Archivio di maggio 1993

Psicoanalisi contro n.1 – La diagnosi e la persona (Sezione quinta)

sabato, 1 maggio 1993

V.1. FUORI DEL GREGGE

La gelosia, abbiamo detto, può essere l’an­cella di Eros, ma anche la sua nemica. La verità è che per gli uomini oggi è difficile saper amare. La gelosia si insinua in tutti i rapporti interpersonali e determina logiche di potere. Potere è una parola che risuona spesso nei discorsi, riferita sia alle persone sia alle istituzioni che ci controllano e go­vernano. Federico Nietzsche enunciò il concetto di “volontà di potenza”. Secondo il filosofo tedesco solo ciò che non vive può non volere, ciò che vive,però,non si accontenta di vivere, ma vuole qualcosa di più. Opponendosi in questo a Scho­penhauer che invece teorizzava la necessità di raggiungere la “nolontà” o non volontà di vivere. Quello niciano è in fondo il di­scorso che oggi viene ripreso quando si parla della_”qtIalità della vita”. Non basta vivere, si dice, la vita non può essere solo sopravvivenza ma deve soddisfare il biso­gno di piacere; per fare ciò bisogna av-ére subito almeno ‘un po’ di potere. Nietzsche dice ancora che l’uomo_l_camesnasorda tesa tra l’animale e il speruomo una corda tesa sull’abisso, un ponte. L’obiettivo dell’uomo è di reailizzare le-The potenzialità di Super-Uomo. Queste teorie sono sta­te lette in due modi molto diversi tra loro. La più vecchia e nota lettura ha visto nel Super-Uomo la personificazione del ditta­tore, della super-razza, che hanno il diritto di schiacciare le masse e di annientare le al­tre razze. La seconda lettura, più moderna e secondo me più corretta, vede nel Super- Uomo la realizzazione dell’Uomo Nuovo. L’uomo deve essere superato, deve lascia­re la vecchia condizione di membro di un gregge, la sua morale non deve più basarsi sulle convenzioni, egli deve avere il co­raggio essere libero, di affrontare l’in­certezza di ciò che è nuovo, darsi nuove

Deve essere per questo anche potente. Io non credo che l’ipotesi niciana vada riferita ad un singolo uomo, né che preveda una realizzazione immediata; ma che contempli la possibilità per tutti di abbandonare la ormai sterile morale borghese, pseudo-cristiana, per rag­giungere un livello superiore. Sfortunata­mente in troppi hanno pensato di essere il super-uomo le légittimato a dominare il gregge ed in un certo senso la scienza stessa ha legittimato questa presunzione che chi è più potente ha maggiori diritti. La teoria dell’evoluzionismo classico aveva decretato il principio della sopravvivenza del più forte; cioè di quegli individui o quelle specie capaci di dominare sugli altri e sull’ambiente Oggi queste facoltà che abilitano per così dire all’esercizio del potere potrebbero essere riassunte in tre punti: 1) robustezza fisica- 2)astuzia ed intelligenza; 3) ricchezza. Se riuniamo in un solo ndividuo  queste caratteristiche ab­biamo quello che nella nostra società è con­siderato un uomo di potere. Di fatto poi si verifica che l’abbondanza di una sola di queste qualità può compensare la insuffi­cienza delle altre; già i sofisti dicevano che è più forte non chi è più robusto, ma chi è capace di imporre le proprie ragioni.

La psicoanalisi si è occupata approfondita mente del problema del potere. Freud nel suo libro Psicologia delle masse ed analisi dell’Io teorizza l’Ideale dell’Io e l’esigenza che le masse sentono del leader; un capo che riunisca in sé le qualità ideali che ciascuno vorrebbe avere, ma che in genere ha solo in parte o per niente. Ogni essere umano, egli dice, costruisce grazie al proprio narcisismo un ritratto ideale di sé e poi elabora una successiva figura ideale che dovrebbe incarnare la perfezione. Lo stesso avviene per le masse: ogni gruppo più o meno grande proietta i propri ideali dell’Iosu di una persona: il leader, a cui consegna l’incarico di realizzare tutte le proprie fantasie di potere e di perfezione. Anche quando per ragioni politiche la massa detronizza il leader, l’idea­le rimane fissato all’ideologia (questa affermazione di Freud è per me molto interessante). L’ideologia, è:altrettanto tirannica e concentra su di sé il desiderio di potere del gruppo.

Dopo Freud, Alfred Adler è stato lo psi­coanalista che ha meglio teorizzato e de­scritto le dinamiche del potere. Staccatosi nel 1911 dalla psicoanalisi freudiana, Ad­ler prende l’avvio dagli studi sulla cosid­detta “insufficienza d’organo”. Quando una persona soffre dell’insufficiente funziona­mento di un organo qualunque, gli altri or­gani ed apparati entrano in funzione per compensare quest’insufficienza aumentan­do le loro capacità; oppure lo sforzo di su­perare un cattivo funzionamento ottiene il risultato di rendere il funzionamento dello stesso organo ottimale: Adler cita come esempio il caso di Demostene, che per su­perare la propria balbuzie tanto si esercitò nell’uso delle facoltà vocali che divenne fa­moso per la sua abilità oratoria. Poi Adler estende questa concezione alla psiche. Teo­rizza il “complesso d’inferiorità” e sostie­ne che quando una persona si sente in qualche modò inferiore, per ragioni fisiche o psichiche, morali o sociali, il suo compor­tamento può prendere due direzioni: una che si potrebbe definire normale, l’altranevrotica. Il comportamento normale porta a superare l’inferiorità con il successo in qualche campo dell’attività professionale, culturale o sportiva contribuendo a forma­re persone pienamente realizzate. Il com­portamento nevrotico è quello di chi non riesce a controllare il proprio smisurato de­siderio di potenza e nel tentativo fallito di superare l’inferiorità finisce col rimanere bloccato, preda di un delirio di onnipotenza, incapace di qualunque realizzazione pratica:Questo principio della volontà di Potenza come molla originariadell’esisten­za umana verrà da Adler contrapposto al principio freudiano del desiderio ses­suale originario. Secondo Adler il piccolo dell’uomo nasce impotente e sviluppa fin da subito la volontà di potere, fantasticando il controllo delle persone che lo manipolano e dell’ambiente da cui di­pende. In un secondo passaggio gli esseri umani identificano il potere con il ruolo maschile e questo dà luogo alla “protesta virile” tipica delle donne, ma anche di…que- gli uomini che si sentono assimilati per la loro debolezza alle donne. Il bambino non prova – secondo Adler – desiderio sessuale pér la propria madre, ma désidera sottometterla, poi desidera liberarsi del potere del padre e sottomettterlo a sua volta. Quando il complesso edipico non viene su­perato, l’individuo non riesce neppure ad emanciparsi e rimane succubo del potere genitoriale. Anche il rapporto sessuale è in quest’ottica un esercizio di potere e non d’amore. La volontà di potenza è la molla di tutta la realtà. Il nevrotico fallisce perché si pone obiettivi di potere che non rie­sce a realizzare; la terapia psicoanalitica adleriana o “analisi individuale” per guarirlo gli indica i possibili obiettivi da raggiungere ed è molto direttiva.

Io personalmente distinguo il concetto di potenza dal concetto di potere, anche se la radice è la stessa.

La .potenza è secondo me più legata ad un tipo di comportamento narcisistico.-la -ama il maschio che esibisce nelle palestre .k propria forza muscolare, vanitoso e concentrato sulla propria capacità di migliora­re le prestazioni ; oppure la ragazza che si esalta nel constatare la propria capacità di seduzione, senza vero interesse per chi ne è l’oggetto. L’esaltazione della propria po­tenza è un esercizio, di-narcisismo che relega gli altri ad ruolo di spettatori.

Il potere, invece, interessa soprattutto i sa­domasochisti, perché è piacere di dominare gli altri, molto spesso con loro soffe­renza; l’esempio più banale che mi viene in mente è quello degli inse­gnanti di scuola che si compiacciono di avere in loro potere, oltre che gli al­lievi, intere famiglie. C’è anche chi masochisticamente gode di subire il potere altrui, identificandosi con chi lo gestisce. La realtà del potere è negata da chi non è si­curo di sè eda chi vuole_  esercitarlo senza controllo. Nel gioco dei ruoli sessuali non ha più potere il maschio della femmina, ma lo ha chi lo maschera meglio. Il primo pas­so verso l’eliminazione dei giochi perversi del potere è il riconoscimento e la messa in discussione dei proprio potere, prima che dell’ altrui.

V.2. DON GIOVANNI

I rapporti di potere sono oggi ineliminabi­li, è illusorio tentare di negarlo. Tutti desi­deriamo il potere, lo fantastichiamo, ne ab­biamo bisogno e paura: siamo stati educati a questo. Un aspetto poco evidente del po­tere è quello che viene esercitato attraver­so la seduzione.

Per la psicoanalisi freudiana, già il bambi­no tenta di sedurre chi ha cura di lui e, a loro volta, gli adulti che lo manipolano lo seducono cercando di dargli e trarne piace­re. Le conseguenze di questa seduzione pri­maria si faranno sentire nello sviluppo suc­cessivo della personalità. Freud elabora una sua teoria della seduzione secondo la qua­le i nevrotici ossessivi e gli isterici sareb­bero individui che nei primi anni di vita sono stati oggetto di un atto di seduzione da parte di un adulto. Il bambino in fase pre-sessuale, non in grado di provare desi­derio, aveva subìto con angoscia quella passivizzazione che gli aveva procurato un trauma. Dopo la pubertà un’esperienza an­che non sessuale, che abbia richiamato il ri­cordo di quella primitiva violenza, ha riattualizzato quel trauma, provocando l’in­sorgere della nevrosi. Più o meno pa­rallelamente, però, Freud aveva avanzato una ben diversa ipotesi sostenendo che questa seduzione può anche non essere mai avvenuta, ma che è presen­te nella fantasia infantile fin da subito, in­sieme con la pulsione sessuale. In realtà sa­rebbero desideri sessuali di tipo- masturbatorio ad ingenerare questa fantasia di seduzione. Leggendo l’opera freudiana succes­siva si ricava l’impressione che egli non ab­bia mai abbandonato completamente l’ipo­tesi della seduzione, ma non vi annetta più un’eccessiva importanza ai fini dell’etiolo­gia della nevrosi.

Sedurre deriva da secum ducere ed ha in sé la stessa radice di dux: il condottiero, colui che porta con sé. Dove porta la seduzione? La seduzione ha sempre uno sfondo sessuale, ma combinato con vari aspetti.  Della fascinazione che anche trascina. Seduttore per antonomasia è Dori Giovanni Tenorio, personaggio leggendario che Tirso de Molina fissò nelle pagine de “Il burlatore di Siviglia e il convitato di Pietra” e che poi ancora fu descritto da Molière e musicato insuperabilmente da Mozart. Anche il filosofo Kierkegaard ricorre al personaggio di Don Giovanni nel suo Diario di un seduttore. Don Giovanni seduce, ma non ama le donne che seduce, ama piuttosto il gioco della seduzione in sé, la sua capacità di far cedere sempre tutte a prezzo di ogni virtù. Rodolfo Valentino è la versione borghese e di celluloide del mito. La storia dell’Occidente è piena
anche di seduttrici: Circe che seduce, le Sirene che portano alla morte col loro canto. Il mito delle Sirene- ha- avvalorato la fantasia romantica e borghese del binomio amore e morte, nel quale io non credo: l’amore per me è solo e sempre salvezza, quello che trascina alla rovina gli amanti è soltanto l’impossibilità di amare davvero. L’amore non può limitarsi al potere di seduzione che trasforma gli uomini in cinici strumentalizzatori del corpo altrui e le donne in Sirene che portano alla morte o in Maghe che tra­sformano, con la offerta di una sessualità lubrica, gli uomini in porci. La seduzione può dunque portare all’amore o alla mor­te, ma non coincide  in ogni caso con la pienezza dell’amorericercats di Eros.

V.3. LA SEDUZIONE DEL SEDOTTO

Che cosa vuol dire essere seduttori? Cia­scuno di noi immagina di essere una Circe o un Don Giovanni e neppure i limiti intel­lettuali o fisici bastano a scoraggiare. Chi non ricorda quel delizioso dramma borghe­se di Rostand che appaia i suoi due eroi: il brutto Cyrano e il luminoso Christian che, insieme, riescono a conquistare il cuore e le grazie della bella Roxane? Le qualità dell’intelletto bastano a compensare i di­fetti del fisico, e un bell’aspetto convince più di qualunque dote dell’intelligenza. Ognuno si sente quindi in parte giustifica­to nel molo del vero seduttore. Seduce chi è convinto di poter sedurre e solo a poste­riori chi è sedotto cercherà una giustifica­zione in questa o quella qualità del sedut­tore. Il seduttore ha inoltre la caratteristica di godere più delle proprie fantasie di se­duzione che del piacere di possedere fisi­camente le sue conquiste. Quello che dà al seduttore il piacere maggiore è la fantasia del potere_ che è in _grado di esercitare sull’altro. Questo avviene forse perché nella nostra cultura l’atto sessuale vero e pro­prio è circondato da un giudizio morale ne­gativo e svalutante. La vera seduzione è quella che va oltre il gioco sessuale, e si caratterizza come potere permanente di chi mescé a soggiogare l’altro.

L’arma più potente in mano al sedut­tore è il potere di ricatto. Il sedutto­re può ricattare anche fingendo di non avere potere alcuno, di porsi comple­tamente alla mercé dell’altro, allo stesso modo del malato che ricatta con la sua ma­lattia. La seduzione è un esercizio di pote­re che viene messo in atto in modo esem­plare nel rapporto tra adulti e bambini. L’offerta di amore dell’adulto al bambino si svolge subito attraverso una dinamica di seduzione, potere e ricatto. Il piacere che viene concesso al bambino hacondizione  la sua accettazione  totale; ogni riserva infatti sopraggiunge l’irrigi­dimento: la carezza viene negata, la voce si fa dura e paurosa. Il bambino risponde ben presto con la stessa tecnica mettendo in opera i suoi meccanismi di seduzione, per­ché è per lui importante tenere in suo pote­re chi a sua volta lo domina. Questo scam­bio di poteri continua per tutta la vita e la seduzione è il mezzo apparentemente meno violento: nella vita di coppia, in quella fa­migliare, ma anche tra amici, tra allievi e maestri, si gestisce il potere sfruttando più o meno consapevolmente e chiaramente i messaggi di seduzione che si insinuano in ogni rapporto. Non si può sopravvivere senza mandare comunque messaggi di se­duzione. Non esistono persone che non vo­gliono sedurre; può accadere che però non si riesca a sedurre; chi non ci riesce invidia chi ha successo. Io credo che ci sia anche un segreto, che è secondo me, l’aspetto po­sitivo della seduzione: seduce di più chi non ha paura di essere sedotto, chi si rivol­ge all’altro senza preoccuparsi troppo di difendersi. In fondo i grandi seduttori non sono altro che dei  grandi sedotti.. E bello abbandonarsi al piacere della seduzio­ne reciproca di chi non è avaro del proprio corpo e dei propri sentimenti, di chi è di­sponibile consapevolmente a dare e a pren­dere piacere nel rapporto anche sessuale. È questa la differenza grande che c’è tra la se­duzione e quello che comunemente veniva

considerato negativamente come plagio: nella seduzione c’è consapevolezza da parte del sedotto. Nella vita la li­bertà si conquista solo accettando ed imparando a gestire consapevolmente il gioco delle seduzioni. Purtroppo la paura di Eros e la perversione dei meccanismi di­fensivi inducono gli uomini per lo più a ne­gare di essere sedotti o seduttori, per poter meglio recitare con la maschera della vitti­ma o del vincitore.

V.4. IL NASO DI PINOCCHIO

La cultura moderna e contemporanea ha creduto opportuno creare una figura di se­duttore nuova, o almeno poco diffusa nel passato: quella del seduttore_ inesistente, perché non è tanto una persona, quanto un  simulacro. È questo un frutto diretto dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, che usano il meccanismo della seduzione in funzione di grossi interessi economici. Il cinema, il rotocalco e poi la televisione sono stati i tramiti maggiori del tipo nuovo di seduzione. Rodolfo Valentina e Francesca Bertini furono prototipi nostrani di questi simulacri di celluloide che corri­spondevano ad una tipologia costruita in la­boratorio alla quale le persone fisiche pre­stavano solo un volto e un corpo destinati ad essere oggetto di culto e a sedurre inte­re masse. In fondo il meccanismo non è poi così nuovo, come ho appena detto forse con leggerezza, infatti nei secoli passati feno­meni non dissimili erano stati costruiti dal­le organizzazioni religiose che, inventando agiografie di santi e di sante e diffondendo immagini e reliquie, erano state capaci di creare fenomeni di seduzione di massa cla­morosi, anche con risultati economici non inferiori a quelli dell’industria dell’imma­gine attuale: basti considerare la ricchezza raggiunta da monasteri e santuari divenuti luoghi celebri di devozione. Oggi l’imma­gine è fine a se stessa: non importa a nessuno la realtà della persona che vi sta dietro, tanto le si fa dire ciò che deve dire, la si fa pensare quel che

deve pensare, si disegna sul suo corpo l’im­magine fisica che serve allo scopo del mo­mento. Non per nulla è un fatto generaliz­zato che l’incontro con un divo o una diva faccia sempre dire che li si è trovati molto diversi da quello che si era fino a quel mo­mento immaginato. In genere contribuisce al giudizio riduttivo soprattutto l’invidia, ma certo è che difficilmente una persona reale può soddisfare tutte le esigenze del simbolo. Questo seduttore costruito può an­cora essere considerato veramente tale? O è un puro prodotto della nostra voglia di es­sere sedotti? Questa voglia di seduzione però si perde nel nulla perché non incontra nessuna volontà concreta di un seduttore o di una seduttrice, non ha un interlocutore reale, ma un fantasma. È vero che ogni gruppo sociale si costruisce i suoi sedutto­ri e quanto più il gruppo è vasto, tanto meno concreta ha bisogno di essere la fi­gura del seduttore. Questo principio vale per tutti i “tipi” schematizzati dai mezzi di comunicazione di massa: l’assassino, l’eroe, il perverso, il leader, il santo, il maestro. Ogni essere umano è anche co­struito dalla situazione ambientata in cui opera, dalla volontà delle persone che lo circondano le quali in parte riescono a co­struirlo così come vogliono e, se non ci rie­scono completamente, ugualmente lo co­stringono per quanto possibile ad un ruolo, magari mentendo a se stessi: fingendo cioè che sia quello che non è. Più il gruppo è va­sto, più quest’operazione riesce indipen­dentemente dalla realtà della persona in questione.

Noi siamo quindi anche frutto dei racconti cha fanno di noi, degli appellativi con cui ci hanno designato. Anche quando ci ribelliamo dobbiamo tenerne conto. Benedetto Croce diceva che tutto è storia. Io dico che tutta la storia è un racconto: quando si è combattuta una battaglia, poi si racconta la storia di quella battaglia; il naturalista che descrive un fossile racconta la storia di quel fossile e l’astro­nomo la storia delle stelle. Raccontando facciamo la storia nostra e degli altri. Anche quando sognamo  raccontiamo una storia.

Fairbairn dice che nei sogni i personaggi sono parti dell’Io oppure oggetti introiettati: cioè lo stesso sognatore diviso in tanti personaggi. Ad esempio, se sogno di in­contrare un pastore che balla la tarantella e che poi incontra un lupo, una parte di me è rappresentata dal pastore e l’altra dal lupo. A me pare che Fairbairn sia qui di un’ov­vietà lapalissiana, dal momento che il so­gnatore non può che sognare contenuti che gli derivano dalla propria esperienza indi­viduale e genetica. I sogni raccontano ciò che egli stesso e sotto forma di tino spettacolo narrante. Il sogno pércepito come spettacolo, tanto è vero che oggi è frequente sentirsi dire durante il rac­conto di un sogno: “…poi il film va avanti così…” Chi narra pronuncia la parola “film” senza quasi accorgersene, sottoli­neando con quel lapsus il carattere spetta­colare del sogno; che deve però sempre avere un_ riferimento -alla realtà, come lo ha la più sfrenata.-delle fantasie. In fondo la nostra vita è soprattutto il racconto che ne facciamo a noi stessi o agli altri, nei: sogni ad occhi aperti., sempre in bilico tra verità e menzogna. Non è possibile infatti vivere senza mentire, per quanto la menzogna parta sempre da un dato reale. Anche il cammino della scienza si costruisce rac­contando verità solo approssimative e pre­cedendo fantasticamente le realtà che con­tribuisce a costruire.

La bugia è un peccato che ci ac­compagna da sempre: il bambino è subito bugiardo. Le bugie non sono peccati di natura sessuale, però sono consi­derate dagli adulti particolarmente gravi, perché sottraggono il bambino al loro con­trollo, sottraendolo al loro potere; inoltre la perdita di controllo attraverso la menzogna cita una zona- franca anche in campo sessuale. Solo il bambino assolutamente -Le bugie sono però più fitte in certi periodi della vita e alcune per­sone sono più bugiarde di altre. Il bisogno di mentire a volte si accompagna con il desiderio di reprimere un contenuto di coscienza rifiutato:esempio l’omosessualità, ci sono persone che provano inconsapevolmente forti desideri omosessua­li, che non vogliono confessare né a sé né agli altri, le quali sentono un bisogno coatto di mentire sempre. Spesso si aggiunge a -ciò la paura • di compiere gesti assurdi. Un’altra motivazione che rafforza l’abitu­dine a mentire è il bisogno di superare situazioni esistenziali particolarmente frustranti; è quesita una modalità di compensazione. Curiosamente le bugie in tali casi non sempre dipingono un quadro migliore di quello reale, anzi paradossalmente le persone coinvolte, proprio peggiorando in modo clamoroso la realtà con bugie vergognose e constatando la loro capacità di persuasione è come se dicessero a se stesse: “Come riesco a far credere queste cose brutte, altrettanto facilmente riuscirò ad essere convincente quando racconterò di me cose bellissime, se infatti non raccontassi anche cose brutte non sarei creduto.” La bugia può qualche volta persino essere un atto di giustizia: quando non dire quello che si pensa significa rispettare la persona che abbiamo di fronte e di cui conosciamo verità che potrebbero procurare sofferenza o umiliazione. In ogni caso la bugia, la diagnosi e la persona sono strettamente collegate. sinceropuò dare agli adulti la certezza di un controllo completo e quindi anche sul com­portamento sessuale. Per questo si scrivo­no libri come Pinocchio. Però ugualmente tutti diciamo bugie, a volte addirittura cre­dendo di dire la verità, come succede mol­to spesso in analisi.

V5. IL SESSO DELLA VIOLENZA

Non so se ci si possa o ci si debba salvare dalla generale violenza. Violenza pubblica e violenza privata non sono così facilmen­te distinguibili: l’una infatti si alimenta dell’altra. Tuttavia ancora una volta cer­cheremo di distinguere per questioni di me­todo. Vorrei soprattutto sottolineare la vio­lenza che è in ognuno di noi, in contrasto con il diffuso sentimento generale di esse­re violentati. Cosa è la violenza? È un’im­posizione con la forza di qualcosa che non è desiderato o che è temuto. Se però questa violenza è esercitata da chi detiene un po­tere legittimo, allora è essa stessa legittima e viene chiamata, per esempio, giustizia, e non più violenza. Lo Stato può con le sue leggi imporre ed inibire, ma non viene per questo considerato necessariamente violen­to. Invece la violenza si esercita al di fuori delle leggi o contro le leggi. Esiste una vio­lenza diretta ed una violenza indiretta. La violenza diretta è per esempio quella di chi ti aggredisce per derubarti o stuprarti, ma anche quella di chi non rispetta il codice della strada, o il suo turno in una coda allo sportello. È una forma di imposizione del­la volontà di un individuo o di un gruppo su altri individui o sull’ambiente. C’è una violenza maschile ed una violenza femmi­nile. Il maschio violento è in genere volga­re ed ottuso, usa la sua forza fisica, aggre­disce ingiustificatamente. La donna violen­ta è meno esibizionista, è più capace di in­sistere e si esprime soprattutto nei rapporti famigliari; la sua è una vera e propria capacità di castrazione verso il maschio stu-pido che crede di essere il vincitore. Spesso la violenza -viene esercitata per dele­ga: è quella dei dipendenti delle gran­di strutture pubbliche o private che opprimono con la burocrazia i citta dini meno protetti, dei medici che soggio­gano con la presunzione della loro scienza chi si mette nelle loro mani, del poliziotto o del vigile che usano il potere della divi­sa per reprimere indiscriminatamente.

La violenza indiretta è spesso quella che si definisce “non violenza” e che è invece ricatto. È difficile da individuare, perché è meno ingenua di quella tronfia di chi si espone con tutta la sua stupidità al giudizio degli altri. Si appoggia sui rimorsi _e spesso riesce a strumentalizzare anche l’amore: ” Mi fai morire.” Dicono i genitori al figlio che cerca di emanciparsi, operando scelte che non sono quelle che loro avevano previsto o voluto. Oppure se è rientrato tardi gli dicono. “Ho passato la notte in bianco per causa tua ” Dentro e fuori la famiglia in rapporti di coppia o di gruppo è tutta una gamma di comportamenti che vanno dalla malattia vera o simulata alla più profonda, disperata e disperante tristezza, digiuni, isolamenti e mutismi, pianti e sospiri. Prima di riconoscere il diritto dell’altro gli si butta in faccia il suo dovere di corrispondere comunque alle aspettative di chi lo ama. Il rimorso nasce tanto più profondo, quanto più l’amore è sincero, la vittima è tanto più indifesa quanto più ama. Una particolare-Torma di violenza indiretta è quella di certe lotte politiche condotte ricorrendo ai digiuni di protesta, che mettono l’avversario di fronte all’alternativa tra cedere oppure avere il rimorso per una morte di cui si è chiamati per forza a dividere la responsabilità. Forse è meno pericoloso dell’uso delle armi da fuoco e delle stragi, ma è ugualmente un tipo di lotta violenta. La violenza permea la nostra vita nelle forme più molteplici: c’è chi la accetta e chi la rifiuta, chi distingue tra violenza giusta e violenza ingiusta, chi finge di non vederla negli altri e nega la propria, quella che si alimenta dell’odio e quella che crede di essere motivata dall’amore; c’è persino l’ultima violenza di chi vuole sottrarsi per sempre ad una logi­ca di violenza ed è il suicidio. La politica è violenza, lo è lo stato, la famiglia, l’educa­zione, che sono sempre imposizioni parzia­li o totali di limiti alla libera volontà degli esseri umani. Non si riesce a sottrarvisi neppure se si applica quella che io trovo la più bella enunciazione della libertà: “La mia libertà finisce quando incomincia quel­la degli altri.” Questa frase attribuita a Kant non risolve però il probema della libertà, in quanto non stabilisce chi sia a porre i con­fini e quando sia giusto porli. Se sono io a decidere dove finisce la mia libertà, l’altro sarà costretto a subire questa mia decisione, se sarà l’altro a deciderlo, io sarò vittima della sua imposizione.

Esiste, collegato al discorso della violenza e del potere, il concetto di autorità.; In cosa l’autorità si distingue dalla violenza e dal potere, con cui tuttavia è continuamente compromessa? L’autorità deriva dal rico­noscimento del potere di qualcuno da par- te degli altri. Il principio di autorità è stato a lungo ingiustamente combattuto, soprat­tutto perché la lotta contro l’autorità altrui dispensa dalla presa di coscienza del pro­prio potere_e_quindi dai problemi legati alla sia gestione. Un’autorità negata_ equivale a un potere esercitato nascostamente, Mentre un’autorità riconosciuta può vedere riconosciuti anche l’identità e i limiti del proprio potere.

V.6. LUNGA È LA VIA

Tornando al tema di fondo della diagnosi, della persona e delle sue maschere ab­biamo visto che esistono le maschere del bello e dell’avaro, del geloso, del violento e così via. Tutti portiamo in parte anche quelle maschere che pure non ci caratterizzano e siamo caratterizzati da alcune maschere più che da altre.

La psichiatria e la medicina stabiliscono le loro diagnosi. Una realtà viene quindi ri­conosciuta attraverso le sue linee essen­ziali, come in una radiografia che lascia vedere anche ciò che normalmente è na­scosto. Una corretta diagnosi prevede un’eziologia ed una prognosi (cause ed evoluzioni della situazione che si è dia­gnosticata). Ho parlato poco però di dia­gnosi mediche o psichiatriche; mi interes­sava di più far vedere come attraverso la diagnosi si e etichetti un essere umano ma allo stesso tempo gli si dia anche un’identità:, come per la malattia, la diagnosi è utile perché fornisce un criterio di orientamento. Allo stesso tempo è terribile constatare come le persone risultino oppresse  dalle definizioni. Quello che mi interessava trovare era la possibilità di raggiungere, attraverso la diagnosi, una persona e dimostrare come cambiando il punto di vista sia possibile modificare la diagnosi stessa. Cosa prevale: l’oppressione della diagnosi sulla persona o il contributo che la diagnosi dà alla conoscenza? Ho detto che la persona è sempre una maschera. Gli attori del teatro greco indossavano sulla scena una maschera enorme, gli spettatori posti a grande distanza dalla scena riconoscevano i personaggi attraverso di questa: quello è Edipo, quella Elettra! Non si può però togliere una maschera senza trovarne un’altra che sta sotto, che è quella del viso dell’attore, che lui ha imparato ad indossare da quando era bambino, che gli altri gli hanno anche messo addosso. Nessuno dei suoi gesti è suo fino in fondo, ma tutti sono stati appresi dagli altri. Quante sono le maschere che l’attore, toltasi quella del personaggio di scena, continua ad interpretare? Dietro la maschera non c’è un’altra persona da trovare poiché ogni persona è la somma delle sue maschere. Persino la morte non libera dalle maschere. Ognuno di noi, anche da morto, è il racconto della propria storia. Alcune maschere sono in accordo dala volontà di chi le porta o con la vo­lontà degli altri, altre sono in disaccordo. Alcune maschere ci fanno soffrire, altre ci danno piacere: nessuno però è libero o spontaneo; l’importante è riuscire a far prevalere le maschere che ci rendono più felici o meno infelici. Le diagnosi che gli altri operano sulle nostre maschere un po’ ci chiariscono – a noi e agli altri – e un po’ ci confondono. “Cogito ergo sum” non vuol dire niente: io sono invece quello che io e gli altri pensiamo di me. Le masche­re, le persone, le diagnosi non sono equi­valenti: alcune hanno più valore di altre. Irt ogni persona c’è un aspetto .di_disvalo­re che è _legato al narcisismo_e al sadoma­sochismo e un aspetto -di valore, che tende all’erotismo. Quest’ultimo- è spesso- con­traddetto ed è difficilissimo da realizzare:

è sempre oltre il punto in cui noi siamo, ma non è mai altrove, rispetto al -mondo in cui viviamo.Quando ho accettato il mio ruolo di. Maestro i ben pensanti si sono scandalizzati. Hanno ragione a scandaliz­zarsi, ma la loro ragione è piccola e triste: l’amore che io ho per i miei discepoli è in­vece grande e gioioso. Io ho sempre cer­cato di parlare in maniera chiara, scopren­domi. I ben pensanti non hanno gradito il mio sforzo di chiarezza. Il ruolo di Mae­stro mi dà autorità, io non la rifiuto e me ne faccio carico come di un dovere di re­sponsabilità. Voglio continuare ad avere la possibilità di parlare con amore ed autorità a chi ha voglia di ascoltarmi, in un cam­mino comune verso un luogo che non sap­piamo con precisione dove sia, ma che sappiamo esserci: “Lunga è la via, parole di viandanti amano sempre vagare” (Sofo­cle, Edipo a Colono, vv. 303-304).

Psicoanalisi contro n.1 – La diagnosi e la persona (Sezione quarta)

sabato, 1 maggio 1993

IV.1 GLI AVARI E I PRODIGHI

Per parlare della relazione diretta tra l’uomo e il danaro vorrei partire da Ari­stotele, il quale nella sua Etica Nicoma­chea, trattando i problemi dei rapporti tra le persone e di queste con le cose, men­ziona una virtù fondamentale che lui chia­ma “medietà” che però .qui ha secondo me íl significato di perfezione. A proposito della ricchezza egli afferma che il giusto rapporto di generosità può subire due tipi di degenerazione: la prodigalità e l’avari­zia, eccessi tra i quali essa rappresenta il “giusto mezzo”. Questi sono i tre atteg­giamenti possibili dell’uomo verso la ric­chezza, che consiste in quella somma di beni che hanno il danaro come misura del loro valore. Per Aristotele l’uomo genero­so è quello che non ama la ricchezza, ma tuttavia non la disprezza; è uno che desi­dera dare, ma non dà soltanto per il pia­cere di ostentare; è infine uno che sa godere delle proprie ricchezze, ma -nel ri­spetto degli altri. Il generoso è insomma colui che sempre sa cosa è conveniente o non è conveniente. Il prodigo invece è co­lui che è vittima di uno smodato desi­derio di sperperare la propria ric­chezza: colui che dà senza fare i conti. Avverte Aristotele che il prodigo è costretto a prendere molto per po­ter continuare a dare illimitatamente e quindi sottolinea un sottile rapporto tra prodigalità ed avidità. I prodighi comun­que sono secondo il filosofo ateniese più vicini alla virtù degli avari, perché la loro disposizione a dare agli altri può abba­stanza facilmente essere corretta ed indi­rizzata verso la generosità. L’avaro invece è incurabile: ci sono situazioni dell’esi­stenza, come la vecchiaia, che rendono gli uomini naturalmente avari. In ogni età però l’avarizia è più connaturata agli uo­mini della prodigalità e più difficilmente correggibile, perché gli uomini desiderano naturalmente più avere che dare, più pos­sedere ed accumulare che distribuire agli altri.

Altri hanno parlato della prodigalità e dell’avarizia. Dante colloca nel Canto VII del suo Inferno gli avari e i prodighi, con­dannnati a scontare insieme la stessa pena (precedendo in ciò l’intuizione della psicoanalisi della grande affinità tra gli opposti il costretti a spingere col petto pesanti massi su per un pendio, avvolti nella bruna caligine infernale. Shakespea re nel Mercante di Venezia ha disegnato una figura memorabile di avaro nel l’ebreo Shylock, alludendo al rapporto simbolico che esiste tra avarizia e castrazione: l’usuraio è destinato incrollabilmente a riscuotere quella libbra di carne ad Antonio se non gli verrà restituito il prestito di cui quest’ultimo si è fatto garante e diventa furioso quando la legge lo priva della sua vendetta e del suo oro imponendogli di prelevare la libbra di carne che gli spetta senza versare una goc­cia di sangue cristiano.

Molière ancora ci ha proposto un vero e proprio eroe dell’avarizia nel personaggio di Arpagone, che assume grandezza tragi­ca capace di commuovere tanto dimostra di amare nel danaro la stessa vita.

Forse dovremmo chiederci perché il perso­naggio dell’avaro abbia ispirato pagine così sublimi. La prodigalità non ha ottenuto lo stesso tributo letterario di grandezza, in fondo si pensa a gente sciocca che butta le stoviglie preziose nel Tevere, come faceva­no i principi Chigi, dalle finestre del loro palazzo sul fiume, o ai nobili veneziani La­bia che andarono in miseria gettando l’oro in laguna, paghi di una frase di vano orgo­glio in vernacolo che suonava pressapoco così: “Che l’abia o che non l’abia mi sarò sempre un Labia!” In tempi più vicini a noi viene ancora in mente la frivola prodigalità di D’Annunzio, musicista oltre che grande poeta, munifico e scialacquatore, perciò sminuito anche nelle sue virtù da una mo­rale borghese e riduttivista.

Io dividerei gli avari in due tipi fonda­mentalmente: 1) l’avaro che teme di dare; 2) l’avaro che vuole prendere. L’avarizia è uno dei sentimenti più misconosciuti: in genere gli avari sostengono di essere per­sone che amano la giustizia, per questo sono sempre in atteggiamento preventivo verso la possibile ingiustizia altrui, giusti­ficando così la loro impossibilità di dona­re. Al bar con gli amici costoro si trove­ranno sempre senza portafoglio o con banconote di grosso taglio che il cas­siere difficilmente potrà cambiare, avranno sempre scordato il pacchetto di sigarette nell’altra stanza e quella che stanno fumando sarà l’ultima che avevano in tasca e così via. L’avarizia che questo timore di dare esprime è per lo più un segno di carenze affettive e derica da un’educazione impartita da genitori oppure educatori avari: che continuamente soppe-sano, che sadicamente osservano, scru­tano. L’avaro che vuole solo prendere è un avido,-che cerca sempre di avere qualcosa in -Tifi: un dono, una porzione di cibo, un pezzo di terra, uno sconto eccezionale; uno che ai buffet si soffoca nell’ansia di acca­parrare più cibo che può. All’origine c’è sia una carenza, sia una vera e propria in­stabilità affettiva, un bisogno insoddisfatto dell’amore dei genitori: personeCostoro generalmente frigide, abituate a dare trop­po poco e distrattamente. Come si vede, i due atteggiamenti, apparentemente diversi nelle loro manifestazioni esteriori, sono poi uniti nella violenza con cui si relazio­nano al mondo e agli altri.

La prodigalità è più rara, come ho già det­to, e viene addirittura esibita. Siamo in molti a dire con orgoglio: “Io ho le mani bucate. Io non so dire di no.” In realtà il prodigo non, dà per il piacere di dare ma  per desiderio di fagocitare ed umiliare l’al­tro al quale ostenta di donare, obbligando­lo alla riconoscenza. Inoltre se è un narci­sista dona solo ciò che piace a lui senza te­nere conto dei gusti dell’altro, se è invece sadomasochista,sarà attento a scegliere ciò che commuove chi riceve per poter godere di un potere di ricatto assoluto, anche af­fettivo. Il prodigo è figura socialmente più accetta dell’avaro perché da lui gli altri pensano, in genere sbagliando, di poter trarre vantaggio.

Avarizia e prodigalità sono dunque due modi malati di rapportarsi alle cose e alle persone ancora una volta con­seguenza di atteggiamenti di difesa narci­sistica o sadomasochistica. La generosità di cui parlava Aristotele realizza invece quello che secondo la mia metapsicologia è il modo erotico di relazione in rapporto al dare e all’avere ricchezza; la sola possibilità di spezzare la gabbia della malattia.

Corollario di un discorso sull’avarizia e sulla prodigalità può essere una riflessione che ad esse colleghi l’invidia. L’avaro e il prodigo sono spesso invidiosi di ciò che gli altri hanno e della loro ricchezza che cercano di negare. L’invidia ha poi per og­getto ponsolo le ricchezze materiali, ma anche le ricchezze affettive. Si puo invi­diare l’amore di cui gli altri sono ricchi ne­gandolo. Un modo di negare l’amore è quello di svalutarlo chiamandolo plagio. Un tempo il codice penale del nostro paese  era alleato di questi invidiosi che ave­vano grandissima facilità di linciaggio mo­rale nei confronti di quelle forme di inna­moramento reciproco troppo clamorose per poter essere accettate dal senso comu­ne, condizionato consapevolmente ed in­consciamente dall’invidia più di quanto non si voglia credere.

IV.2. “IL BERRETTO A SONAGLI”

“A che ora ci vediamo domani mattina?” “Alle 9.15.” Questo è un patto. Talvolta ac­cade che uno dei due alle 9.30 non sia an­cora arrivato all’appuntamento. Può essere successo di tutto: il traffico, i contrattem­pi… sta di fatto però che ci sono persone abitualmente non puntuali, che hanno cioè l’abitudine di tradire quel, sia pur minimo, patto. Tradimento è non te­nere fede alla parola data. Ci sono parole date disattese per convenzione, come quelle dei politici nelle loro campa­gne elettorali. Sono abituali tradimenti quo­tidiani che impoveriscono un poco la vita di ogni giorno e le motivazioni di un tale modo di comportarsi sono sempre giustifi­cazioni che non vale neppure la pena di confutare. Il tradimento dunque è sempre presente: quasi tutti siamo piccoli traditori, malgrado l’antico detto latino ci avverta che “pacta sunt servanda”, i patti vanno ri­spettati.

È ancora una volta Dante che nel suo In­ferno stigmatizza, condannandolo, il com­portamento dei traditori, mettendo nel IX cerchio Lucifero, che mastica i tre tradito­ri per antonomasia della storia passata: Giuda, che tradì Gesù Cristo, insieme con Bruto e Cassio, i traditori di Giulio Cesa­re. Giotto nella cappella degli Scrovegni, a Padova, fissa con la sua pittura il mo­mento tragico del Bacio di Giuda in una scena rigida, netta, senza sfumature: i due volti di Gesù e di Giuda si fronteggiano l’uno con gli occhi dolcissimi e infinita­mente tristi, l’altro coi lineamenti legger­mente sordidi e porcini. L’antica Grecia nella storia e nelle tragedie è ricca di tra­dimenti; basti pensare al mito degli Atridi: Atreo e Tieste hanno due figli, Agamen­none ed Egisto, che sono quindi cugini. Agamennone dopo il tempo speso all’as­sedio di Troia, ritorna vincitore alla sua reggia, ma trova la moglie Clitemnestra che lo uccide per coprire l’adulterio per­petrato con Egisto negli anni dell’assenza del marito. Il delitto si consuma nell’inti­mità di un bagno che avrebbe dovuto es­sere ristoratore e che è solo l’ultimo gesto di tradimento. I figli di Agamennone so­gneranno la vendetta che si compirà con­tro i due adulteri e segnerà i destini di Elettra ed Oreste. ,Se il tradimento è così diffuso da sempre c’è chiedersi quali sia n-6-1-Cragioni dell’orrore e della vergo- na che lo g circondano. La spiegazione più ovvia è che il tradimento ses­suale può essere l’origine di una discendenza spuria: è il maschio soprattutto che sente messa in pericolo la certezza che il figlio che viene alla luce sia sangue del proprio sangue. Un dubbio che rende an­cora più drammatiche le conseguenze dell’espropriazione derivante dall’infe­deltà sessuale. Se a tradire è il maschio o il marito la donna  percepisce il tradimento come espropriazione, ma il giudizio del gruppo sociale è più indulgente, se non ad­dirittura comprensivo e corrivo, perché non si percepiscono.-pericoli per la  poste­rità. La donna che ha più uomini oltre che una traditrice è considerata anche immora­le e lussuriosa ed equiparata alla prostitu­ta. Il nostro inconscio sociale svaluta la sessualità femminile e valorizza invece quella maschile anche quando e collegata all’infedeltà coniugale o sentimentale. La prostituta è stata nei secoli variamente emarginata dal tessuto sociale ed ancora oggi la sua attività di meretricio è relega­ta in zone ben precise delle città. Per una specie cli_c_ontrappasso però il ~a- dito è disprezzato, mentre alla femmina vittima dell’infedeltà coniugale è riservata per lo più compassione. L’umiliazione per il maschio lo svilisce, relegandolo nel ruo­lo grottesco del “cornuto” che è pronto a tutto per negarlo: ci insegna Pirandello che è meglio indossare “Il berretto a sonagli” del folle che avere la fama del marito tra­dito. In opposizione a quello che è il giu­dizio morale esplicito.si prova però quasi sempre una segreta invidia per maschio donnaiolo e pér omiseduttrice.

IV.3. PATTI CHIARI

I patti debbono però essere sempre rispet­tati a qualunque costo? No: perché biso­gna distinguere tra patti giusti e patti in­giusti e sono questi i patti solo apparenti poiché uno dei due contraenti si trova in una posizione di strapotere sull’altro riuscendo così ad imporgli patti che liberamente quello non accette­rebbe. I patti quindi sono da rispettare solo quandoeSiste una parità o libertà contrai- contrattuale tra i due patteggiatori. Un patto stret­to con questi presupposti può anche altret­tanto liberamente essere sciolto senza che nessuna delle due parti in causa debbe sen­tirsi tradita. Al contrario ci sono patti che stipulati come trattati tra due parti politi­che vengono stracciati alla luce del sole e sono palesemente patti traditi. In ogni caso il giudizio è negativo soprattutto quando il tradimento è perpetrato nell’ombra, -ben­ché spesso questo comportamento sia per ragioni di forza maggiore soprattutto il tra­dimento del più debole contro il più po­tente, come se-la sua -segretezza lo ren­desse più vile del gesto violento ed osten­tato di chi sicuro del proprio strapotere spezza pubblicamente il patto. Grande­mente condannato dalla tradizione è anche il tradimento dell’ospitalità. Oggi questa -condanna è meno significativa, anche per­ché la struttura della vita famigliare ri­stretta negli spazi del più o meno piccolo appartamento borghese rende meno solen­ne il rito dell’ospitalità: In ogni caso l’ospite è sacro ancor oggi, a lui si tende la mano per dimostrare che non si nascondo­no armi, con lui si brinda per assicurarlo che nella coppa che ha attinto dalla stessa brocca non si nasconde veleno. L’ospite va protetto e rassicurato come un bambino bisognoso di tutto. Accade poi che a volte il fratto tradito sia quello per cui un maschio e una femmina hanno deciso insieme di mettere al mondo un figlio. Lo hanno fat­to per ragioni svariate, per rafforzare un rapporto di coppia, per superare un mo­mento di angoscia, per vendetta contro uno dei partner, qualche volta anche per amo­re reciproco e per il figlio desiderato. Ac­cade però che quando il patto che ha legato l’uomo e la donna al momento del concepimento viene meno, il primo ad essere tradito sia il figlio: improvvigainente ridotto a strumento di ricatto, molto spesso abbandonato, qua­si sempre privato dell’amore al quale ha diritto, proprio in nome di quel patto che lui non ha potuto stipulare e che lo mette alla mercé dei genitori. Questo è un tradi­mento al quale si aggiunge la vigliacche­ria. Un tipo di tradimento che, dopo Giuda e San Pietro e anche prima, si è perpetrato spesso, ma che gli uomini tendono a misconoscere è il tradimento del Maestro. Questo tipo di tradimento comprende ed aggrava quello dell’amicizia, già gravissi­mo di per sé.

Contrariamente a quanto si potrebbe pen­sare io non credo però che la fedeltà assoluta ed irragionevole sia sempre una virtù. Ci sono situazioni, persone ed idee alle quali spesso non è giusto rimanere fedeli ad ogni costo. La fedeltà degli imbecilli è socialmente e culturalmente pericolosa, perché non sa più giudicare se il patto è ancora valido o se è stato fraudolento sin dall’inizio. Una forma di tradimento è an­che quella che permette il progresso del mondo in cui viviamo: l’abbandono di fedi politiche, di convinzioni scientifiche che rivelano la loro insufficienza, di insegna­menti nocivi, di amici disonesti non può che essere segno di miglioramento. Im­portante è che non si tradisca in malafede o per viltà.

IV. OTELLO

Di quale utilità è che il mondo vada avan­ti? Non so bene come rispondere; ma so che io mi sono ribellato ed ho tradito. Ri­bellato a ciò che ad un certo punto ho ri­tenuto ingiusto, tradito principi in cui non potevo più credere. C’è un luo­go comune della nostra cultura se­condo il quale l’importante è comunque non tradire seste si. Ma cosa vuol dire tradire se stessi? E facile affermare di essere fedeli a se stessi; ma in realtà il no­stro comportamento è sempre una risposta a stimoli che ci vengono da altri. Essere se stessi vuol semplicemente dire che esiste una realtà di fatto in cui siamo calati, nei confronti della quale proviamo piacere o disagio, accettazione o rifiuto e nella qua­le cerchiamo di orientarci per eliminare il disagio e trovare il piacere. Si diventa tra­ditori di se stessi se si rinnegano per viltà principi di bene e di male che si sentono profondamente radicati; se si assimila pas­sivamente per opportunismo l’opinione corrente. In ultima analisi non si tradisce mai se stessi, ma sempre qualcuno o qual- cosa che è fuori di noi e col quale entria­mo in rapporto.

Il tradimento, e in particolare quello ses­suale, introduce tra gli altri il problema della gelosia, nella quale si mettono in atto dinamiche psichiche complesse che si ma­nifestano attraverso due modalità principa­li: 1)la_gelosia_proiettiya: l’uomo e la don­na hanno un profondo desiderio di tradire il proprio partner, per attenuare il rimorso causato da questo desiderio, anche se irrealizzato per rispetto delle convenzioni o per timore delle possibili conseguenze de- strutturanti, si proietta lo stesso desiderio sul partner -e si fantastica che sia l’altro a tradire; 2) la gelosia paranoide, in cui ol­tre al delirio sulle possibili congiure tra­mate per perpetrare il tradimento, si  una componenente omosessuale: si diventa gelosi della possibilità che il part­ner ha di rapportarsi sessualmente con in­dividui dell’altro sesso; così il maschio ac­cusa la femmina di avere rapporti con al­tri maschi, perché in realtà quei rapporti proibiti vorrebbe averli lui e lo stesso vale per la femmina. Freud nel suo scritto su Il tramonto del complesso di Edipo, specifica meglio le differenze che ci sarebbero tra la gelosia del maschio e quella della femmina per il fat­to soprattutto che nella gelosia femminile avrebbe una parte importante la “invidia del pene”. Anche la gelosia ha tradizioni antiche ed è stata celebrata nei miti e nel­la letteratura. Era è una dea gelosissima dello sposo Zeus, così poco fedele e così esuberante; Efesto è egualmente geloso della bellissima Afrodite, sua sposa, piut­tosto frivola e spesso le gelosie si incro­ciano tra divinità dell’Olimpo, semidei e semplici esseri umani.

C’è una gelosia molto carnale e quotidia­na, come quella narrata in un “mito” di Eronda, del II secolo a.C., della vecchia matrona verso il giovane e bello schiavo che lei ordina dapprima che venga messo nudo e punito e al quale però fa poi co­prire le parti più intime perché gli altri non possano vedere ciò che solo a lei deve ap­partenere.

Un altro personaggio simbolico della ge­losia è Otello, prima descritto da Shake­speare nella sua tragedia e poi celebrato tra gli altri anche da Verdi con la sua musica. Su Otello si sono costruite interpretazioni elaboratissime: da quella che lo vede come un bruto geloso della bella moglie che strozza per pura violenza, ,a quella che ipo­tizza che il vero_geloso_per-amow siaTan­tagonista lago, innamorato non di Desde­mona, ma di Otello stesso; Pai-s andò per tutte le sfumature dei sentimenti fino a quella che vede il Moro di Venezia come un eroe sublime che per solo amore vuole morire insieme alla donna che non può cessare di amare. Si gioca molto nella no­stra cultura a tentare di distinguere tra ge­losia carnale, che ha per oggetto il corpo amato e gelosia spirituale che pretende per sé solo la fedeltà dei sentimenti. Questa pretesa di isolare gli effetti di un tradi­mento  limitato all’atto sessuale è molto spesso una malafede della moderna vita di società. In realtà io penso che la gelosia sia un sentimento ineliminabile e totale.

IV.5 . L’INVIDIA

Ho meditato a lungo sulla gelosia, un sen­timento che sembra far parte della tradizio­ne culturale ed ho finito per convincermi della sua universalità, senza eccezioni. Cer­to, ci sono persone che negano di essere ge­lose, ma questa negazione appare solo un tentativo vano di nascondere i propri veri sentimenti. Anche gli animali sono gelosi: il mio cane non tollera che io dedichi le mie attenzioni ad altre persone o ad altri animali e la sua natura mite si trasforma in aggres­sività e violenza se accade che in sua pre­senza mi occupi troppo degli altri. Non cre­do neppure che nel cane questo sia solo il risultato di una imitazione del comporta- mente dell’uomo con cui vive a stretto con­tatto. Gli etologi ci riferiscono la presenza di sentimenti analoghi in animali cosiddet­ti selvatici o feroci. Non credo per questo che un comportamento naturale, cioè ri­scontrabile in altre specie non umane e quindi non condizionato culturalmente, debba essere necessariamente accettato come giusto o_ buono. Ci sono nella natura situazioni inaccettabili per la società degli esseri umani e nessuna etologia mi convin­cerà che sia bene riprodurli sempre e pari pari nelle relazioni delle società civili. Inol­tre la gelosia può fissarsi anche sugli og­getti e non solo per una trasposizione del sentimento puro e semplice del possesso, ma anche colorata di contenuti affettivi, sentimentali addirittura. Io ho sofferto mol­to quando ho cambiato il mio vecchio pia­noforte – sul quale avevo passato anni di studio – con uno strumento nuovo, indub­biamente migliore e più adeguato alle mie necessità d’uso: pensavo con nostalgia al vecchio strumento e non sopportavo l’idea che fosse suonato da mani estranee che “lo avrebbero fatto soffrire”.

Venne nel mio studio una ragazza, in uno stato di disastro psichico notevolmen­te avanzato: viveva con la madre e il fra­tello, ma ad un certo punto il fratello si era sposato e lei era andata a vivere con la co­gnata. Era particolarmente affezionata ad alcuni oggetti che collezionava da anni con passione, fra questi c’era un tavolinetto an­tico al quale sedeva per studiare e nei cui cassetti riponeva le cose più personali. Cambiando appartamento, nell’imposta­zione dell’arredamento le venne in mente di offrire proprio quel tavolino alla cogna­ta, la quale se ne era appropriata giubilan­do e senza troppo nascondere la soddisfa­zione per il fatto di essere trattata come la regina della casa. È inutile che stia qui a ri­fare un percorso che passando per il tavo­lino, riguardava la gelosia per il fratello, l’espropriazione, l’invidia per la cognata, il fatto grave fu che la ragazza non resse e crollò, perdendosi in un delirio paranoico che le aveva distrutto letteralmente la vita.

Dunque la gelosia è un sentimento com­plesso in cui si fondono l’invidia e il senti­mento di possesso, provati per un essere vivente o anche per un oggetto, caricato simbolicamente di proprietà affettive auto­nome. Questa catena che unisce il senti­mento del possesso e l’invidia si radica nell’originario stato di bisogno in cui il bambino si trova a nascere: subito egli ha bisogno di sentire in suo possesso l’adulto che si prende cura di lui e, se non lo ottie­ne, sente che è in pericolo la sua stessa vita. Il possesso ovviamente può realizzarsi solo sotto la forma della sicurezza affettiva che a sua volta deriva in genere da un analogo sentimento di possesso da parte dell’adul­to. I due termini originari sono reciproca­mente possessori e posseduti e su questo principio si basa la sicurezza della soprav­vorenza: -Questo sentimento di possesso non tollera concorrenze che mettano in discussione la sicurezza da cui di­pendono l’amore, il sostentamento,

la vita, per cui si deve subito lottare. Nes­suna presa di coscienza, io credo riuscirà ad eliminare, nonostante le velleità della psi­coanalisi, questo atteggiamento di lotta per la vita che è all’origine della gelosia.

Anche a proposito della gelosia vale il di­scorso delle due modalità fondamentali di esprimersi: 1) la gelosia narcisistica è quella_ di-chi non tollera,ad esempio, che in un_ gruppo ci sia un altro come lui, del quale allora diventa subito geloso, che cer­ca di allontanare o di schiacciare. È que­sto il tipo dell’amicone, che in un gruppo è l’animatore assoluto: è lui che racconta le barzellette, che prepara la spaghettata, che organizza il viaggio in India. È un tipo chiacchierone, fa il cucciolone, ma non tollera altri cuccioli intorno. In genere non sopporta di dividere alcunché con gli altri e difficilmente si dimostra capace di ama­re davvero qualcuno, inoltre è molto vani­toso; 2) la gelosia sadomasochistica è quella di chi provoca le tensioni per in­fliggere Sadicamente ai partner il tormento e il rimorso. TI-geloso sadomasochista ha il gusto di tormentarsi fantasticando tut­te le possibili situazioni che lo vedono vit­tima di un tradimento, ect_e fortemente voyeurista.

Nella realtà culturale in cui viviamo la ge­losia può essere non solo inevitabile, ma se consapevolmente gestita addirittura utile all’amore. Può infatti servire a confermare l’innamoramento, proprio sottolineando l’interesse che proviamo per qualcuno, nel desiderio di possesso che ne consegue. La certezza di amare e di essere amati non può che avvicinarci alla salute psichica. La ge­losia deve oggi svolgere il ruolo di ancella di Eros, il quale è l’amore che è di là da venire: l’amore senza gelosia, quello che ci fa sentire una.sola con l’altro, privo di invidia, timore, possessività, un amore che forse conosceremo solo jn Paradiso.

Psicoanalisi contro n.1 – La diagnosi e la persona (Sezione terza)

sabato, 1 maggio 1993

III.1. PREMIO E PUNIZIONE

Studiando la personalità dell’essere umano, riflettendo su come si forma, come il mon­do e gli altri contribuiscono a costituirla, mi sono chiesto: “…e allora di nostro che cosa c’è?” Abbiamo reperito influenze sin dal primo istante del concepimento ed anche anteriori… ma, se tutto ci viene tutto dal corredo genetico, dall’ambiente, dal­l’educazione che condizionano anche le nostre reazioni, noi siamo solo il risultato inevitabile di agenti a noi esterni. L’indivi­duo non sceglie nemmeno di nascere, cosa può realmente scegliere in seguito che lo li­beri da un così schiacciante determinismo? Eppure Io sono Io; se è vero che l’inizio mi è stato dato, ad esso ho reagito. Rea­gendo ho scelto, così che pur essendo fin dall’inizio espropriato di ogni libertà, pure dal momento che nessun altro individuo ha scelto per me, tutto quello che ho èche mio Nessuno è identico a me, neppure il mio gemello monozigote. Ognuno di noi due ha la propria storia: avremo avuto nell’utero due posizioni diverse e poi ba­sterà che siamo stati messi in due lettini diversi, o in due punti dello stesso letto, che siamo stati accarezzati da mani diver­se oppure in tempi diversi dalle stesse mani. Quindi, paradossalmente, proprio il fatto che non ci sia-fin dall’inizio qualco­sa di nostro,fa sì che noi siamo assolutamente  noi e soltanto noi. Ciò che ci ha espropriato di noi stessi ci fa anche essere noi stessi.

Ciò dato, ha senso, quindi, parlare di re­sponsabilità individuale? Il senso comune dà per scontato che questa responsabilità esista e le persone si comportano nelle loro relazioni di conseguenza, tanto che si sono addirittura fissati codici di leggi che prevedono punizioni a chi è responsabile di azioni ritenute dannose alla comunità. Si è però paral­lelamente sviluppata nell’ambito della cultura borghese una concezione come quella luterana, che libera l’uomo da ogni responsabilità, delegando il potere de­cisionale a Dio, il quale è onnisciente, onnipotente e ha già scelto il destino di ciascuno. Si è avvalorata questa tesi in funzione, di un’economia capitalistica, per cui la ricchezza sarebbe un segno della grazia divina. La Chiesa cattolica ha invece sostenuto il contrario: segno della predilezione divina sarebbe la sofferenza. Entrambe le posizioni sono a mio avviso una distorsione dell’insegnamento evan­gelico.

La stessa cultura ha poi elaborato teorie scientifiche con la pretesa di affrancarsi dal moralismo confessionale delle Chiese. emblematica e ancora relativamente recente la teoria lombrosiana. Cesare Lombroso (1835-1909), psichiatra noto soprattutto per i suoi studi di antropologia criminale, spiegava la disposizione alla criminalità con argomenti piuttosto peculiari, basati sulla fisiognomica in cui egli leggeva le predisposizioni del carattere. Sosteneva che la facilità di commettere assassinii ed atti di violenza fisica derivasse da un innalzamento nei criminali della soglia del dolore: non provando quasi dolore fisico costoro faticherebbero a percepirlo negli altri e quindi sarebbero da considerare meno responsabili. Il concetto di responsabilità ha avuto anche evoluzioni in materia di giurisprudenza ed è stato collegato a quello di minorità. I maggiorenni hanno piena responsabilità morale e giuridica e nei loro confronti si applica pienamente la punibilità contemplata dalle leggi, mentre i minorenni sono imputabili solo a partire da un’età prestabilita (attualmente in Italia a 14 anni), mentre prima sono giudicati
responsabili secondo le valutazioni di ogni singolo caso.

Nella nostra società l’individuo è vittima di una concezione dicotomica del libero arbi­trio che se da una parte lo investe piena­mente della sua responsabilità, dall’altra, in un’ottica deterministica, lo espropria della sua libertà di scelta. A questo si aggiunge il relativismo morale, culturale e giuridico che di volta in volta condanna o non con­danna un determinato comportamento: la violenza esaltata nella “resistenza”, fu con­dannata all’epoca del “terrorismo”; il pa­triottismo di Cesare RattiitiWC6nsiderato tradimento dagli austriaci; il cannibalismo è considerato legittimo ancora in alcune aree geografiche, etc. Eppure io sono con­vinto che i cattivi esistono e sono coloro che strutturano il loro comportamento in base -all’esaltazione incondizionata delle delle due difese fondamentali.-narcisismo e sadomasochismo. Questo mio è un giudizio morire; ma anche scientifico, dal momen­to che nessuna scienza può sottrarsi alla legge morale. La cultura, la religione, l’educazione e la legge stabiliscono poi di volta in volta il principio della punibilità dei comportamenti ritenuti trasgressivi. Allo stesso modo viene stabilito il princi­pio del merito di chi può o deve essere premiato.

III.2. GIUDICI PER FORZA

Noi viviamo dando continuamente giudizi di buono o di cattivo, camuffati spesso con affermazioni diverse, travestiti da opinione politica; ma che ridotti all’essenza sono giudizi su ciò che è bene o male fare e non fare. Non è chiaro stabilire chi sia buono davvero e chi sia cattivo, rimane il principio che si giudica chi ci stadi fronte come se-fosse –responsabile delle sue azioni.

La cultura occidentale e borghese ha avuto in Kant l’ultimo grande moralista. Kant in­fatti nella Critica della ragion pratica ha esplicitamente parlato di un postulato, che bisogna accettare, senza &quale non ha senso parlare di morale:il libero arbitrio. Io anche nella mia esperienza di docente ho avuto modo di constatare quanto sia diffi­cile cogliere la differenza tra “libero arbi­trio” e “libertà giuridica”. La libertà giuri­dica viene all’individuo dall’esterno, men­tre il libero arbitrio è una capacità interna all’individuo stesso. Il libero arbitrio è la possibilità interiore che ogni essere umano ha di opporsi ad ogni condizionamento, fi­sico o morale, culturale o sociale. L’uomo, dice Kant, deve essere libero di opporsi tan­to al meccanicismo naturale quanto al con­dizionamento della legge dello stato. Sol­tanto se noi pensiamo che ogni essere uma­no, nonostante la sua situazione emotiva, e i condizionamenti, scelga liberamente di commettere o non commettere un sesto, possiamo dire se ha fatto bene o male; se invece non era libero di opporsi none giu­dicabile. Il diretto occidentale ha fatto proprio questo principio e non condanna chi viene ritenuto non completamente libero di intendere o di volere, o di scegliere auto­nomamente, con apposite norme che rego­lano il giudizio sui minorenni o su persone alle quali viene riconosciuta una particolare condizione di alterazione delle facoltà di giudizio.?

Se però è già complicato giudicare se un gesto è buono o cattivo e dire di una per sona se è buona o cattiva, più difficile è giudicare l’intelligenza e la stupidità e definire le responsabilità degli stupidi e degli in telligenti; benchè il senso comune ci abbia abituato a giudicare furbo, stupido, o intelligente colui con cui ci confrontiamo. Che cosa è l’intelligenza per la nostra cultura e conseguentemente cosa è la stupidità? Esistono diverse tecni­che di misurazione attraverso prove, test e analisi varie che vorrebbero determinare in base a parametri_ datti], cosiddetto Q.I. (quoziente di_ intelligenza). Sono però tec­niche assolutamente stupide perchè non tengono conto della validità sempre soltan­to relativa dei criteri in base al quale si è definito preliminarmente il concetto di in­telligenza con il quale l’individuo deve es­sere misurato. Queste tecniche possono tutt’al più fornire valori di attitudinalità rispetto a campi ben precisi e molto delimi­tati di applicazione.

Di fatto ogni gruppo sociale ha sviluppato criteri propri di intelligenza e di stupidità e quindi ciascuno cercherà di adeguarsi a quello che è il criterio adottato dalla società in cui vive. Ricordo il caso di un bambino che venne ritenuto “stupido” da una psico­loga scolastica che Io aveva sottoposto ad una serie di test; in particolare mi colpì il fatto che la testista aveva dato un giudizio negativo ad una risposta che invece deno­tava, a mio avviso, una sensibilità e una ca­pacità di osservazione addirittura superiore a quella richiesta dal test; infatti il bambi­no, messo di fronte al disegno di una giacca in cui c’era un’asola di meno del nume­ro dei bottoni corrispondenti alla domanda: “Cosa manca in questa giacca?” Aveva brillantemente risposto: “Ci manca l’uomo dentro.” Ovviamente questo mio è un pa­radosso provocatorio che però vuole sotto­lineare quanto sia difficile e spesso ingiu­sto applicare semplicemente schemi prefis­sati su realtà vive ed attive.

Nonostante però la difficoltà di stabilire criteri ferrei di giudizio, io affermo che la stupidità esiste davvero.Narcisismo e sa­domasochismo possono rendere gli uomini stupidi, perché l’incapacità narcisistica di osservare il mondo e gli altri si tra­duce in una incapacità di capire, in una ottusità generalizzata. La chiusura al mondo è fonte di ignoranza e di chiusura alla capacità erotica di cogliere il fuori di sé, il narcisismo è una difesa che rende stupidi. Il sadomasocliTsni6a sua vol­ta naia film di aggredire o di essere ag­grediti avvolge l’individuo in veli di rabbia, di sofferenza o di depressione che alterano la percezione e quindi la comprensione del mondo. L’intelligenza è capacità di sentire prima e capire poi il discorso di Eros.

III.3. IL BELLO E IL BRUTTO

La nostra cultura distingue tra intelligente e stupido, tra buono e cattivo. Socrate ha dato una chiave di lettura molto acuta di questi fenomeni, dicendo che il cattivo e lo studio sono quelli che non sanno. Esiste un altra dicotomia universalmente operata• quella tra il bello e il brutto e io vorrei esaminarne l’aspetto più concreto, non facendo un discorso metafisico od estetico, ma applicato agli esseri umani. Bello comunemente è definito colui che viene considerato desiderabile sessualmente, mentre non si può dire che il buono sia più desiderabile del cattivo o viceversa. La mia intenzione è quella di distinguere tra la sessualità _e l’erotismo, il quale ultimo è un concetto più ampio e complesso di quello strettamente legato alla cosiddetta “libido”. L’essere umano bello, dunque, è comune mente considerato sessualmente appetibile, mentre quello brutto viene respinto e rifiutato. Questo messaggio noi lo abbiamo introiettato e non possiamo prescinderne, nonostante le successive acquisizioni, filosofiche, politiche o religiose che ci indicano comportamenti diversi. La bellezza è molto spesso collegata, oltre ché alla: salute, alta giovinezza. Chi ricorda i versi di Gozzano su -cruna donna “da troppo tempo bella, non più bella tra poco” contrapposta alla “fanciulla Graziella”in quell’inno alla nostalgia borghese che è Le due strade? La salute è collegata nel nostro inconscio sociale alla giovinez­za: il vecchio è visto come più vicino alla morte: lo denunciano lo stato dei tessuti, l’appannamento dello sguardo, l’incanuti­mento o la calvizie, ragion per cui si tende a considerarlo comunque meno sano di un giovane, anche se non è raro che un ottan­tenne sia più sano di un diciottenne mala­to. Sono i condizionamenti dell’inconscio sociale che ci fanno ,attribuire soprattutto alla giovinezza il diritto alla salute, allaKouroi e alle Korai, alle loro splendide nudità. Il canone su cui Policleto costruiva le sue statue, dove la bellezza coincideva anche con misure e rapporti ben precisi. Questi canoni sono validi tuttora, anche se qualcuno oggi paradossalmente consiglierebbe alla venere di Milo una die­ta dimagrante. Questi criteri sono rimasti nei secoli, nonostante il periodico interven­to di modelli diversi in questa o quell’epo­ca storica, influenzati dal misticismo o dall’edonismo, dalla sensualità barocca o dal cerebralismo dell’art nouveau. C’è an­che stata una rivalutazione del brutto come ricco di una sensualità perversa, di cui si è impadronita certa cultura popolare e non. Nonostante insomma tutte le contraddizio­ni resta il fatto che ciascuno ha un bel­lezza e quindi anche alla sessualità. Inoltre la donna viene considerata desiderabile per meno tempo dell’uomo maschio e la vec­chia infoiata è considerata ancora più ridi­cola del maschio allupato. Sono condizio­namenti che ci vengono da una lettura for­se tendenziosa della cultura ellenica. Noi pensiamo ai proprio criterio di bellezza che coincide per lopiù con giovinezza, salute e sensualità. Esiste poi un fenomeno inspiegabile che rende desiderabili sessualmente anche persone apparentemente brutte, almeno in base ai canoni finora analizzati e viceversa fa rifiutare sessualmente persone belle. Questo si spiega, secondo me, perché ci sono due componenti fondamentali della bellezza: una esteriore ed una interiore. Quella interiore ha a che fare con l’armonia che deve esserci tra soma e psiche e tra l’individuo e gli altri. Quella esteriore ha bisogno per essere dav­vero desiderabile di essere unita ad una ca­pacità adeguata di percepire eroticamente il mondo e di farsi percepire allo stesso modo. Così il “brutto” Socrate può essere desiderabile, mentre possono non esserlo il modello o la maggiorata incapaci di pro­porsi “eroticamente” e sensualmente. Riba­disco a questo punto che comunque i con­dizionamenti dell’inconscio sociale sono determinanti.

III.4. DALL’ORO AL POTERE

Ho detto come il canone della bellezza sia rimasto, attraverso i secoli, e percorrendo trasversalmente le classi sociali, sufficien­temente stabile. Ci sono i gusti e le mode, le epoche cambiano i principi estetici, ma questi mutamenti sono soprattutto percepi­ti nel momento in cui avvengono, mentre la successiva prospettiva storica sembra ave­re un’azione uniformatrice. Le discussioni intorno al bello e al brutto danno molto fa­stidio perché richiamano sempre alla ses­sualità.

Narcisismo e sadomasochismo sono le  componenti fondamentali della bruttezza, nostra e altrui perché l’uno ci impedisce di vedere la bellezza negli altri e di mostrare loro quello che di bello c’è in noi; mentre l’altro ci rende _brutti nella violenza espropriatrice che deturpa l’oggetto stesso del nostro desiderio. Io continuo ad andare alla ricerca di- Eros e considero mio compito in­vitare gli altri a perseguirlo come fine. Chi desidera l’incontro con Eros lo ha già in parte trovato.

Vorrei a questo punto riassumere in tre punti il percorso fin qui tracciato:

1. Esiste una situazione di fatto, per cui nessuno nasce da sé, o per volontà propria, ma tutti nasciamo condizionati da una si­tuazione biologica e storico-sociale. I due gameti si incontrano, già ricchi di un patri­monio che viene di molto lontano, loro tra­smesso dal padre e dalla madre. Nessuno ha scelto i propri genitori, ma non può pre­scindere dalla eredità storica e genetica.

2. Successivamente la cultura del gruppo sociale e le condizioni ambientali ci pon­gono di fronte ai problemi delle scelte e delle responsabilità, su queste basi matu­riamo i giudizi sul bene e sul male, sull’in­telligenza e sulla stupidità, sul bello e sul brutto.

3. Narcisismo e sadomasochismo sono le difese che, quando subiscono lo scacco e predominano o si sovrappongono, allonta­nano da Eros, che è il solo modo sano di porsi in relazione con l’altro e con il mondo.

Un aspetto di cui si ha pudore di parlare, quando si fanno analisi complessive delle dinamiche umane, è quello legato diretta­mente al denaro e alle patologie ad esso collegate.

Quando ci si riferisce al danaro e quindi all’economia non può non affacciarsi alla mente il nome di Karl Marx. Questo sem­brerebbe un discorso poco pertinente con la psicoanalisi, ma io ho creduto di scorgere in Marx un pensatore che ha meglio di Jung formulato una teoria che, superando quella dell’”inconscio collettivo”, si avvicina al mio concetto dell’”inconscio sociale”. La  teorizzazione degli “archetipi” dell’inconscio e della conoscenza ha il grande meri­to di 91./ere – iiiarne con quella freudiana delle Urphantasien - ipotizzato l’esistenza di principi sobrapersonali e di contenuti psichici universali. Secondo questa idea junghiana noi siamo costituiti non solo dal bagaglio della nostra espe­rienza personale, ma nasciamo con un corredo di nozioni, astrazioni e simbolizzazioni  che ci vengono dalla specie e che Jung ha molto astutamente accostato alle “idee” dell’iperuranio” teorizzate da Pla­tone.

Jung considera questi contenuti principi immutabili ed eterni che passano attraver­so le generazioni. Secondo questa teoria, concetti fondamentali come quello di uomo e di donna, di padre e di madre, di figlio e di figlia sono dati una volta per sempre. Eb­bene senza voler entrare in un campo non suo, Marx ha avuto un’intuizione che a mio avviso supera in genialità quella junghiana, quando ha parlato dei concetti di “struttu­ra” e “sovrastruttura”. La struttura, secon­do Marx, è il complesso dei bisogni, non però banalmente intesi come collegati al meccanismo economico-finanziario; ma nella loro più ricca complessità di cui l’eco­nomia è solo un aspetto.

Partendo da questo spunto marxiano, io ho- voluto proseguire, sostenendo che alla base del bisogno c’è il desiderio. L’uomo nasce in uno stato dr bisognò che subito mette in moto il desiderio, il desiderio è prima di tutto piacere del desiderio e desiderio del piacere, senza il quale egli non potrebbe so­pravvivere nemmeno un minuto. La scelta progressiva della soddisfazione dei bisogni e dei desideri determina via via una situa­zione di fatto, composta dalla struttura eco­nomica, regolata prima dai rapporti di pro­duzione e poi da una conseguente morale, una religione, un’arte e così via. Nessun in­dividuo ha scelto la classe in cui nascere e i valori di quella classe, ma entrambi sono per lui gli archetipi che potrà accettare o ri­fiutare tali e quali o tentare di modificare lottando.

Immutabile ed ineliminabile resta solo la soddisfazione di -quel primo bisogno che è il piacere del desiderio-e desiderio del piacere-e che io ho voluto-chiamare eros, cioè la pulsione veramente originaria, prima ancora dell’istinto di conservazione, proprio perché  l’insufficiente autonomia del piccolo dell’uomo richiede prima di tutto uno slancio verso l’altro che deve garantirgli la sopravvivenza, e questo slancio è spinto solo dal desiderio del piacere, poichè l’istinto vitale ha biso­gno innanzi tutto del piacere per attivarsi dinamicamente.

Il bambino non dice subito questo è bene e questo è male; solo con l’esperienza farà le sue scelte in accordo o disaccordo con l’ambiente sociale che l’ha formato. Marx ha ipotizzato un divenire dialettico della storia che trasforma via via la struttura eco­nomica; 10 stesso divenire trasforma, se­cail5 me, gli archetipi e i valori, e la loro evoluzione dà i contenuti a quello che io chiamo “inconscio sociale”.

Il nostro inconscio sociale ha col danaro un rapporto complesso: da una parte considera la ricchezza un valore, dall’altra condanna i ricchi, giudicando moralmente più sani i poveri, che però sono chiamati a battersi per una giustizia sociale che li renda ricchi a loro volta. È un dato di fatto che ieri come oggi senza danaro non si poteva fare molto. Il Re Sole, quando discuteva sui bilanci di Versailles o sul costo di una cam­pagna militare si trovava di fronte a grosse difficoltà per la mancanza di danaro: lo stesso problema che tormenta la coppia proletaria, posta davanti all’eventualità del­la più piccola spesa. Tutti a diversi livelli siamo schiavi danaro. L’utopia del barbone solo uomo libero o quella dei “figli dei fiori” si scontra troppo spesso contro la tragedia e la morte nella miseria.

Il danaro adesso è di carta, un tempo era d’oro. Perché questa scelta, prima, e questa trasformazione in seguito? Gli archeologi dicono che fu scelto l’oro perché era era raro e resistente agli agenti atmosfe­rici. Io ho il sospetto che sia stato an­che perché  è splendente. L’oro è ancora oggi simbolo di ricchezza, virtuale e pratica, tanto è vero che la stessa vilissima carta moneta perde di valore quando diminuisce la riserva aurea nelle casse del­lo Stato.

La antica mitologia è ricca di aneddoti in cui l’oro gioca un ruolo importante: basti ricordare qui la storia di Danae, bellissima figlia di Crisia re di Argo. L’oracolo inter­rogato dal re aveva predetto che il figlio di Danae gli sarebbe stato fatale. Crisia, preoccupato di sfuggire al destino, fece seppellire Danae insieme con un’ancella in una prigione sotterranea di bronzo, chiusa ermeticamente da ogni parte, eccetto che per una piccola fessura in alto da cui po­tesse passare la luce. Zeus però che si era invaghito dell’avvenente fanciulla, pur di possederla si trasformò in una pioggia d’oro che, penetrando da quello spiraglio, la fecondò. Da quello strano amplesso nac­que Perseo che molto più tardi, liberato dal­la prigione, fu la causa della rovina del non­no. L’interpretazione più squallida del mito è quella secondo la quale le donne posso­no essere comperate con l’oro, altre letture vedono in Danae il simbolo della libertà malgrado tutti gli ostacoli, oppure una pa­rafrasi dell’avvicendarsi delle stagioni, in cui il grano, oro sepolto sotto la terra, fe­condandola genera nuove spighe.

In ogni caso è presente la concezione che unifica simbolicamente l’oro col seme che genera e quindi con la sessualità. Anche io vedo una dinamica sessuale molto com­plessa che non si può neppure ridurre al fallocentrismo di Freud, ma che è segno di una sessualità che si trasforma in lotta fin dalla notte dei tempi, tra il maschio e la femmina. Eros da subito si è scontrato con la violenza di espropriazione che ha dato luogo alla lotta tra i sessi: il maschio ce­dendo alla donna il proprio seme si è sentito impoverito e da allora si è aperto il conflitto.

Anche la mitologia biblica parla di questo rifiuto del maschio ad accettare l’espro­priazione del proprio seme da parte della donna, tanto che Onan preferisce spargerlo al suolo, commettendo il primo peccato di inaiturbazione di cui resti traccia. Io non credo che nella lotta tra il maschio e la fem­mina ci sia un solo espropriatore, certo che non è il maschio. L’espropriazione è reci­proca e continua, come lo è la lotta per il danaro, e l’una è simbolo dell’altra. In realtà maschi e femmine espropriano altri maschi e altre femmine in una logica di po­tere e poi sempre perseguendo la stessa an­sia di potere si espropriano reciprocamen­te. Non so se prima di questa lotta ci fosse un Eden felice, certo non ci sarà un Eden fino a che maschi e femmine non si af­fronteranno come persone e non come pro­tagonisti di un ruolo sessuale o di potere.

Psicoanalisi contro n.1 – La diagnosi e la persona (Sezione seconda)

sabato, 1 maggio 1993

II.1 LA MITICA FAMIGLIA

Il bambino inizia la sua esistenza ben pri­ma di venire alla luce; possiamo dire: dall’incontro, nel ventre della madre, dei due gameti, i quali però sono già a loro vol­ta ricchi dell’esperienza che deriva dal ri­spettivo corredo genetico. La nascita è uno dei momenti più importanti della vita, ma non necessariamente il più importaste: questo dipenderà dalla storia di ognuno. Perciò non credo agli oroscopi, sebbene creda nell’influenza degli astri; perché l’oroscopo è una diagnosi truffaldina che fissa arbitrariamente il momento della na­scita anagrafica, come l’inizio della vita in­dividuale.

Torniamo ora al bambino: egli imme­diatamente si apre al rapporto col mondo. Io non credo nel narcisismo originario: non è vero che, il feto prima e il neonato dopo, siano chiusi nella loro esperienza soggettiva; anzi sono profonda­mente convinto che siano entrambi aperti alla relazione con l’altro. Attraverso una serie di meccanismi fisiologici intrauterini, oltre che manipolazioni e messaggi dal­l’esterno, quell’essere, che prima chiamia­mo embrione, poi feto e poi bambino, ab­bandona, fin da subito, il proprio isola­mento. Io sono sicuro che l’essere umano accumula,  già dal ventre materno, un patri­monio di esperienze. Eppure, in apparenza, questo patrimonio pare perduto. Perché?

Chi ha un bambino di un paio d’anni si accorge di quanto egli sia capace di ricordare, con eccezionali esibizioni di memoria, fatti di cinque o sei mesi prima. Più tardi, però, non resta traccia alcuna di quanto è accaduto nei primi due anni di vita, che sembrano dimentica­ti. Ciò è vero solo in apparenza e si spiega col fatto che il bambino fatica ad acquisire il senso del tempo: egli vive soprattutto nel presente ed è dominato da esso. Per ragio­ni fisiologiche e psichiche è infatti caratte­rizzato da una estrema labilità, che gli im­pedisce di fissare i ricordi in una succes­sione temporale e di dare loro una struttu­ra. Solo lentamente, il tempo acquisirà poi per lui la caratteristica di movimento dal passato verso il presente e il futuro.

Il bambino diviene col tempo, se ne appro­pria, e, insieme con il tempo, si appropria anche dello spazio. Quando tende la mano ed indica gli oggetti, ovvero li riconosce, mette in atto una elaborazione personale dei due concetti di spazio e di tempo. Indi­care implica, per il bambino, percepire l’oggetto desiderato come lontano da sé spazio-temporalmente: “Io indico quell’og­getto che desidero, ma che è lontano, per­ché impiega tempo a percorrere lo spazio che lo separa da me e dal soddisfacimento del mio desiderio. Io quindi tendo le brac­cia oppure vado verso di esso: mi muovo nello spazio per andare, nel tempo, verso l’altro.” Così il bambino impara a deside­rare e a vedere procrastinato il soddisfaci­mento del proprio desiderio, prima che pos­sa realizzarsi, nello spazio e nel tempo.

Dopo aver imparato a collocare l’altro nel tempo e nello spazio, il bambino passa a domandare: “Cosa è quello?” I bambini non domandano mai “se” una cosa c’è, se quel cavallo esiste, ma domandano che cosa quel cavallo è. Potremmo dire, con Rosmini, che, nel bambino il concetto di “essere” è innato, mentre il concetto sii “non essere” forse non verrà acquisito neanche dall’adulto e resterà una bizzarria filosofica. L’uomo  tutt’al più riesce ad im­maginare l’ “essere diversamente”, ma non il non essere. Successivamente, inizia per il bambino l’epoca dei “perché?” Una richiesta continua ed ossessiva, che però nasconde qualcos’altro, oltre al desiderio di far arrabbiare i genitori.

A questo punto, egli ha compreso il significato della diagnosi: “il tempo, lo spazio, la cosa e il perché”. Contemporaneamente egli assimila i precetti morali (che non sono altro che la modulazione dei desideri nel tempo: alcuni verranno soddisfatti, altri procrastinati, altri rifiutati). Incomincia la dialettica tra il “devi fare” e il “non devi fare”. Con l’uso organizzato del linguaggio sopravviene poi il tempo del “nome delle cose”, con il quale si instaura un gioco che non si fermerà più.

Anche “madre” è una parola, che è il coa­gulato di una descrizione e che esprime una diagnosi. “Madre” non vuol dire soltanto: “colei che ha partorito”; ma implica tutta una serie di definizioni che hanno un si­gnificato culturale. Ogni donna avrà un suo modo di essere madre e di trasmettere que­sto significato. Le donne diventano madri non quando partoriscono, ma quando, an­cora bambine, si trovano ad avere in mano una bambola; già da allora, infatti, si pre­parano ad un modo ben preciso di essere madri. Sbagliando, la nostra cultura dice ancora oggi quello che diceva anticamente, cioè che la donna ha il grande privilegio (o la grande condanna) di  “generare”, confondendo questo termine con “partorire”. La  donna, come ben sappiamo, non genera e non ha più parte dell’uomo nella generazione. Nella specie umana, la femmina e il maschio, insieme, generano. La donna è prima una gestante e poi una partoriente. Questo ha un significato ben preciso, che risulta evidente dalla considerazione che si ha per quel ventre che per nove mesi è gonfio di una vita altra da sé. Dalla bambola al ventre gonfio, al modo in cui crederà di “recitare” il proprio ruolo quando manipolerà il suo bambino, ogni donna avrà un diverso modo di essere madre e di trasmettere questo significato. Esiste “quella madre” perché c’è stata “quella bambola”. Le bambole cambiano nel tempo e con esse cambia il concetto di ma­dre e quello di figlio.

Il maschietto non viene invece educato a diventare padre, attraverso un giocattolo emblematico, che equivalga alla bambola. Tutt’al più gli si parla del padre e dei padri e gli si prefigura la possibilità di diventare un giorno a sua volta padre. Indirettamen­te trova in giochi come quello del marito e della moglie la possibilità di immaginarsi un futuro ruolo paterno. Il maschietto si trova a costruire la capanna o casetta in cui fa abitare i figli immaginari e la compagna di giochi che recita il ruolo della sposa. Il suo interesse è però concentrato su altri giochi, di avventura, di prestanza fisica, di lotta e di guerra. Le fiabe e le rappresenta­zioni teatrali e cinematografiche sono gli strumenti privilegiati sui quali si forma l’idea che i bambini si fanno dei loro futu­ri ruoli. Al maschio viene presentata un’im­magine del padre con cui identificarsi e su cui proiettare sogni e fantasie, anche ses­suali; su cui pure sfogare aggressività e de­sideri di morte; ma, in ogni caso, quasi mai esplicitamente gli vengono date indicazio­ni sul modo di prepararsi a quello che do­vrà essere anche il suo ruolo. Troppi padri si sottraggono ad una partecipazione attiva all’educazione e ancora oggi, dopo il con­cepimento, abbandonano quasi completa­mente la cura e il pensiero dei figli alla ma­dre e alle altre eventuali donne di casa, su­bendo senza saperlo un’ulteriore castrazio­ne, che riguarda loro, ma anche i figli ma­schi. Freud dice che il bambino che la don­na ha partorito è per lei un sostituto del fal­lo che non ha. La mia esperienza clinica mi conferma che spessissimo i maschi perce­piscono questa appropriazione del figlio da parte della donna come castrazione supina­mente accettata. I tribunali, nelle cause di separazione tra coniugi, affidano quasi sempre i figli alla madre, an­che per la pigrizia e la vigliaccheria dei padri. È recente la figura del padre che lotta per affermare il suo diritto alla cura del figlio. È un diritto che gli compete. Pur­troppo gli stereotipi del padre e della ma­dre imperano nell’inconscio sociale ed in­dividuale: il triangolo edipico (o il poligo­no) continua ancora ad agire sulla rappre­sentazione famigliare. Non tutto è sempli­ce come aveva creduto Freud o come cre­dono troppi teorici sociali della famiglia. Ancora oggi, però, la convenzionale im­magine persiste dando sicurezza, da una parte, in quanto costituisce punto di riferi­mento collaudato, e confermando dall’altra una povertà di schemi affettivi. Per fortuna non s’è persa l’eco degli antichi miti e la storia di Edipo e di Giocasta si intreccia con quella di Eteocle e Polinice, Ismene ed Antigone e la rappresentazione non si ferma. Questo frammentario tentativo di diagnosi dei ruoli di padre, di madre e di fi­glio che ho qui esposto è l’inizio di una se­rie di diagnosi che cercherò di esporre in seguito, ma so bene che l’inizio non è sta­to né il padre né la madre.

II.2. LONTANO DA EROS

La follia è una presenza costante; il linguaggio stesso ne esprime la quotidiana realtà: “ma sei pazzo!” è un modo di dire, un intercalare consueto. Pazzo deriva dal latino “patiens” = che soffre; matto dal tardo latino “mastus” = ubriaco; folle, ancora dal latino “folis” = pallone pieno di vento. Una convinzione che è maturata in me, affrontando clinicamente il campo della follia, è quella che non abbia senso la distinzione comunemente operata dai trattati di psichiatria quando distinguono tra psicosi funzionale, in cui sarebbero disturbate le funzioni psichiche, senza che sia evidenziabile un’alterazione organica, e psicosi con base organica, in cui è evidente una lesione o un’alterazione del sistema nervoso. Credo che questa divisione sia meto­clologicamente scorretta, in quanto tutte le affezioni della psiche hanno a mio avviso un riscontro organico. Non credo che la psiche sia qualcosa di staccato dal corpo, sono in­vece convinto che esista una realtà unica, somatopsichica, che io definisco “persona”, alla quale deve essere riferita ogni modifi­cazione del comportamento. Per questo non sono contrario, per principio, all’uso dei farmaci e anche degli psicofarmaci. Il tipo di intervento farmacologico estremamente mirato sulla persona deve comunque sol­tanto essere un momento dell’azione tera­peutica. Ho detto che la psicosi si instaura quando si sovrappongono e si chiudono le due difese fondamentali, al punto che non è neppure più possibile distinguere se siamo in presenza di una struttura prevalentemen­te sadomasochistica oppure narcisistica. Chi ha avuto a che fare con i cosiddetti “pazzi” si sarà accorto che i deliri e le allu­cinazioni si sostituiscono alla realtà, ten­tando di abolirla narcisisticamente e nello stesso tempo di distruggerla sadomasochisticamente. Il mondo è diventato pieno di fantasmi, Eros è troppo lontano, anche se non del tutto assente.

Le difese in quanto tali hanno la funzione di difendere dalla relazione con l’altro, al limite persino con noi stessi. Ogni relazio­ne si mette in opera necessariamente in uno spazio ed in un tempo. Nelle psicosi i rap­porti temporali risultano molto più distorti di quanto già normalmente avvenga. Lo psicotico percepisce i fantasmi del proprio passato come se fossero presenti e reali: è qui ed immagina di non essere qui, vive oggi e si pensa in un lontano allora. Ricor­do una ricoverata in ospedale psichiatrico che “andava indietro” di cinque giorni.

La psicosi si esprime fondamentalmente attraverso due moduli: la depressio­ne e la mania; tutte le altre pseudo-classificazioni (isteria, schizofrenia, etc:) sono solo storielline piene di contraddizioni. La depressione è forse la forma più grave di malattia mentale: significa infatti sprofondare in una condizione di negazio­ne del mondo e della stessa vita. Prodromi di questa situazione possono essere sintomi di patofobia o addirittura di ipocondria. Una importante caratteristica del depresso è la profonda disistima di sé, la tendenza ad autoaccusarsi. La depressione è a mio giu­dizio una parodia della morte, che può condurre alla condizione di arresto psicomoto­rio e all’immobilità del catatonico, che sembra morto senza esserlo, che vuole pen­sarsi morto senza riuscirci davvero perché la morte non è un concetto rappresentabile dalla mente dell’uomo vivente. Nonostante le apparenze, la depressione non è una for­ma soltanto sadomasochistica, anche se esprime molto masochismo con l’esaspera­to gusto per la propria sofferenza e molto sadismo per la enorme capacità di ricatto ché il depresso opera nei confronti degli al­tri. Un ricatto di sadismo infinito perché ri­fiuta ogni risposta, perché disprezza e va­nifica ogni soccorso. L’aspetto narcisistico della depressione si esprime con la concen-trazione sul proprio corpo che genera dapprima la condizione di patofobia, e poi con il delirio di corruzione del proprio or­ganismo, tipico dell’ipocondria.

La mania è invece un modo di reagire, opposto a quello autosvalutante della depressione: ci si esalta fantasticando di essere .grandi personaggi (non solo Napoleone), ci si illude di essere al centro dell’interesse universale, per lo più con forme di delirio persecutorio. Anche la mania ha la doppia modalità: narcisistica – il maniaco è interessato soltanto a se stesso – o sadomasochistica, nel gusto di essere persecutore o di credersi perseguitato. La paura della follia è una tra le più diffuse e può esprimersi con uno stato di sottile e permanente angoscia, oppure con un’esplosione di fobia. Molti arrivano dal­lo psicoterapeuta proprio per sfuggire a questa paura che li attanaglia e che assume a volte contorni terrificanti inducendo com­portamenti che disturbano la vita quotidia­na. La mente è disorientata,le idee sfuggo­no di testa, la memoria non c’è più; a vol­te si giunge al tenore di compiere gesti in­consulti. La paura della follia nasconde an­che sottili desideri. In ogni caso posso dire che la paura della follia non è necessaria­mente un prodromo della follia stessa: solo una parte di coloro che hanno questa pau­ra rischia davvero la follia.

II.3. IL GIUDIZIO SOCIALE

Quando dico che non esiste per me diffe­renza sostanziale tra psicosi funzionale e psicosi con cause organiche non voglio ov­viamente negare che queste ultime possano essere riscontrate, solo che non mutano la natura della psicosi in sé, che è sempre un disturbo della persona. Inoltre agiscono come cause determinanti della follia i giudizi del gruppo sociale. La storia di una follia è sempre quella di una persona, del suo rapporto con la società e l’ambiente, ogni volta diversa da ogni altra. La necessità di avere parametri non autorizza però clinici, filosofi e scienziati ad applicare sulle per­sone schemi rigidi di classificazione che sono sempre inadeguati e devianti.

Vorrei portare un esempio di disturbo psi­chico che è una storia personale e, nello stesso tempo, un esempio di quanto agisca il giudizio di una cultura e di un ambiente sociale.

Avevo in analisi un ragazzo che, per ragio­ni di lavoro ed anche per il punto delicato raggiunto dal comune lavoro analitico, de­cise di interrompere l’analisi e di trasferirsi in un’altra città. Prima di opera­re quella che io consideravo come una vera e propria fuga mi chiese di dare il suo posto alla sorella, desiderosa di iniziare un lavoro di psicoanalisi. Sebbene io accetti solo pochissimi pazienti per de­dicarmi con maggior libertà al lavoro di­dattico e teorico, tuttavia decisi di dare alla sorella, che al primo incontro era riuscita a destare in me interesse e simpatia, le ore di lavoro che prima dedicavo al ragazzo. Nel lavoro delle prime sedute venne fuori una personalità sensibile, capace di cogliere il mondo e di lasciarsi penetrare dalle sensa­zioni; coglievo però nel suo modo di per­cepire la realtà qualcosa che mi faceva pau­ra. Mi parlava come se fosse sempre un po­chino lontana da me e dalle cose; era piut­tosto prevedibile nella sua voglia di essere originale: amava l’arte romanica, preferiva la scultura alla pittura, detestava i poeti ro­mantici ai quali preferiva i lirici greci e Dante. Risultava moralmente rigida e persin troppo scrupolosa e corretta. Mi dava un po’ fastidio, ma me ne ero anche inna­morato. Aveva difficoltà notevoli di rap­porto con gli altri, si sentiva depressa e non riusciva più a studiare, frequentava una fa­coltà scientifica che detestava. Aveva fre­quenti dolori alla nuca e alle spalle. In una seduta mi raccontò un sogno che dette una svolta all’analisi. Prima mi disse che ama­va la montagna, ma, curiosamente, le pia­ceva solo salire, mentre la angosciava do­ver intraprendere la discesa, la faceva sta­re male vedere davanti a sé il precipitare delle vallate. La notte precedente aveva ap­punto sognato di trovarsi da sola in monta­gna e di aver dovuto iniziare da sola la di­scesa verso la pianura, ma la paura era di­ventata angoscia che alla fine l’aveva fatta urlare fino a svegliarla.

Mi disse: “Diventerò pazza? Ho tanta paura di diventare pazza.” Quello fu per me un campanello d’allarme. Qualche tempo dopo incominciò con insistenza a chiedermi se io posteggiassi appositamente l’automobile sotto casa sua e poi prese ad insistere chiedendomi cosa volessi significarle facendo ciò, fino a che la cosa si estese rivelando una mania persecutoria accentuata le cui origini potei rintracciare con molta fatica. L’anno precedente aveva avuto un fidanzato, non bello, povero e di poco successo, ma con cui si era trovata bene fino a che la sorel­la non si era messa con un giovane bello e intelligente, aitante e sicuro di sé. Dopo aver per un po’ di tempo umiliato il suo ragazzo tiranneggiandolo e costringendolo a continui confronti con l’altro, decise di lasciarlo, ma la cosa le procurò rimorso. Mesi dopo, in campeggio, fece amicizia con una ragazza molto bella, di cui l’ave­vano colpita soprattutto due enormi orec­chini di plastica bianca che quella indos­sava spesso. Raccontò alla nuova amica la sua fallita storia sentimentale e trovò com­prensione e solidarietà contro il comune nemico identificato nel maschio perfido e meschino, nei confronti del quale si può reagire solo pagandolo con la stessa mo­neta, senza scrupoli di sorta. In realtà quell’apparente solidarietà le fece nascere sentimenti di colpa, perché pareva confer­mare, al di là delle intenzioni, la cattiveria egoistica del suo comportamento. Una sera, sulla spiaggia, fumò insieme con gli altri marijuana e si sentì cogliere dai gran­di interrogativi sull’infinito, le stelle, l’uni­verso e poco a poco montò in lei l’ango­scia accentuata da una spaventosa tachi­cardia. Si sentiva svenire e in lei vortica­vano le domande senza risposta: “Dove fi­nisce l’universo, cos’è lo spazio, chi sono io?” La ragazza con gli orecchini bianchi era china su di lei e lei era impressionata da quel suo viso incorniciato da quella chincaglieria esageratamente grande. Fu necessario l’intervento di un medico. Dopo pochi giorni le giunse la notizia che il ragazzo che aveva lasciato aveva avuto un incidente d’auto. Se ne sentì colpevole tormentandosi per giorni finché una sera provò ancora a fumare “erba” con il risul­tato della volta precedente. Poi crisi di panico vere e proprie incominciarono a scatenarsi senza che lei fumasse. Poco a poco incominciò a pensare che la ragazza dagli orecchini che fingeva di aiutarla fosse in realtà una sua persecu­trice: prese ad odiare lei e la sua mania di prendere il sole a seno scoperto, a odiare le sue mammelle e i suoi orecchini. Tornata a casa credette di sentir raccontare alla radio il suo caso in una trasmissione di cui ero il conduttore. Per questo aveva insistito per venire da me. Il delirio precipitò in un vor­tice in cui io, il fratello, la ragazza con gli orecchini e il fidanzato facevamo parte di un’unica organizzazione, che faceva espe­rimenti su di lei, che le metteva microfoni nascosti ovunque. La famiglia cercò ad un certo punto di allontanarla dall’analisi e la affidò ad uno psichiatra che intervenne con dosi eccessive di psicofarmaci, aggravando la situazione. Per fortuna potei riprendere il lavoro con lei, che per lungo tempo mi identificò col nonno, che l’aveva rifiutata perché femmina e da quel punto proce­demmo. Una storia come un’altra dunque, ma unica nel suo sviluppo, condizionato anche dal giudizio che un gruppo dà sull’essere maschio e femmina, dalla cultu­ra che esalta la droga ed impone l’esibizio­nismo sessuale e via dicendo.

La storia della depressione ha nella nostra cultura radici antichissime: la colpa originaria, il peccato originale, non è un’invenzione della cultura ebraica o del cristianesimo. Nonostante l’avviso opposto di certi grecisti d’accatto, la cultura ellenica aveva in sè questo concetto. Platone lo evidenzia chiaramente nella Apologia di Socrate. L’origine di questo senso di colpa derica va, io credo, ai Greci dal loro tentativo di ribellarsi alla cultura matriarcale che avevano avuto alle spalle. Mentre i Greci si sono sottratti al sentimento della colpa appellandosi al Fato, dal quale non ci si può liberare, ma di cui non si è responsabili, i Cristiani sono invece soggiaciuti al sentimento di colpa, che il depresso vive fino in fondo, fino a desiderare la distruzione di sé. La società moderna ha elaborato due tipi di fantasie reattive per di­fendersi dalla depressione che distrugge la “scienza” e la “religione”. Di questi reattivi sono però permeate anche le for­me più gravi della follia: dalla scienza de­riva la fantasia sui macchinari onnipotenti di controllo del pensiero. Dalla religione derivano le ossessioni diaboliche, le pre­senze invisibili, le possessioni, le persecu­zioni dall’al di là.

Noi non possiamo negare oggi la realtà del­la follia, ma dobbiamo vederla in tutti i suoi aspetti anche di demenza, stupidità, catti­veria, di cui certo sono responsabili anche l’insufficiente mielinizzazione che ingene­ra l’oligofrenia, o l’arteriosclerosi che ristupidisce, ma che coesistono con le ragio­ni sociali e culturali. Questo vale per il ra­gazzetto di sinistra che incomincia a non lavarsi per ragioni ideologiche e poi cade vittima di una catatonia depressiva che lo fa languire nella sporcizia e nel fetore fino alla morte. Per lo scienziato che insegue la sua teoria in solitudine e perde poco a poco il contatto con la realtà affondando in un delirio di carta e di segni senza senso in un padiglione di manicomio. Per la ragazza che è stata terrorizzata da una mammana dalla quale è stata condotta a forza dai pa­renti per un aborto e che ora è da anni ri­coverata col ventre gonfio, da cui attende che nasca Gesù, che non vuole nascere in un mondo così spaventoso. Quali sono i pazzi? Coloro che impongono i comporta­menti o coloro che li subiscono?

Prima si diceva che il pazzo fosse un pos­seduto e non sempre la cosa fu valutata in senso negativo, anzi grande rispetto circondava e circonda gli sciamani siberiani; nella Grecia antica le crisi comiziali erano ritenute segno di predilezione degli dèi; ma anche in forma negativa comunque la pos­sessione è stata a lungo ritenuta causa del­la follia. A partire del Settecento si for­ma la convinzione che la follia sia un vizio o una malattia. Il vizio in par­ticolare può essere curato attraverso la redenzione morale del malato; così gli Il­luministi pensano all’ergoterapia che recu­pera l’individuo alla società. La malattia in­vece libera il pazzo da ogni responsabilità morale e quindi la scienza medica del neo­positivismo borghese affronta lo schizofre­nico con lo stesso spirito con cui affronta il gastritico, trascurando completamente il problema delle cause e del rapporto. tra in­dividuo e società. Questa demenza verrà superata solo dall’antipsichiatria contem­poranea che negherà addirittura la malattia addossando ogni responsabilità alla società, incapace di assorbire e capire la diversità e che anzi ha la colpa di reprimere la libertà che è insita nella follia, tutto ciò trascuran­do completamente la realtà del dolore e della perdita di autonomia di chi affonda nella psicosi. A questa concezione non è estranea un’anima poetico-lettararia che da sempre, in malafede, esalta la poeticità della follia,  per non doversi porre il pro­blema della sua cura.

II.4. UNA PICCOLA LUCE

La follia è dunque una tra le maschera più  inquietanti della  nostra cultura ed è sempre stata considerata, da Ippocrate in poi, come malattia o possessione o colpa, che co­munque domina l’individuò che può esse­re curato, relegato o punito dalla società che se ne deve occupare per guarirlo o per difendersene; il folle è come quasi tutti gli altri malati un oggetto su cui e per cui gli altri decidono.

La psicoanalisi si è ribellata a questa concezione, affermando il principio che la terapia deve necessariamente coinvolgere il malato; la gestione della terapia deve essere comune del terapeuta e del paziente stesso. È il concetto che Freud enuclea progressivamente, dopo aver abbandonato la pratica dell’ipnosi degli inizi proprio perché passivizzava troppo il paziente; anche se egli personal­mente non pensò mai di affrontare con il suo metodo terapeutico le psicosi.

Questa a me pare una svolta di grande si­gnificato. Bisogna rispettare le scelte del malato e non si ha il diritto di guarirlo con la violenza. Tutto ciò però implica una sua partecipazione che può essere letta come una responsabilità o una colpa: torna il pro­blema della libertà di scelta, del libero ar­bitrio, di fronte al quale si trova anche il te­rapeuta. Di fronte ad una concezione, se­condo me giusta, che vede il disturbo psi­chico, contemporaneamente, come una col­pa e come una malattia, il terapeuta deve operare non espropriando il paziente dei suoi diritti, ma coinvolgendolo nella cura. Si tratta di avere l’atteggiamento del “dop­pio come se”. Il terapeuta deve comportar­si come se fossero valide le due ipotesi: deve rispettare il malato, considerandolo capace delle proprie scelte; ma allo stesso tempo deve tenere conto che quella libertà ha subito, a causa di molteplici ragioni: per­sonali, sociali ed ambientali, uno scacco che ha provocato la malattia, che significa anche progressiva perdita della capacità di decidere. Il terapeuta diventa così il filo­sofo che guida il paziente sull strada del­la riappropriazione di se stesso e di un mondo di valori comuni.

Un grave errore di molti psichiatri e psi­cologi è quello di credere che la scoperta delle cause di un disagio psichico signifi­chi aver risolto il problema. Io credo in­vece che questa conoscenza non sia che una piccola luce che contribuisce solo in parte a leggere con più chiarezza la malattia. È invece molto più importante sco­prire come una persona convive con essa e come l’ambiente e il gruppo reagiscono: qui si può radicare una giusta imposta­zione somato-psichica che interessa tutta la medicina e non solo quella a base psicologica. I testi di psicosomatica sbagliano quando dicono per esempio che l’asma deriva da un pianto re­presso, che la gastrite ha origine da uno stato d’ansia, l’ipertensione arteriosa è ge­nerata da un conflitto e così via: la realtà è più complessa e i sintomi si evolvono con la persona e il suo ambiente; le cause e concause sono sempre risultanti di relazioni intersomato-psichiche e sociali per cui non può esistere una tabella delle corri­spondenze tra disturbo organico e causa psichica, data una volta per tutte.

Quello che voglio dire è che non è possibi­le dare parametri diagnostici validi univer­salmente: ogni persona ha una storia irri­petibile che non può essere trascurata; inol­tre troppo spesso l’atteggiamento del tera­peuta determina l’evoluzione della malat­tia, come la determinano la reazione del gruppo sociale e le condizioni ambientali. Un’educazione troppo liberale può ottene­re risposte reattive altrettanto negative quanto  un’educazione repressiva. Un atteg­giamento di emarginazione può determina­re il fissarsi di comportamenti antisociali, ma lo stesso risultato potrebbe avere un at­teggiamento di iper-valutazione, etc.

Ogni persona è frutto di una situazione che precede la sua stessa comparsa sulla terra, perché nasce dall’unione di due semicel­lule, i gameti, frammenti di materia ricchi di cromosomi e di geni che mandano le loro informazioni all’embrione, che si deve adattare all’habitat che trova nel ventre del­la madre, la quale ha le sue caratteristiche individuali, appartiene ad una classe socia­le e vive in un ambiente determinato; la ge­stazione si conduce passando attraverso esperienze di benessere o di malattia, di violenza o di amore, di angoscia o di alle­gria. Quando nasce, l’individuo è già ricco di un’esperienza secolare. Non esistono due persone identiche fin dal conce­pimento e ogni persona è unica nell’eternità.

Psicoanalisi contro n.1 – La diagnosi e la persona (Sezione prima)

sabato, 1 maggio 1993

1.1  LE MASCHERE E L’ATTORE

DIAGNOSI è un termine deri­vato dal greco dià-ghignosko, che significa “conoscere at‑traverso”.

PERSONA deriva dal latino persona e dall’etrusco persu; ma ha anche una deri­vazione dal termine greco prosopon, che indicava il volto umano o la maschera dell’attore della tragedia.

Cosa è la diagnosi? La diagnosi, in genere, è la determinazione, operata dal medico o dal terapeuta, della natura di un sintomo patologico, o del complesso di sintomi che costituiscono una malattia.

La diagnosi è anche l’analisi di un fatto o di un fenomeno non necessariamente di na­tura morbosa. Essa va oltre la pura e sem­plice descrizione. Descrivere infatti vuol dire analizzare la struttura di un oggetto, scomponendone gli elementi. In que­sto senso la diagnosi è, in parte, de­scrizione; ma è anche altro. In quanto: “conoscere attraverso” opera uno spac­cato della realtà, ma per fare ciò si avvale di una ricerca etiologica e di una anamne­si, che vanno all’indietro nel tempo.

Non è possibile descrivere una malattia, senza una diagnosi che si richiami anche al passato, tentando di comprendere le cause che hanno portato alla condizione patolo­gica; e senza inoltre proiettarsi nel futuro con la “prognosi”, ovvero con la previsio­ne della possibile evoluzione del disturbo. La diagnosi è il punto d’incontro del pas­sato (anamnesi) col futuro (prognosi): è il presente, arricchito del passato e proiettato nel futuro.

La diagnosi indica una condizione psichica o fisica, ma può anche essere un modo di definire l’altro, che rischia però di imprigionarlo nella definizione che se ne dà; può quindi essere utile o costituire una gabbia. In ogni caso è impossibile procedere, nella vita come nella clinica, senza farvi in qualche modo ricorso. Inoltre la diagnosi esprime anche i significati che una cultura attribuisce alle varie

situazioni esistenziali.

Per quel che riguarda il termine “persona”, oggi più nessuno lo usa per indicare un vol­to o una maschera, ma con esso si designa un essere umano con tutte le caratteristiche che gli sono proprie. Lo si usa nella nostra cultura nei modi più diversi: ha assunto, per esempio, un significato nella discussione teologica e in quella giuridica; io mi rife­rirò qui all’accezione più comune che indi­ca l’essere umano nel suo complesso, con tutte le caratteristiche non ancora distinte. Il termine “persona”, quindi, etimologica­mente si riferisce ad una maschera, una fin­zione dietro la quale dovrebbe esserci qualcos’altro, forse l’attore. Se questi però si leva la maschera, cosa diventa? Si potreb­be rispondere che diventa infine la persona che è! E qui si riuniscono i due significati fondamentali; cosa è infatti la persona se non la maschera che, nella vita o nel teatro, ognuno va rappresentando? Ne deriva che le maschere non sono finzioni; ma, nel loro sovrapporsi, costituiscono l’uomo, in quel momento e in quel luogo. La persona al di fuori di esse è solo un “flatus vocis”.

La diagnosi tenta, di volta in volta, di defi­nire il proprio oggetto di indagine; se que­sto è una persona, ne darà una valutazione sia in sé e per sé, sia riferita ai sintomi pa­tologici.

1.2. LE DIFESE

La diagnosi tenta di definire la persona, che è l’essere umano nella sua interezza; ho già detto che avremmo dovuto dire “la diagno­si e prosopon”, facendo ricorso al termine che in greco può indicare sia il “volto” sia la “maschera”. Mi sono poi chie­sto: perché si ha paura della diagno­si? Ci sono persone che rimandano indefinitamente una visita medica, per pau­ra di una diagnosi da cui si sentirebbero im­prigionati, espropriati e dominati. Nono­stante ciò e in apparente contraddizione c’è però in ciascuno di noi anche il fascino per la diagnosi. La consultazione dell’orosco­po, il gusto per i test, che diventano veri e propri riti stagionali, nascondono più che il desiderio di conoscere il futuro o di cono­scersi davvero, proprio il gusto di sentirsi definire, di identificarsi in un modello. Per non parlare di quelle persone che hanno un vero ed ossessivo bisogno di diagnosi e perseguitano medici e psicoanalisti, sempre ed ovunque. Su cosa si fonda il bisogno di diagnosi? Perché si accetta di essere ingab­biati in una definizione? La risposta sta nel piacere che si prova nel trovarsi al centro dell’interesse di qualcuno. La diagnosi, in­fatti, ci viene sempre da un altro, che può essere sia una persona sia un libro o gior­nale, che comunque ci parla, dall’esterno, di noi. C’è poi una categoria particolare di persone che si compiace dell’auto-diagno­si; che forse però non è una diagnosi.

Si rende ora necessario chiarire due punti fondamentali per la mia teoria psicoanaliti­ca: 1) è impossibile vivere senza difender­si dal pericolo del dolore e della frustra­zione incombenti. Continuamente l’essere umano si difende da qualcosa o da qualcu­no. Anche quando ci lasciamo andare, co­munque ci difendiamo. L’esistenza è trop­po precaria perché non ci si debba sempre difendere: si difende l’organismo e si di­fende la psiche. Il solo essere senza difese è, forse, il cadavere. La difesa è inelimina­bile: la si può però analizzare, cercando di superare i modi difensivi patologici; 2) le due difese fondamentali sono: a) il narcisi­smo; b) il sadomasochismo.

Il narcisismo è il modo perverso di di­fendersi dall’altro – dalla frustrazione che il mondo potrebbe darci – attra­verso due strumenti principali: (1) l’autoesaltazione; (2) la negazione del mondo esterno.

Attraverso l’autoesaltazione percepiamo tutto ciò che avviene nel mondo come di­retto verso di noi. Questa forma può giun­gere fino al delirio narcisistico persecuto­rio e comunque fa sì che vada perduta tut­ta la parte di realtà che in qualche modo non può essere riferita a noi stessi.

Con la negazione rimaniamo chiusi in un mondo fantastico che non coincide con quello reale che ci circonda. In parte que­sta è una condizione generalizzata, in quan­to ciascuno percepisce “a suo modo” il mondo; tuttavia normalmente si riesce a stabilire un rapporto di comunicazione che permette di percepire razionalmente e sen­sualmente gli altri. Nelle forme più spicca­te di narcisismo, invece, si crea una barrie­ra che impedisce di cogliere ciò che è fuo­ri di noi stessi: copriamo l’altro con la bava delle nostre parole, lo nascondiamo dietro i nostri sentimenti.

Il sadomasochismo è la seconda forma di difesa. Il mondo viene in questo caso per­cepito, ma frantumato dal desiderio perver­so. Sadismo e masochismo sono per me vere perversioni, non solo sessuali, ma del comportamento. Il sadico percepisce sì l’al­tro, ma solo per godere della sua sofferen­za. Il masochista, invece, prova piacere sol­tanto se riesce ad entrare in rapporto con qualcuno che lo faccia soffrire. Per en­trambi l’altro è solo strumento passivo di un piacere perverso. Non esiste inoltre un sadico che non sia anche masochista, e vi­ceversa: è un gioco di specchi la cui unica conclusione è la distruzione reciproca.

Il piacere di sentirsi diagnosticato può es­sere proprio sia della difesa narcisistica, in quanto offre l’occasione di riferire tutto a sé; sia di quella sadomasochistica, in

quanto offre l’occasione di provare il gusto di smentire la diagnosi stessa, oppure di abbandonarvisi con com piaciuta sofferenza. Comunque sia, la dia­gnosi ci conferma e ci riconferma nel no­stro esistere.

Infatti una delle esperienze più terribili è quella di non riconoscersi. Abbiamo bisogno di parole attraverso le quali riconoscerci. Se le parole non ci sorreggono e non percepiamo più il desiderio che sta dietro di esse, siamo circondati da suoni senza senso. Senza le parole e il loro significato il desiderio stesso, che pure è originario ed ineliminabile, si disorienta. La diagnosi definisce, rimette in ordine le parole, riapre la strada al desiderio; ci riconferma come esseri esistenti e desideranti. Ecco perché deve sempre venirci dall’Altro. Se viene da noi stessi, rischia di ridursi al meccanismo ossessivo, legato alla soppressione del significato delle parole. Dietro le parole c’è il desiderio dell’altro, il quale definendoci ci offre punti di riferimento e di identificazione. Non basta, ovviamente, che sia un altro qualunque; ma deve avere in sé la capacità di farci desiderare il rapporto. Una persona, insomma, alla quale desideriamo eroticamente abbandonarci e che possiamo amare quel tanto da accettarne la diagnosi. La ricerca della diagnosi incomincia subito: il bambino la richiede all’adulto, e spesso l’adulto gliela impone. In ogni caso non basta al bambino di essere, se non sa che cosa è. Essere, soltanto, equivale a non essere. Semplicemente “esistere” non vuol dire nulla. Ogni cosa che è, anche “ha”. “È” tutto quello che “ha” valore e senso. Come può esistere qualcosa che subito non abbia caratteristiche proprie? L’essere e l’esistere non sono pensabili per se stessi. Ogni cosa che è, quindi, anche ha. Non è l’avere che bisogna superare; ma è l’essere che va superato e sottinteso. L’essere non è il fondamento di nulla, proprio perché lo è di tutto. L’avere è ciò che ha senso. Finché siamo vivi non possiamo che parlare delle cose che sono, dicendo quello che hanno. Quello che una cosa è coincide con quello che ha. La diagnosi non solo definisce quello che siamo, ma ci qualifica per quello che abbiamo.

1.3. L’INTERPRETAZIONE E LA CONOSCENZA

Le persone chiedono di conoscere la dia­gnosi – anche se ne hanno paura – per que­sto bisogno di vedere riconosciuto ciò che hanno e per poteré inserire, o fare inserire, i loro gesti in una definizione. La diagnosi tutto sommato è rassicuratoria: gli esseri umani hanno paura infatti dell’indefinito. Non per nulla gli antichi Greci detestavano l’indefinito, che è la disarmonia. Ognuno di noi ha paura della disarmonia, perché essa è qualcosa che distrugge e disintegra; men­tre l’armonia rende uniti, tranquilli con se stessi ed in pace con gli altri. Sappiamo chi siamo e – più o meno – dove stiamo andan­do. La diagnosi, con tutti i pericoli che comporta, è un’ipotesi di armonia. Allo stesso tempo può però funzionare come li­mite e gabbia. Non c’è bisogno di richia­marsi a Pirandello per dire che il mondo ap­plica etichette sulle persone e le costringe a recitare il ruolo che la società ha loro as­segnato: lo iettatore, l’adultera, il cornuto e via dicendo. Bisogna i t a. reti i re una parte per essere accettati, o – ed è arroaptibin_por­tante_ per riconoscere se st_e.ssi. “Sono un cornuto.” È un’affermazione dolorosa per la cultura sociale in cui siamo inseriti, però, tutto sommato, permette di accettare o ri­fiutare un’identificazione.

Ciò che va oltre la diagnosi è l’interpreta­zione, in greco ermenèia. L’interprete è co­lui che mette in relazione, il mediatore, il sensale. Aristotele dice che l’interpretazio­ne consiste nel mettere in relazione i ter­mini verbali, o i segni, con i pensieri: una parola con il concetto corrispon­dente e quest’ultimo con la cosa.

Quindi abbiamo la successione: segno o pa­rola concetto, cosa. L’interpretazione un atto mentale che mette in rapporto questi tre termini. Nella semiologia contempora­nea di un autore come Morris, per esempio, si parla di un meccanismo istintivo: io ho un pensiero, che è una parola, che riferisco agli oggetti intorno a me. Per comporta- mentisti come Charles Pefi -c-e (Colledèd papers 5. 484) l’interpretazione consiste nel rapporto tra un _segale e posta possibile. In questo caso l’interpretazione è Mettere in relazione due termini uno dei quali spiega l’altro. In questa prospettiva l’interpretazione è spiegazione abituale. Sigmund Freud parla di Deutung, nel sen­so di “svelamento”; di una interpretazione che è il manifestarsi della cosa. In psicoa­nalisi si interpreta; non si danno diagnosi, ma “interpretazioni”. Difficilmente uno psicoanalista dirà: “Ho fatto questa dia­gnosi.” Dirà piuttosto: “Ho interpretato in questo modo.” Quindi: interpretazione come comprensione vera. “Quel sogno vuol dire che tu desideri…”: il disvelamen­to di un desiderio profondo, nascosto.

Allora cosa_ è l’interpretazione? Possiamo genericamente rispondere che è un tentati­vo di raggiungere la verità. Nell’antica -Grecia non è stata tanto la filosofia che ha capito come attraverso Eros si possa co­gliere la verità; ma è stata piuttosto l’arte, e tra le forme d’arte lo si può ben vedere nella tragedia. La verità non è_ mai verità fino in fondo, perché è anche finzione; la qua , a sua volta, contiene in sé elementi di verità. Per capire meglio cosa io intenda per verità bisogna leggere una tragedia greca, guardare una statua di Policleto: forme la cui realtà non è mai quella di una banale-imitazione del vero, ma è interpretazione del mondo. I Greci interpretavano ‘Sempre.

L’interpretazione fa paura perché porta con sé Eros. Non è solo voglia di capire sino in fondo, ma anche di co­struire l’oggetto della comprensione. Io ho paura della parola “interpretazione”. I miei allievi sanno quanto abbia canzonato gli psicoanalisti che abusano del termine, per­ché le _parole possono diventare pericolose.

Esse non hanno un significato di per sé soltanto, ma anche per come e quando, vengo- no pronunciate. Temo che la parola “interpretare” non colga a sufficienza quanto nell’interpretazione ci debba essere di costruzione. Interpretare significa alghe costruire una storia, ritrovarla insieme ,a chi ne è state; il protagonista. La parola “inter­pretazione” spaVenta perché affonda nella persona, che si sente mutare. Per questo, in psicoanalisi, nessuna interpretazione deve essere calata dall’alto, ma espressa attra­verso il rapporto erotico tra paziente ed analista.

1.4. L’INTERPRETAZIONE E LA VERITÀ

Si possono distinguere due atteggiamenti fondamentali, o tipici, secondo me, nei confronti della conoscenza e della possibi­lità di raggiungere la verità: per il primo at­teggiamento la verità esiste ed è raggiungi­bile, perciò è giusto vivere basandosi sulla convinzione di poter acquisire conoscenze scientifiche oggettive che contribuiscono ad orientare tanto la ricerca teorica, quanto la vita quotidiana. È questa una difesa di tipo sadomasochistico di compiacimento nel sentirsi sopraffatti da una verità supe­riore che non si gestisce e non si costrui­sce, ma che può essere imposta con piace­re agli altri. Il secondo atteggiamento, al­trettanto fortemente presente, è quello per cui ognuno si sente chiuso nel proprio mon­do ed ha sfiducia nella possibilità di una verità comune e comunicabile. È que­sta una difesa narcisistica che nega il mondo e mette l’Io al centro dei propri interessi. Il contrasto tra i due atteggia­menti sopra descritti potrebbe essere supe­rato da un terzo tipo di approccio alla ve­rità che io definisco “erotico”, per cui la ve­rità è una possibilità che si costruisce però sono purtroppo quelle prevalenti perché più banali, mentre la terza scelta va oltre la ba­nalità affrontando il livello più elevato, il solo che sia in grado di comprendere il si­gnificato di Eros. Noi viviamo continua­mente nella banalità e mi riferisco non sol­tanto a quella dei grandi mezzi di comuni­cazione e di informazione, ma anche a quella dei manuali di filosofia, che pro­pongono solo schematizzazioni del diveni­re del pensiero umano, e la schematizza­zione è sempre una banalizzazione, come l’eccessiva semplificazione.

Il problema della conoscenza della verità va visto dinamicamente: la conoscenza che si ha nel presente non deve mai essere in­tesa come esauriente, ma come un avvici­namento ad una verità che resta sempre da raggiungere. Se la verità fosse stata una volta sola raggiunta, la storia del pensiero e della scienza si sarebbe fermata in quel punto; mentre, al contrario, la storia della scienza e della filosofia è un continuo con­traddirsi, dubitare, procedere, tentando e ri­tentando, in una marcia inarrestabile.

La scienza non può dunque che essere tentativo continui di interpretazione, in due accezioni: il primo di attribuzione-di un nome ad un oggetto designato; il secondo di Deutung in senso freudiano, di chiarimento di ciò che è oscuro, svelamento di quanto è nascosto. Queste due accezioni talvolta collimano: in fondo dare il nome appropriato ad un oggetto designato è anche un modo di chiarirne il significato, di definirlo, di operarne una diagnosi che trasformandosi in interpretazione cercherà di chiarire ciò che è oscuro. La scienza non può limitarsi ad essere descrizione e neppure può esprimersi per dogmi e se qualche volta, per ragioni me­todologiche, assume atteggiamenti dogma­tici, questi debbono costituire i punti di par­tenza per la successiva interpretazione. È importante essere consapevoli del relativi­smo scientifico: ogni tentativo di chiari­mento è destinato ad essere contraddetto dalla storia stessa della scienza; e questo vale per gli scienziati e per i filosofi, ma anche per gli esseri umani che ogni giorno cercano di orientarsi nel mondo in cui vi­vono. L’interpretazione della scienza signi­fica cercare di chiarire con la massima con­sapevolezza possibile l’ambiguità che è sempre contenuta in ogni affermazione.

L’interpretazione in psicoanalisi è di due tipi: una è l’interpretazione che dal tera­peuta si rivolge verso l’analizzato e l’altra è l’interpretazione che l’analizzato opera di se stesso e di ciò che gli viene detto. Re­spingo l’idea di un’interpretazione che si cali sul paziente come un dogma, che lo im­prigioni come una gabbia; l’interpretazione dell’analista deve essere un modo di avvi­cinarsi alla persona che gli si trova di fron­te, chiarendo, definendo, diagnosticando, rendendo esplicitccciò che nei discorsi dell’analizzato e solo implicito. Il paziente non deve sentire le parole del terapeuta piombargli addosso all’improvviso, come provenienti dal nulla. L’analista deve pren­dere in considerazione la persona che ha di fronte, osservarne il comportamento, va­gliarne i discorsi, leggere le interpretazioni che l’analizzato tenta di se stesso, rivol­gendosi all’analista come il “tu” sul quale proietta anche le figure del passato. Solo dopo aver ascoltato a lungo, l’analista po­trà legittimamente proporre la propria in­terpretazione che troverà però a riceverla una persona tutt’altro che inerte. Diffi­cilmente il paziente si abbandona, spesso anzi reagisce addirittura ag­gredendo e negando. Nessuno riesce ad assorbire completamente ciò che gli vie­ne detto, a fondersi con ciò che l’altro gli dice; ciascuno cerca di dare la propria in­terpretazione, per difendersi. Per capire si deve però interpretare: l’analizzato prima interpreta se stesso, poi quello che gli vie­ne detto e questa interpretazione è sempre deformante di quello che era nelle inten­zioni dell’analista di comunicare. La per­sona che riceve l’interpretazione la rilancia sull’analista come l’ha percepita, come l’ha voluta capire.

Freud in una delle ultime opere: Costruzioni nell’analisi, afferma che bisognerebbe sostituire il termine “interpretazione” con”costruzione”; in questo scritto pacato e al di sopra dei bisogni della polemica si enuncia un concetto di “costruzione” che è molto simile al mio di “interpretazione”. Dice Freud che l’analista non deve accettare ne i sì né i no del p azieTitéT2dEhé. entrambe le risposte celano qualcosa di molto diverso e profondo. Quasi sempre quando un analizzato dice qualcosa, cerca di razionalizzare, di rendere ovvio, di semplificare per evitare di dover affrontare realtà troppo complesse e faticose da accettare. Io aggiungerei che il paziente “resiste” non solo quando rifiuta l’interpretazione, ma faIV-olta,persino quando l’accetta, pnr disliaiazzarseze. Se l’analista però interpreta questa resistenza si vedrà opporre una nuova razionalizzazione, in un continuo rimando, simile ad un infinito gioco di specchi, che rischia di esser ossessivo e distruttivo se nonmsubentra ad un certo punto la capacità dimabbandonarsi eroticamente all’interpretazione dell’altro, permettendo così al lavoro analitico di procedere verso la guarigione. Freud non ha parlato di questo gioco di specchi, perché ha avuto paura di parlare di Eros. Egli si limitò in tutta la sua opera a parlare di “libido”, un meccanismo che pure in parte entra in questo gioco ossessivo, ma che non è sufficiente a sbloccare il rapporto analitico, se non interviene la capacità di entrambi gli interlocutori di superare il momento libidi­co abbandonandosi a quell’Eros in assenza del quale ogni analisi diventa sterile.

La razionalizzazione è una difesa da Eros e dalla presa di coscienza ed anche in que­sto caso si esprime attraverso i due modi fondamentali: narcisismo o sadomasochi­smo che però sono attivi già prima, dalla prima volta che una frustrazione ha bloc­cato il nostro tendere erotico verso il mon­do. Messi di fronte ad un’esperienza fru­strante che ci ha procurato dolore noi o lo abbiamo accettato come un modo dell’esperienza – abbiamo cioè reagito con la difesa sadomasochistica – o lo abbiamo ne­gato concentrandoci e ripiegandoci solo su noi stessi – narcisisticamente -. La sovrap­posizione o, peggio, la chiusura totale di questi due modi difensivi procura quel di­sturbo mentale che ha il suo culmine nella follia. È difficilissimo e allo stesso tempo facile definire la follia: nasce quando si smarrisce Eros e le due difese sovrapposte rinchiudono l’individuo in se stesso vittima di quella che un tempo si chiamava “psi­cosi”. In condizioni meno rigide ed assolu­te di chiusura, il prevalere di uno o dell’al­tro meccanismo ingenera una condizione di disorientamento più o meno grave comu­nemente chiamato “nevrosi”. Io sono pro­penso ad applicare elasticamente queste di­stinzioni, ma in ogni caso il sole modo di intervenire consiste nell’aiutare chi sta male a riacquistare la capacità di percepire “er-oticamente”- il mondo,- Vincendo le resistenze dell’analisi e le difese fondamentali del narcisismo e del sadomasochismo.