

Finora ho parlato di tempo come di qualco­sa di reale e di misurabile solo con se stes­so; ma gli orologi non sono il tempo, ne sono soltanto la misura. Il desiderio e la rap­presentazione desiderante non sono unidire­zionali come il tempo; essi si diramano per vie molteplici. Il tempo sorge per imprigio­nare il desiderio: prigionia assai utile; ma che è solo una delle possibilità del deside­rio. Quindi, la rappresentazione desiderante ha come suo senso il tempo; ma non coincide con esso: sorge nel tempo, si distende nel tempo, ma tenta, peren­nemente, di liberarsene.

Ecco perché io penso che la rappresentazio­ne del desiderio più immediata, quella più vi­cina al desiderio stesso, sia la musica. La mu­sica fa del tempo la sua ossatura; ma riesce quasi (o forse ci riesce del tutto) a distrug­gerne l’unidirezionalità. Il tempo della musi­ca è il ritmo. Il ritmo è il tempo nel momen­to stesso in cui è sentito, nel momento, quin­di, in cui, quasi, non è ancora tempo; ma è solo pulsione che si dirige e che, in questo suo dirigersi, gode nell’ascoltare il suo mo­vimento. Movimento che non è spazio, ma è ritmo.

Il ritmo è costituito dall’alternarsi della pau­sa e della presenza: pausa che diventa pre­senza e presenza che si trasforma in pausa. Il bene e il male, cioè: il piacere e il dolore, pulsano e si distendono in un ritmo. Io, però, nego che il dolore sia necessario al ritmo del piacere. Tutto viene ritmato; ma il ritmo è su­bito, è prima: nel distendersi stesso del pia­cere. Se non ci fosse il ritmo, il piacere, è vero, non percepirebbe se stesso; ma io riaf­fermo, con tutte le forze di cui sono capace, che il ritmo del piacere non è dato dal suo al­ternarsi col dolore, bensì dal piacere che sco­pre se stesso. Il dolore è la contraddizione non necessaria del piacere e viene incluso nel ritmo, malgrado il ritmo stesso.

La rappresentazione sorge nell’attesa, quan­do l’attesa viene percepita come tale. Il pen­siero si realizza nel teatro: è una fantasia che coincide, quasi, con la realtà; ma che non è la realtà.

Il teatro è la prima e forse l’unica forma di cultura. La tradizione storica pretende che il teatro sia scaturito dal rito. Nei tempi antichi, si racconta a sostegno di questa tesi, avevano luogo rappresentazioni sacrificali. Presso i villaggi, in luoghi aperti e sacri, talvolta presso qualche grande albero, la gente si radunava per sacrificare a qualche dio (alcuni dicono a Dioniso). Il sacerdote raccontava le imprese del dio, il popolo punteggiava questo racconto con canti. In seguito, il racconto divenne rappresentazione e i fedeli, da partecipanti al rito che erano, si trasformarono in spettatori. I compiti si differenziarono in modo più netto: nacquero gli attori, qualcuno scrisse i testi e le musiche, sorse il teatro; in seguito sorsero i teatri.

Io intendo capovolgere questa storia, affer­mando che: prima sorse il teatro, poi, sui mo­dello del teatro, sorse il rito. Secondo me il rito è figlio del teatro, e non viceversa.(6) Il sogno è forse la prima forma concreta di teatro: nel sogno l’uomo racconta a se stes­so, impersonandoli, i propri desideri. Un la­psus che tutti facciamo molto frequentemen­te è quello di chiamare sogno uno spettacolo cinematografico o una rappresentazione tea­trale, non facciamo più nessun caso a questo lapsus, poiché lo riteniamo una di quelle ov­vietà che non hanno bisogno di spiegazioni. Tutti percepiamo il sogno come rappresen­tazione, e viceversa. I sogni si sono formati per primi; poi, lentamente, dalle rappresen­tazioni del pensiero, nel sonno o nella ve­glia, si passò a brevi rappresentazioni quoti­dianamente agite: il canto, il lamento, il pas­so danzante; si incominciò ad usare suoni e gesti per esorcizzare la paura. Questi suoni e questi gesti confluirono poi nel rito, dove ‘,i organizzarono, nell’intenzione di raccon­tare una storia che servisse ad esorcizzare il pericolo.

Il rito è ancora così vicino al desiderio che ri­produce, quasi intatto, il ritmo del piacere. Il rito si snoda con un ritmo esplicito e quasi sempre evidente: i gesti, le parole, gli odori, riproducono la danza originaria, scaturita dai 2esideri del sogno e della veglia. Il piacere e e pulsione libidica pulsano, seguendo il loro amo. Il sogno, il pensiero e la danza mima­eo questo piacere cogliendolo, quasi, nel- ‘istante stesso in cui sorge. Lo riproducono, fanno scaturire dalla successione dei gesti, :no a produrre una rappresentazione autono­-.a, organica, che si distende e si articola nel – :mo suo proprio. L’apparente autonomia ne i gesti rituali sembrano conservare nei -infronti della loro fonte piacevole serve a • calizzare la loro funzione di esorcismo.

L’essere umano sente fin da subito che frustrazione del desiderio non è cau:a soltanto dalla propria debolezza; ma, soprattutto, da una forza esterna cattiva e vendicatrice.

Credo che il primo pensiero che nasce dopo la frustrazione esprima il timore di essere vittime della punizione. È impossibile, per l’uomo, accettare la precarietà sentendola solo come tale; la precarietà è sentita anche come opaca e impersonale, lascia l’uomo esposto al pericolo oscuro della solitudine.

Ho detto prima che l’uomo è programmato per la relazione: tutto l’individuo, tutto l’organismo umano, è programmato per la relazione, strutturato per reagire in rapporto con l’altro da sé, inanimato o animato che l’altro sia. La psiche, in particolare, è programmata per l’inter-azione con gli altri esseri viventi e l’uomo accetta con fatica l’idea che alcune delle cose che lo circondano siano inanimate. Basta osservare qualcuno alle prese con una radiolina che non funziona, per accorgersi, dai suoi gesti e dalle sue espressioni, che in fondo rimane la convinzione che la radio sia ammutolita anche con una intenzione, per fargli dispetto. Il desiderio, quando è frustrato, sente rivolgerglisi contro un altro desiderio, o meglio sente che è il desiderio di qualcun altro che gli si oppone, anche quando non è così. Il rito, come dicevo, con i suoi gesti carichi di sensualità, scarica parte del desiderio, appaga e, nello stesso tempo, protegge dalla punizione. Spesso, le motivazioni del rito, quelle remote come quelle immediate, non sono neppure più percepite ed il rito stesso realizza tutto il suo significato perché difende dalla paura che il piacere venga frustrato, appagandolo in modo autonomo. Il desiderio, la pulsione, la sessualità, si realizzano nella relazione con l’altro. La difesa immediata da questa relazione, o meglio dalle possibili frustrazioni che dalla relazione possono derivare, può essere di due tipi. Nel primo tipo, la difesa non tenta di negare il rapporto con l’altro; tenta piuttosto di rappresentarlo, colmando così il vuoto creato dalla tensione dell’attesa: ed ecco la rappresentazione, il teatro, la cultura. Il teatro colma l’attesa, divenendo egli stesso piacere ed appropriazione anche se, paradossalmente, riproduce una miriade di situazioni di attesa. Nel secondo tipo, la difesa mette in atto meccanismi che distaccano dal rapporto con l’altro. Il narcisismo e il sado­masochismo sono atteggiamenti in cui il pia­cere del rapporto libidico si traveste e, tal­volta, si disorienta. È, questo, un disorienta­mento profondo, che consegue a millenni di instabilità e di paura. Sarà mai possibile su­perare questa paura?

Esiste la possibilità di un rapporto che sia ses­suale e felice nello stesso tempo? È possibi­le sentire l’altro come tale? È possibile tro­vare la propria realizzazione in un rapporto che percepisca l’altro nella sua autonomia e nella sua piacevolezza? Se gli altri sono altri, possono ferire: sarà possibile non temere queste ferite?

Noto che queste ultime righe sono cosparse dai graziosi riccioli insinuanti dei punti in­terrogativi. Questo grazioso ricciolo preten­de, talvolta, una risposta; ma io penso che la risposta sia, per ora, impossibile.

Potrei dichiarare che mi accontento di sape­re almeno ciò che non bisogna volere. Po­trebbe bastarmi conoscere quali sono gli at­teggiamenti in cui è pericoloso cadere ed im­parare a difendermene. Significherebbe di­fendersi dalle difese: quante contraddizioni e quante parole! Finalmente eccoci alla smilza e petulante asticciola del punto esclamativo; che però, devo ammettere, non è venuta a concludere una risposta. Un esclamativo messo lì soltanto per rafforzare una constata­zione.

Una parola sta roteando vorticosamente nel­la mia mente; una parola che non ho il co­raggio di esprimere; una parola che viene di lontano, da un altra lingua e, quasi, da un al­tro mondo. Una parola che potrebbe servirmi a definire l’atteggia mento possibile, che io ritengo accettabile e produttivo e anche poli­ticamente soddisfacente. Ho paura però di definire un’altra volta, con troppa concretez­za, un comportamento umano.

La parola che ho così paura di dire è: Eros. A me richiama alla mente una divinità lonta­na, gradevole e felice. Ad altri può rievocare immagini meno gradevoli, o addirittura bru­tali. Una parola a metà suono e a metà dio che io pongo a conclusione di questo discor­so, per un mio incomprensibile bisogno di mitologia. Voglio dire che, secondo me, il rapporto pieno e diretto, che non teme la fru­strazione e che non nega l’altro, è il rappor­to erotico.

Ma non voglio difendere oltre questa mia scelta di una parola-dio e l’aggettivo che da essa deriva. Bisognava pur concludere con una cadenza elegante.

(9 11 concetto di “classe”, ormai obsoleto, è di­ventato oggi molto più difficilmente usabile di quanto non lo fosse quando furono stese queste righe (nel 1979).

(2)  S’intende che mi riferisco soltanto alla nostra area socio-culturale, di cui non voglio definire i confini geografici, ma che spero sia ugual­mente abbastanza localizzabile.

(3)  A questo proposito va detto che è qui abbozzata “in nuce” quella che in seguito diventerà la mia teoria dell’”Inconscio Socia­le”. (cfr. L’oro della psicoanalisi, A. Guida, Na­poli, 1993)

(4) L’Io, per me, non è un’istanza distinta dall’Es, dal Super-io o da qualcos’altro, ma è tutta la per­sona.

(5) Questo è un concetto, un po’ oscuro, da me, in seguito, abbandonato.

(6) Questa mia affermazione non vuole togliere nulla alla sacralità del rito.