Psicoanalisi contro n.1 – La diagnosi e la persona (Sezione prima)

maggio , 1993

1.1  LE MASCHERE E L’ATTORE

DIAGNOSI è un termine deri­vato dal greco dià-ghignosko, che significa “conoscere at‑traverso”.

PERSONA deriva dal latino persona e dall’etrusco persu; ma ha anche una deri­vazione dal termine greco prosopon, che indicava il volto umano o la maschera dell’attore della tragedia.

Cosa è la diagnosi? La diagnosi, in genere, è la determinazione, operata dal medico o dal terapeuta, della natura di un sintomo patologico, o del complesso di sintomi che costituiscono una malattia.

La diagnosi è anche l’analisi di un fatto o di un fenomeno non necessariamente di na­tura morbosa. Essa va oltre la pura e sem­plice descrizione. Descrivere infatti vuol dire analizzare la struttura di un oggetto, scomponendone gli elementi. In que­sto senso la diagnosi è, in parte, de­scrizione; ma è anche altro. In quanto: “conoscere attraverso” opera uno spac­cato della realtà, ma per fare ciò si avvale di una ricerca etiologica e di una anamne­si, che vanno all’indietro nel tempo.

Non è possibile descrivere una malattia, senza una diagnosi che si richiami anche al passato, tentando di comprendere le cause che hanno portato alla condizione patolo­gica; e senza inoltre proiettarsi nel futuro con la “prognosi”, ovvero con la previsio­ne della possibile evoluzione del disturbo. La diagnosi è il punto d’incontro del pas­sato (anamnesi) col futuro (prognosi): è il presente, arricchito del passato e proiettato nel futuro.

La diagnosi indica una condizione psichica o fisica, ma può anche essere un modo di definire l’altro, che rischia però di imprigionarlo nella definizione che se ne dà; può quindi essere utile o costituire una gabbia. In ogni caso è impossibile procedere, nella vita come nella clinica, senza farvi in qualche modo ricorso. Inoltre la diagnosi esprime anche i significati che una cultura attribuisce alle varie

situazioni esistenziali.

Per quel che riguarda il termine “persona”, oggi più nessuno lo usa per indicare un vol­to o una maschera, ma con esso si designa un essere umano con tutte le caratteristiche che gli sono proprie. Lo si usa nella nostra cultura nei modi più diversi: ha assunto, per esempio, un significato nella discussione teologica e in quella giuridica; io mi rife­rirò qui all’accezione più comune che indi­ca l’essere umano nel suo complesso, con tutte le caratteristiche non ancora distinte. Il termine “persona”, quindi, etimologica­mente si riferisce ad una maschera, una fin­zione dietro la quale dovrebbe esserci qualcos’altro, forse l’attore. Se questi però si leva la maschera, cosa diventa? Si potreb­be rispondere che diventa infine la persona che è! E qui si riuniscono i due significati fondamentali; cosa è infatti la persona se non la maschera che, nella vita o nel teatro, ognuno va rappresentando? Ne deriva che le maschere non sono finzioni; ma, nel loro sovrapporsi, costituiscono l’uomo, in quel momento e in quel luogo. La persona al di fuori di esse è solo un “flatus vocis”.

La diagnosi tenta, di volta in volta, di defi­nire il proprio oggetto di indagine; se que­sto è una persona, ne darà una valutazione sia in sé e per sé, sia riferita ai sintomi pa­tologici.

1.2. LE DIFESE

La diagnosi tenta di definire la persona, che è l’essere umano nella sua interezza; ho già detto che avremmo dovuto dire “la diagno­si e prosopon”, facendo ricorso al termine che in greco può indicare sia il “volto” sia la “maschera”. Mi sono poi chie­sto: perché si ha paura della diagno­si? Ci sono persone che rimandano indefinitamente una visita medica, per pau­ra di una diagnosi da cui si sentirebbero im­prigionati, espropriati e dominati. Nono­stante ciò e in apparente contraddizione c’è però in ciascuno di noi anche il fascino per la diagnosi. La consultazione dell’orosco­po, il gusto per i test, che diventano veri e propri riti stagionali, nascondono più che il desiderio di conoscere il futuro o di cono­scersi davvero, proprio il gusto di sentirsi definire, di identificarsi in un modello. Per non parlare di quelle persone che hanno un vero ed ossessivo bisogno di diagnosi e perseguitano medici e psicoanalisti, sempre ed ovunque. Su cosa si fonda il bisogno di diagnosi? Perché si accetta di essere ingab­biati in una definizione? La risposta sta nel piacere che si prova nel trovarsi al centro dell’interesse di qualcuno. La diagnosi, in­fatti, ci viene sempre da un altro, che può essere sia una persona sia un libro o gior­nale, che comunque ci parla, dall’esterno, di noi. C’è poi una categoria particolare di persone che si compiace dell’auto-diagno­si; che forse però non è una diagnosi.

Si rende ora necessario chiarire due punti fondamentali per la mia teoria psicoanaliti­ca: 1) è impossibile vivere senza difender­si dal pericolo del dolore e della frustra­zione incombenti. Continuamente l’essere umano si difende da qualcosa o da qualcu­no. Anche quando ci lasciamo andare, co­munque ci difendiamo. L’esistenza è trop­po precaria perché non ci si debba sempre difendere: si difende l’organismo e si di­fende la psiche. Il solo essere senza difese è, forse, il cadavere. La difesa è inelimina­bile: la si può però analizzare, cercando di superare i modi difensivi patologici; 2) le due difese fondamentali sono: a) il narcisi­smo; b) il sadomasochismo.

Il narcisismo è il modo perverso di di­fendersi dall’altro – dalla frustrazione che il mondo potrebbe darci – attra­verso due strumenti principali: (1) l’autoesaltazione; (2) la negazione del mondo esterno.

Attraverso l’autoesaltazione percepiamo tutto ciò che avviene nel mondo come di­retto verso di noi. Questa forma può giun­gere fino al delirio narcisistico persecuto­rio e comunque fa sì che vada perduta tut­ta la parte di realtà che in qualche modo non può essere riferita a noi stessi.

Con la negazione rimaniamo chiusi in un mondo fantastico che non coincide con quello reale che ci circonda. In parte que­sta è una condizione generalizzata, in quan­to ciascuno percepisce “a suo modo” il mondo; tuttavia normalmente si riesce a stabilire un rapporto di comunicazione che permette di percepire razionalmente e sen­sualmente gli altri. Nelle forme più spicca­te di narcisismo, invece, si crea una barrie­ra che impedisce di cogliere ciò che è fuo­ri di noi stessi: copriamo l’altro con la bava delle nostre parole, lo nascondiamo dietro i nostri sentimenti.

Il sadomasochismo è la seconda forma di difesa. Il mondo viene in questo caso per­cepito, ma frantumato dal desiderio perver­so. Sadismo e masochismo sono per me vere perversioni, non solo sessuali, ma del comportamento. Il sadico percepisce sì l’al­tro, ma solo per godere della sua sofferen­za. Il masochista, invece, prova piacere sol­tanto se riesce ad entrare in rapporto con qualcuno che lo faccia soffrire. Per en­trambi l’altro è solo strumento passivo di un piacere perverso. Non esiste inoltre un sadico che non sia anche masochista, e vi­ceversa: è un gioco di specchi la cui unica conclusione è la distruzione reciproca.

Il piacere di sentirsi diagnosticato può es­sere proprio sia della difesa narcisistica, in quanto offre l’occasione di riferire tutto a sé; sia di quella sadomasochistica, in

quanto offre l’occasione di provare il gusto di smentire la diagnosi stessa, oppure di abbandonarvisi con com piaciuta sofferenza. Comunque sia, la dia­gnosi ci conferma e ci riconferma nel no­stro esistere.

Infatti una delle esperienze più terribili è quella di non riconoscersi. Abbiamo bisogno di parole attraverso le quali riconoscerci. Se le parole non ci sorreggono e non percepiamo più il desiderio che sta dietro di esse, siamo circondati da suoni senza senso. Senza le parole e il loro significato il desiderio stesso, che pure è originario ed ineliminabile, si disorienta. La diagnosi definisce, rimette in ordine le parole, riapre la strada al desiderio; ci riconferma come esseri esistenti e desideranti. Ecco perché deve sempre venirci dall’Altro. Se viene da noi stessi, rischia di ridursi al meccanismo ossessivo, legato alla soppressione del significato delle parole. Dietro le parole c’è il desiderio dell’altro, il quale definendoci ci offre punti di riferimento e di identificazione. Non basta, ovviamente, che sia un altro qualunque; ma deve avere in sé la capacità di farci desiderare il rapporto. Una persona, insomma, alla quale desideriamo eroticamente abbandonarci e che possiamo amare quel tanto da accettarne la diagnosi. La ricerca della diagnosi incomincia subito: il bambino la richiede all’adulto, e spesso l’adulto gliela impone. In ogni caso non basta al bambino di essere, se non sa che cosa è. Essere, soltanto, equivale a non essere. Semplicemente “esistere” non vuol dire nulla. Ogni cosa che è, anche “ha”. “È” tutto quello che “ha” valore e senso. Come può esistere qualcosa che subito non abbia caratteristiche proprie? L’essere e l’esistere non sono pensabili per se stessi. Ogni cosa che è, quindi, anche ha. Non è l’avere che bisogna superare; ma è l’essere che va superato e sottinteso. L’essere non è il fondamento di nulla, proprio perché lo è di tutto. L’avere è ciò che ha senso. Finché siamo vivi non possiamo che parlare delle cose che sono, dicendo quello che hanno. Quello che una cosa è coincide con quello che ha. La diagnosi non solo definisce quello che siamo, ma ci qualifica per quello che abbiamo.

1.3. L’INTERPRETAZIONE E LA CONOSCENZA

Le persone chiedono di conoscere la dia­gnosi – anche se ne hanno paura – per que­sto bisogno di vedere riconosciuto ciò che hanno e per poteré inserire, o fare inserire, i loro gesti in una definizione. La diagnosi tutto sommato è rassicuratoria: gli esseri umani hanno paura infatti dell’indefinito. Non per nulla gli antichi Greci detestavano l’indefinito, che è la disarmonia. Ognuno di noi ha paura della disarmonia, perché essa è qualcosa che distrugge e disintegra; men­tre l’armonia rende uniti, tranquilli con se stessi ed in pace con gli altri. Sappiamo chi siamo e – più o meno – dove stiamo andan­do. La diagnosi, con tutti i pericoli che comporta, è un’ipotesi di armonia. Allo stesso tempo può però funzionare come li­mite e gabbia. Non c’è bisogno di richia­marsi a Pirandello per dire che il mondo ap­plica etichette sulle persone e le costringe a recitare il ruolo che la società ha loro as­segnato: lo iettatore, l’adultera, il cornuto e via dicendo. Bisogna i t a. reti i re una parte per essere accettati, o – ed è arroaptibin_por­tante_ per riconoscere se st_e.ssi. “Sono un cornuto.” È un’affermazione dolorosa per la cultura sociale in cui siamo inseriti, però, tutto sommato, permette di accettare o ri­fiutare un’identificazione.

Ciò che va oltre la diagnosi è l’interpreta­zione, in greco ermenèia. L’interprete è co­lui che mette in relazione, il mediatore, il sensale. Aristotele dice che l’interpretazio­ne consiste nel mettere in relazione i ter­mini verbali, o i segni, con i pensieri: una parola con il concetto corrispon­dente e quest’ultimo con la cosa.

Quindi abbiamo la successione: segno o pa­rola concetto, cosa. L’interpretazione un atto mentale che mette in rapporto questi tre termini. Nella semiologia contempora­nea di un autore come Morris, per esempio, si parla di un meccanismo istintivo: io ho un pensiero, che è una parola, che riferisco agli oggetti intorno a me. Per comporta- mentisti come Charles Pefi -c-e (Colledèd papers 5. 484) l’interpretazione consiste nel rapporto tra un _segale e posta possibile. In questo caso l’interpretazione è Mettere in relazione due termini uno dei quali spiega l’altro. In questa prospettiva l’interpretazione è spiegazione abituale. Sigmund Freud parla di Deutung, nel sen­so di “svelamento”; di una interpretazione che è il manifestarsi della cosa. In psicoa­nalisi si interpreta; non si danno diagnosi, ma “interpretazioni”. Difficilmente uno psicoanalista dirà: “Ho fatto questa dia­gnosi.” Dirà piuttosto: “Ho interpretato in questo modo.” Quindi: interpretazione come comprensione vera. “Quel sogno vuol dire che tu desideri…”: il disvelamen­to di un desiderio profondo, nascosto.

Allora cosa_ è l’interpretazione? Possiamo genericamente rispondere che è un tentati­vo di raggiungere la verità. Nell’antica -Grecia non è stata tanto la filosofia che ha capito come attraverso Eros si possa co­gliere la verità; ma è stata piuttosto l’arte, e tra le forme d’arte lo si può ben vedere nella tragedia. La verità non è_ mai verità fino in fondo, perché è anche finzione; la qua , a sua volta, contiene in sé elementi di verità. Per capire meglio cosa io intenda per verità bisogna leggere una tragedia greca, guardare una statua di Policleto: forme la cui realtà non è mai quella di una banale-imitazione del vero, ma è interpretazione del mondo. I Greci interpretavano ‘Sempre.

L’interpretazione fa paura perché porta con sé Eros. Non è solo voglia di capire sino in fondo, ma anche di co­struire l’oggetto della comprensione. Io ho paura della parola “interpretazione”. I miei allievi sanno quanto abbia canzonato gli psicoanalisti che abusano del termine, per­ché le _parole possono diventare pericolose.

Esse non hanno un significato di per sé soltanto, ma anche per come e quando, vengo- no pronunciate. Temo che la parola “interpretare” non colga a sufficienza quanto nell’interpretazione ci debba essere di costruzione. Interpretare significa alghe costruire una storia, ritrovarla insieme ,a chi ne è state; il protagonista. La parola “inter­pretazione” spaVenta perché affonda nella persona, che si sente mutare. Per questo, in psicoanalisi, nessuna interpretazione deve essere calata dall’alto, ma espressa attra­verso il rapporto erotico tra paziente ed analista.

1.4. L’INTERPRETAZIONE E LA VERITÀ

Si possono distinguere due atteggiamenti fondamentali, o tipici, secondo me, nei confronti della conoscenza e della possibi­lità di raggiungere la verità: per il primo at­teggiamento la verità esiste ed è raggiungi­bile, perciò è giusto vivere basandosi sulla convinzione di poter acquisire conoscenze scientifiche oggettive che contribuiscono ad orientare tanto la ricerca teorica, quanto la vita quotidiana. È questa una difesa di tipo sadomasochistico di compiacimento nel sentirsi sopraffatti da una verità supe­riore che non si gestisce e non si costrui­sce, ma che può essere imposta con piace­re agli altri. Il secondo atteggiamento, al­trettanto fortemente presente, è quello per cui ognuno si sente chiuso nel proprio mon­do ed ha sfiducia nella possibilità di una verità comune e comunicabile. È que­sta una difesa narcisistica che nega il mondo e mette l’Io al centro dei propri interessi. Il contrasto tra i due atteggia­menti sopra descritti potrebbe essere supe­rato da un terzo tipo di approccio alla ve­rità che io definisco “erotico”, per cui la ve­rità è una possibilità che si costruisce però sono purtroppo quelle prevalenti perché più banali, mentre la terza scelta va oltre la ba­nalità affrontando il livello più elevato, il solo che sia in grado di comprendere il si­gnificato di Eros. Noi viviamo continua­mente nella banalità e mi riferisco non sol­tanto a quella dei grandi mezzi di comuni­cazione e di informazione, ma anche a quella dei manuali di filosofia, che pro­pongono solo schematizzazioni del diveni­re del pensiero umano, e la schematizza­zione è sempre una banalizzazione, come l’eccessiva semplificazione.

Il problema della conoscenza della verità va visto dinamicamente: la conoscenza che si ha nel presente non deve mai essere in­tesa come esauriente, ma come un avvici­namento ad una verità che resta sempre da raggiungere. Se la verità fosse stata una volta sola raggiunta, la storia del pensiero e della scienza si sarebbe fermata in quel punto; mentre, al contrario, la storia della scienza e della filosofia è un continuo con­traddirsi, dubitare, procedere, tentando e ri­tentando, in una marcia inarrestabile.

La scienza non può dunque che essere tentativo continui di interpretazione, in due accezioni: il primo di attribuzione-di un nome ad un oggetto designato; il secondo di Deutung in senso freudiano, di chiarimento di ciò che è oscuro, svelamento di quanto è nascosto. Queste due accezioni talvolta collimano: in fondo dare il nome appropriato ad un oggetto designato è anche un modo di chiarirne il significato, di definirlo, di operarne una diagnosi che trasformandosi in interpretazione cercherà di chiarire ciò che è oscuro. La scienza non può limitarsi ad essere descrizione e neppure può esprimersi per dogmi e se qualche volta, per ragioni me­todologiche, assume atteggiamenti dogma­tici, questi debbono costituire i punti di par­tenza per la successiva interpretazione. È importante essere consapevoli del relativi­smo scientifico: ogni tentativo di chiari­mento è destinato ad essere contraddetto dalla storia stessa della scienza; e questo vale per gli scienziati e per i filosofi, ma anche per gli esseri umani che ogni giorno cercano di orientarsi nel mondo in cui vi­vono. L’interpretazione della scienza signi­fica cercare di chiarire con la massima con­sapevolezza possibile l’ambiguità che è sempre contenuta in ogni affermazione.

L’interpretazione in psicoanalisi è di due tipi: una è l’interpretazione che dal tera­peuta si rivolge verso l’analizzato e l’altra è l’interpretazione che l’analizzato opera di se stesso e di ciò che gli viene detto. Re­spingo l’idea di un’interpretazione che si cali sul paziente come un dogma, che lo im­prigioni come una gabbia; l’interpretazione dell’analista deve essere un modo di avvi­cinarsi alla persona che gli si trova di fron­te, chiarendo, definendo, diagnosticando, rendendo esplicitccciò che nei discorsi dell’analizzato e solo implicito. Il paziente non deve sentire le parole del terapeuta piombargli addosso all’improvviso, come provenienti dal nulla. L’analista deve pren­dere in considerazione la persona che ha di fronte, osservarne il comportamento, va­gliarne i discorsi, leggere le interpretazioni che l’analizzato tenta di se stesso, rivol­gendosi all’analista come il “tu” sul quale proietta anche le figure del passato. Solo dopo aver ascoltato a lungo, l’analista po­trà legittimamente proporre la propria in­terpretazione che troverà però a riceverla una persona tutt’altro che inerte. Diffi­cilmente il paziente si abbandona, spesso anzi reagisce addirittura ag­gredendo e negando. Nessuno riesce ad assorbire completamente ciò che gli vie­ne detto, a fondersi con ciò che l’altro gli dice; ciascuno cerca di dare la propria in­terpretazione, per difendersi. Per capire si deve però interpretare: l’analizzato prima interpreta se stesso, poi quello che gli vie­ne detto e questa interpretazione è sempre deformante di quello che era nelle inten­zioni dell’analista di comunicare. La per­sona che riceve l’interpretazione la rilancia sull’analista come l’ha percepita, come l’ha voluta capire.

Freud in una delle ultime opere: Costruzioni nell’analisi, afferma che bisognerebbe sostituire il termine “interpretazione” con”costruzione”; in questo scritto pacato e al di sopra dei bisogni della polemica si enuncia un concetto di “costruzione” che è molto simile al mio di “interpretazione”. Dice Freud che l’analista non deve accettare ne i sì né i no del p azieTitéT2dEhé. entrambe le risposte celano qualcosa di molto diverso e profondo. Quasi sempre quando un analizzato dice qualcosa, cerca di razionalizzare, di rendere ovvio, di semplificare per evitare di dover affrontare realtà troppo complesse e faticose da accettare. Io aggiungerei che il paziente “resiste” non solo quando rifiuta l’interpretazione, ma faIV-olta,persino quando l’accetta, pnr disliaiazzarseze. Se l’analista però interpreta questa resistenza si vedrà opporre una nuova razionalizzazione, in un continuo rimando, simile ad un infinito gioco di specchi, che rischia di esser ossessivo e distruttivo se nonmsubentra ad un certo punto la capacità dimabbandonarsi eroticamente all’interpretazione dell’altro, permettendo così al lavoro analitico di procedere verso la guarigione. Freud non ha parlato di questo gioco di specchi, perché ha avuto paura di parlare di Eros. Egli si limitò in tutta la sua opera a parlare di “libido”, un meccanismo che pure in parte entra in questo gioco ossessivo, ma che non è sufficiente a sbloccare il rapporto analitico, se non interviene la capacità di entrambi gli interlocutori di superare il momento libidi­co abbandonandosi a quell’Eros in assenza del quale ogni analisi diventa sterile.

La razionalizzazione è una difesa da Eros e dalla presa di coscienza ed anche in que­sto caso si esprime attraverso i due modi fondamentali: narcisismo o sadomasochi­smo che però sono attivi già prima, dalla prima volta che una frustrazione ha bloc­cato il nostro tendere erotico verso il mon­do. Messi di fronte ad un’esperienza fru­strante che ci ha procurato dolore noi o lo abbiamo accettato come un modo dell’esperienza – abbiamo cioè reagito con la difesa sadomasochistica – o lo abbiamo ne­gato concentrandoci e ripiegandoci solo su noi stessi – narcisisticamente -. La sovrap­posizione o, peggio, la chiusura totale di questi due modi difensivi procura quel di­sturbo mentale che ha il suo culmine nella follia. È difficilissimo e allo stesso tempo facile definire la follia: nasce quando si smarrisce Eros e le due difese sovrapposte rinchiudono l’individuo in se stesso vittima di quella che un tempo si chiamava “psi­cosi”. In condizioni meno rigide ed assolu­te di chiusura, il prevalere di uno o dell’al­tro meccanismo ingenera una condizione di disorientamento più o meno grave comu­nemente chiamato “nevrosi”. Io sono pro­penso ad applicare elasticamente queste di­stinzioni, ma in ogni caso il sole modo di intervenire consiste nell’aiutare chi sta male a riacquistare la capacità di percepire “er-oticamente”- il mondo,- Vincendo le resistenze dell’analisi e le difese fondamentali del narcisismo e del sadomasochismo.