1.1 LE MASCHERE E L’ATTORE
DIAGNOSI è un termine derivato dal greco dià-ghignosko, che significa “conoscere at‑traverso”.
PERSONA deriva dal latino persona e dall’etrusco persu; ma ha anche una derivazione dal termine greco prosopon, che indicava il volto umano o la maschera dell’attore della tragedia.
Cosa è la diagnosi? La diagnosi, in genere, è la determinazione, operata dal medico o dal terapeuta, della natura di un sintomo patologico, o del complesso di sintomi che costituiscono una malattia.
La diagnosi è anche l’analisi di un fatto o di un fenomeno non necessariamente di natura morbosa. Essa va oltre la pura e semplice descrizione. Descrivere infatti vuol dire analizzare la struttura di un oggetto, scomponendone gli elementi. In questo senso la diagnosi è, in parte, descrizione; ma è anche altro. In quanto: “conoscere attraverso” opera uno spaccato della realtà, ma per fare ciò si avvale di una ricerca etiologica e di una anamnesi, che vanno all’indietro nel tempo.
Non è possibile descrivere una malattia, senza una diagnosi che si richiami anche al passato, tentando di comprendere le cause che hanno portato alla condizione patologica; e senza inoltre proiettarsi nel futuro con la “prognosi”, ovvero con la previsione della possibile evoluzione del disturbo. La diagnosi è il punto d’incontro del passato (anamnesi) col futuro (prognosi): è il presente, arricchito del passato e proiettato nel futuro.
La diagnosi indica una condizione psichica o fisica, ma può anche essere un modo di definire l’altro, che rischia però di imprigionarlo nella definizione che se ne dà; può quindi essere utile o costituire una gabbia. In ogni caso è impossibile procedere, nella vita come nella clinica, senza farvi in qualche modo ricorso. Inoltre la diagnosi esprime anche i significati che una cultura attribuisce alle varie
situazioni esistenziali.
Per quel che riguarda il termine “persona”, oggi più nessuno lo usa per indicare un volto o una maschera, ma con esso si designa un essere umano con tutte le caratteristiche che gli sono proprie. Lo si usa nella nostra cultura nei modi più diversi: ha assunto, per esempio, un significato nella discussione teologica e in quella giuridica; io mi riferirò qui all’accezione più comune che indica l’essere umano nel suo complesso, con tutte le caratteristiche non ancora distinte. Il termine “persona”, quindi, etimologicamente si riferisce ad una maschera, una finzione dietro la quale dovrebbe esserci qualcos’altro, forse l’attore. Se questi però si leva la maschera, cosa diventa? Si potrebbe rispondere che diventa infine la persona che è! E qui si riuniscono i due significati fondamentali; cosa è infatti la persona se non la maschera che, nella vita o nel teatro, ognuno va rappresentando? Ne deriva che le maschere non sono finzioni; ma, nel loro sovrapporsi, costituiscono l’uomo, in quel momento e in quel luogo. La persona al di fuori di esse è solo un “flatus vocis”.
La diagnosi tenta, di volta in volta, di definire il proprio oggetto di indagine; se questo è una persona, ne darà una valutazione sia in sé e per sé, sia riferita ai sintomi patologici.
1.2. LE DIFESE
La diagnosi tenta di definire la persona, che è l’essere umano nella sua interezza; ho già detto che avremmo dovuto dire “la diagnosi e prosopon”, facendo ricorso al termine che in greco può indicare sia il “volto” sia la “maschera”. Mi sono poi chiesto: perché si ha paura della diagnosi? Ci sono persone che rimandano indefinitamente una visita medica, per paura di una diagnosi da cui si sentirebbero imprigionati, espropriati e dominati. Nonostante ciò e in apparente contraddizione c’è però in ciascuno di noi anche il fascino per la diagnosi. La consultazione dell’oroscopo, il gusto per i test, che diventano veri e propri riti stagionali, nascondono più che il desiderio di conoscere il futuro o di conoscersi davvero, proprio il gusto di sentirsi definire, di identificarsi in un modello. Per non parlare di quelle persone che hanno un vero ed ossessivo bisogno di diagnosi e perseguitano medici e psicoanalisti, sempre ed ovunque. Su cosa si fonda il bisogno di diagnosi? Perché si accetta di essere ingabbiati in una definizione? La risposta sta nel piacere che si prova nel trovarsi al centro dell’interesse di qualcuno. La diagnosi, infatti, ci viene sempre da un altro, che può essere sia una persona sia un libro o giornale, che comunque ci parla, dall’esterno, di noi. C’è poi una categoria particolare di persone che si compiace dell’auto-diagnosi; che forse però non è una diagnosi.
Si rende ora necessario chiarire due punti fondamentali per la mia teoria psicoanalitica: 1) è impossibile vivere senza difendersi dal pericolo del dolore e della frustrazione incombenti. Continuamente l’essere umano si difende da qualcosa o da qualcuno. Anche quando ci lasciamo andare, comunque ci difendiamo. L’esistenza è troppo precaria perché non ci si debba sempre difendere: si difende l’organismo e si difende la psiche. Il solo essere senza difese è, forse, il cadavere. La difesa è ineliminabile: la si può però analizzare, cercando di superare i modi difensivi patologici; 2) le due difese fondamentali sono: a) il narcisismo; b) il sadomasochismo.
Il narcisismo è il modo perverso di difendersi dall’altro – dalla frustrazione che il mondo potrebbe darci – attraverso due strumenti principali: (1) l’autoesaltazione; (2) la negazione del mondo esterno.
Attraverso l’autoesaltazione percepiamo tutto ciò che avviene nel mondo come diretto verso di noi. Questa forma può giungere fino al delirio narcisistico persecutorio e comunque fa sì che vada perduta tutta la parte di realtà che in qualche modo non può essere riferita a noi stessi.
Con la negazione rimaniamo chiusi in un mondo fantastico che non coincide con quello reale che ci circonda. In parte questa è una condizione generalizzata, in quanto ciascuno percepisce “a suo modo” il mondo; tuttavia normalmente si riesce a stabilire un rapporto di comunicazione che permette di percepire razionalmente e sensualmente gli altri. Nelle forme più spiccate di narcisismo, invece, si crea una barriera che impedisce di cogliere ciò che è fuori di noi stessi: copriamo l’altro con la bava delle nostre parole, lo nascondiamo dietro i nostri sentimenti.
Il sadomasochismo è la seconda forma di difesa. Il mondo viene in questo caso percepito, ma frantumato dal desiderio perverso. Sadismo e masochismo sono per me vere perversioni, non solo sessuali, ma del comportamento. Il sadico percepisce sì l’altro, ma solo per godere della sua sofferenza. Il masochista, invece, prova piacere soltanto se riesce ad entrare in rapporto con qualcuno che lo faccia soffrire. Per entrambi l’altro è solo strumento passivo di un piacere perverso. Non esiste inoltre un sadico che non sia anche masochista, e viceversa: è un gioco di specchi la cui unica conclusione è la distruzione reciproca.
Il piacere di sentirsi diagnosticato può essere proprio sia della difesa narcisistica, in quanto offre l’occasione di riferire tutto a sé; sia di quella sadomasochistica, in
quanto offre l’occasione di provare il gusto di smentire la diagnosi stessa, oppure di abbandonarvisi con com piaciuta sofferenza. Comunque sia, la diagnosi ci conferma e ci riconferma nel nostro esistere.
Infatti una delle esperienze più terribili è quella di non riconoscersi. Abbiamo bisogno di parole attraverso le quali riconoscerci. Se le parole non ci sorreggono e non percepiamo più il desiderio che sta dietro di esse, siamo circondati da suoni senza senso. Senza le parole e il loro significato il desiderio stesso, che pure è originario ed ineliminabile, si disorienta. La diagnosi definisce, rimette in ordine le parole, riapre la strada al desiderio; ci riconferma come esseri esistenti e desideranti. Ecco perché deve sempre venirci dall’Altro. Se viene da noi stessi, rischia di ridursi al meccanismo ossessivo, legato alla soppressione del significato delle parole. Dietro le parole c’è il desiderio dell’altro, il quale definendoci ci offre punti di riferimento e di identificazione. Non basta, ovviamente, che sia un altro qualunque; ma deve avere in sé la capacità di farci desiderare il rapporto. Una persona, insomma, alla quale desideriamo eroticamente abbandonarci e che possiamo amare quel tanto da accettarne la diagnosi. La ricerca della diagnosi incomincia subito: il bambino la richiede all’adulto, e spesso l’adulto gliela impone. In ogni caso non basta al bambino di essere, se non sa che cosa è. Essere, soltanto, equivale a non essere. Semplicemente “esistere” non vuol dire nulla. Ogni cosa che è, anche “ha”. “È” tutto quello che “ha” valore e senso. Come può esistere qualcosa che subito non abbia caratteristiche proprie? L’essere e l’esistere non sono pensabili per se stessi. Ogni cosa che è, quindi, anche ha. Non è l’avere che bisogna superare; ma è l’essere che va superato e sottinteso. L’essere non è il fondamento di nulla, proprio perché lo è di tutto. L’avere è ciò che ha senso. Finché siamo vivi non possiamo che parlare delle cose che sono, dicendo quello che hanno. Quello che una cosa è coincide con quello che ha. La diagnosi non solo definisce quello che siamo, ma ci qualifica per quello che abbiamo.
1.3. L’INTERPRETAZIONE E LA CONOSCENZA
Le persone chiedono di conoscere la diagnosi – anche se ne hanno paura – per questo bisogno di vedere riconosciuto ciò che hanno e per poteré inserire, o fare inserire, i loro gesti in una definizione. La diagnosi tutto sommato è rassicuratoria: gli esseri umani hanno paura infatti dell’indefinito. Non per nulla gli antichi Greci detestavano l’indefinito, che è la disarmonia. Ognuno di noi ha paura della disarmonia, perché essa è qualcosa che distrugge e disintegra; mentre l’armonia rende uniti, tranquilli con se stessi ed in pace con gli altri. Sappiamo chi siamo e – più o meno – dove stiamo andando. La diagnosi, con tutti i pericoli che comporta, è un’ipotesi di armonia. Allo stesso tempo può però funzionare come limite e gabbia. Non c’è bisogno di richiamarsi a Pirandello per dire che il mondo applica etichette sulle persone e le costringe a recitare il ruolo che la società ha loro assegnato: lo iettatore, l’adultera, il cornuto e via dicendo. Bisogna i t a. reti i re una parte per essere accettati, o – ed è arroaptibin_portante_ per riconoscere se st_e.ssi. “Sono un cornuto.” È un’affermazione dolorosa per la cultura sociale in cui siamo inseriti, però, tutto sommato, permette di accettare o rifiutare un’identificazione.
Ciò che va oltre la diagnosi è l’interpretazione, in greco ermenèia. L’interprete è colui che mette in relazione, il mediatore, il sensale. Aristotele dice che l’interpretazione consiste nel mettere in relazione i termini verbali, o i segni, con i pensieri: una parola con il concetto corrispondente e quest’ultimo con la cosa.
Quindi abbiamo la successione: segno o parola concetto, cosa. L’interpretazione un atto mentale che mette in rapporto questi tre termini. Nella semiologia contemporanea di un autore come Morris, per esempio, si parla di un meccanismo istintivo: io ho un pensiero, che è una parola, che riferisco agli oggetti intorno a me. Per comporta- mentisti come Charles Pefi -c-e (Colledèd papers 5. 484) l’interpretazione consiste nel rapporto tra un _segale e posta possibile. In questo caso l’interpretazione è Mettere in relazione due termini uno dei quali spiega l’altro. In questa prospettiva l’interpretazione è spiegazione abituale. Sigmund Freud parla di Deutung, nel senso di “svelamento”; di una interpretazione che è il manifestarsi della cosa. In psicoanalisi si interpreta; non si danno diagnosi, ma “interpretazioni”. Difficilmente uno psicoanalista dirà: “Ho fatto questa diagnosi.” Dirà piuttosto: “Ho interpretato in questo modo.” Quindi: interpretazione come comprensione vera. “Quel sogno vuol dire che tu desideri…”: il disvelamento di un desiderio profondo, nascosto.
Allora cosa_ è l’interpretazione? Possiamo genericamente rispondere che è un tentativo di raggiungere la verità. Nell’antica -Grecia non è stata tanto la filosofia che ha capito come attraverso Eros si possa cogliere la verità; ma è stata piuttosto l’arte, e tra le forme d’arte lo si può ben vedere nella tragedia. La verità non è_ mai verità fino in fondo, perché è anche finzione; la qua , a sua volta, contiene in sé elementi di verità. Per capire meglio cosa io intenda per verità bisogna leggere una tragedia greca, guardare una statua di Policleto: forme la cui realtà non è mai quella di una banale-imitazione del vero, ma è interpretazione del mondo. I Greci interpretavano ‘Sempre.
L’interpretazione fa paura perché porta con sé Eros. Non è solo voglia di capire sino in fondo, ma anche di costruire l’oggetto della comprensione. Io ho paura della parola “interpretazione”. I miei allievi sanno quanto abbia canzonato gli psicoanalisti che abusano del termine, perché le _parole possono diventare pericolose.
Esse non hanno un significato di per sé soltanto, ma anche per come e quando, vengo- no pronunciate. Temo che la parola “interpretare” non colga a sufficienza quanto nell’interpretazione ci debba essere di costruzione. Interpretare significa alghe costruire una storia, ritrovarla insieme ,a chi ne è state; il protagonista. La parola “interpretazione” spaVenta perché affonda nella persona, che si sente mutare. Per questo, in psicoanalisi, nessuna interpretazione deve essere calata dall’alto, ma espressa attraverso il rapporto erotico tra paziente ed analista.
1.4. L’INTERPRETAZIONE E LA VERITÀ
Si possono distinguere due atteggiamenti fondamentali, o tipici, secondo me, nei confronti della conoscenza e della possibilità di raggiungere la verità: per il primo atteggiamento la verità esiste ed è raggiungibile, perciò è giusto vivere basandosi sulla convinzione di poter acquisire conoscenze scientifiche oggettive che contribuiscono ad orientare tanto la ricerca teorica, quanto la vita quotidiana. È questa una difesa di tipo sadomasochistico di compiacimento nel sentirsi sopraffatti da una verità superiore che non si gestisce e non si costruisce, ma che può essere imposta con piacere agli altri. Il secondo atteggiamento, altrettanto fortemente presente, è quello per cui ognuno si sente chiuso nel proprio mondo ed ha sfiducia nella possibilità di una verità comune e comunicabile. È questa una difesa narcisistica che nega il mondo e mette l’Io al centro dei propri interessi. Il contrasto tra i due atteggiamenti sopra descritti potrebbe essere superato da un terzo tipo di approccio alla verità che io definisco “erotico”, per cui la verità è una possibilità che si costruisce però sono purtroppo quelle prevalenti perché più banali, mentre la terza scelta va oltre la banalità affrontando il livello più elevato, il solo che sia in grado di comprendere il significato di Eros. Noi viviamo continuamente nella banalità e mi riferisco non soltanto a quella dei grandi mezzi di comunicazione e di informazione, ma anche a quella dei manuali di filosofia, che propongono solo schematizzazioni del divenire del pensiero umano, e la schematizzazione è sempre una banalizzazione, come l’eccessiva semplificazione.
Il problema della conoscenza della verità va visto dinamicamente: la conoscenza che si ha nel presente non deve mai essere intesa come esauriente, ma come un avvicinamento ad una verità che resta sempre da raggiungere. Se la verità fosse stata una volta sola raggiunta, la storia del pensiero e della scienza si sarebbe fermata in quel punto; mentre, al contrario, la storia della scienza e della filosofia è un continuo contraddirsi, dubitare, procedere, tentando e ritentando, in una marcia inarrestabile.
La scienza non può dunque che essere tentativo continui di interpretazione, in due accezioni: il primo di attribuzione-di un nome ad un oggetto designato; il secondo di Deutung in senso freudiano, di chiarimento di ciò che è oscuro, svelamento di quanto è nascosto. Queste due accezioni talvolta collimano: in fondo dare il nome appropriato ad un oggetto designato è anche un modo di chiarirne il significato, di definirlo, di operarne una diagnosi che trasformandosi in interpretazione cercherà di chiarire ciò che è oscuro. La scienza non può limitarsi ad essere descrizione e neppure può esprimersi per dogmi e se qualche volta, per ragioni metodologiche, assume atteggiamenti dogmatici, questi debbono costituire i punti di partenza per la successiva interpretazione. È importante essere consapevoli del relativismo scientifico: ogni tentativo di chiarimento è destinato ad essere contraddetto dalla storia stessa della scienza; e questo vale per gli scienziati e per i filosofi, ma anche per gli esseri umani che ogni giorno cercano di orientarsi nel mondo in cui vivono. L’interpretazione della scienza significa cercare di chiarire con la massima consapevolezza possibile l’ambiguità che è sempre contenuta in ogni affermazione.
L’interpretazione in psicoanalisi è di due tipi: una è l’interpretazione che dal terapeuta si rivolge verso l’analizzato e l’altra è l’interpretazione che l’analizzato opera di se stesso e di ciò che gli viene detto. Respingo l’idea di un’interpretazione che si cali sul paziente come un dogma, che lo imprigioni come una gabbia; l’interpretazione dell’analista deve essere un modo di avvicinarsi alla persona che gli si trova di fronte, chiarendo, definendo, diagnosticando, rendendo esplicitccciò che nei discorsi dell’analizzato e solo implicito. Il paziente non deve sentire le parole del terapeuta piombargli addosso all’improvviso, come provenienti dal nulla. L’analista deve prendere in considerazione la persona che ha di fronte, osservarne il comportamento, vagliarne i discorsi, leggere le interpretazioni che l’analizzato tenta di se stesso, rivolgendosi all’analista come il “tu” sul quale proietta anche le figure del passato. Solo dopo aver ascoltato a lungo, l’analista potrà legittimamente proporre la propria interpretazione che troverà però a riceverla una persona tutt’altro che inerte. Difficilmente il paziente si abbandona, spesso anzi reagisce addirittura aggredendo e negando. Nessuno riesce ad assorbire completamente ciò che gli viene detto, a fondersi con ciò che l’altro gli dice; ciascuno cerca di dare la propria interpretazione, per difendersi. Per capire si deve però interpretare: l’analizzato prima interpreta se stesso, poi quello che gli viene detto e questa interpretazione è sempre deformante di quello che era nelle intenzioni dell’analista di comunicare. La persona che riceve l’interpretazione la rilancia sull’analista come l’ha percepita, come l’ha voluta capire.
Freud in una delle ultime opere: Costruzioni nell’analisi, afferma che bisognerebbe sostituire il termine “interpretazione” con”costruzione”; in questo scritto pacato e al di sopra dei bisogni della polemica si enuncia un concetto di “costruzione” che è molto simile al mio di “interpretazione”. Dice Freud che l’analista non deve accettare ne i sì né i no del p azieTitéT2dEhé. entrambe le risposte celano qualcosa di molto diverso e profondo. Quasi sempre quando un analizzato dice qualcosa, cerca di razionalizzare, di rendere ovvio, di semplificare per evitare di dover affrontare realtà troppo complesse e faticose da accettare. Io aggiungerei che il paziente “resiste” non solo quando rifiuta l’interpretazione, ma faIV-olta,persino quando l’accetta, pnr disliaiazzarseze. Se l’analista però interpreta questa resistenza si vedrà opporre una nuova razionalizzazione, in un continuo rimando, simile ad un infinito gioco di specchi, che rischia di esser ossessivo e distruttivo se nonmsubentra ad un certo punto la capacità dimabbandonarsi eroticamente all’interpretazione dell’altro, permettendo così al lavoro analitico di procedere verso la guarigione. Freud non ha parlato di questo gioco di specchi, perché ha avuto paura di parlare di Eros. Egli si limitò in tutta la sua opera a parlare di “libido”, un meccanismo che pure in parte entra in questo gioco ossessivo, ma che non è sufficiente a sbloccare il rapporto analitico, se non interviene la capacità di entrambi gli interlocutori di superare il momento libidico abbandonandosi a quell’Eros in assenza del quale ogni analisi diventa sterile.
La razionalizzazione è una difesa da Eros e dalla presa di coscienza ed anche in questo caso si esprime attraverso i due modi fondamentali: narcisismo o sadomasochismo che però sono attivi già prima, dalla prima volta che una frustrazione ha bloccato il nostro tendere erotico verso il mondo. Messi di fronte ad un’esperienza frustrante che ci ha procurato dolore noi o lo abbiamo accettato come un modo dell’esperienza – abbiamo cioè reagito con la difesa sadomasochistica – o lo abbiamo negato concentrandoci e ripiegandoci solo su noi stessi – narcisisticamente -. La sovrapposizione o, peggio, la chiusura totale di questi due modi difensivi procura quel disturbo mentale che ha il suo culmine nella follia. È difficilissimo e allo stesso tempo facile definire la follia: nasce quando si smarrisce Eros e le due difese sovrapposte rinchiudono l’individuo in se stesso vittima di quella che un tempo si chiamava “psicosi”. In condizioni meno rigide ed assolute di chiusura, il prevalere di uno o dell’altro meccanismo ingenera una condizione di disorientamento più o meno grave comunemente chiamato “nevrosi”. Io sono propenso ad applicare elasticamente queste distinzioni, ma in ogni caso il sole modo di intervenire consiste nell’aiutare chi sta male a riacquistare la capacità di percepire “er-oticamente”- il mondo,- Vincendo le resistenze dell’analisi e le difese fondamentali del narcisismo e del sadomasochismo.