Psicoanalisi contro n.1 – La diagnosi e la persona (Sezione quinta)

maggio , 1993

V.1. FUORI DEL GREGGE

La gelosia, abbiamo detto, può essere l’an­cella di Eros, ma anche la sua nemica. La verità è che per gli uomini oggi è difficile saper amare. La gelosia si insinua in tutti i rapporti interpersonali e determina logiche di potere. Potere è una parola che risuona spesso nei discorsi, riferita sia alle persone sia alle istituzioni che ci controllano e go­vernano. Federico Nietzsche enunciò il concetto di “volontà di potenza”. Secondo il filosofo tedesco solo ciò che non vive può non volere, ciò che vive,però,non si accontenta di vivere, ma vuole qualcosa di più. Opponendosi in questo a Scho­penhauer che invece teorizzava la necessità di raggiungere la “nolontà” o non volontà di vivere. Quello niciano è in fondo il di­scorso che oggi viene ripreso quando si parla della_”qtIalità della vita”. Non basta vivere, si dice, la vita non può essere solo sopravvivenza ma deve soddisfare il biso­gno di piacere; per fare ciò bisogna av-ére subito almeno ‘un po’ di potere. Nietzsche dice ancora che l’uomo_l_camesnasorda tesa tra l’animale e il speruomo una corda tesa sull’abisso, un ponte. L’obiettivo dell’uomo è di reailizzare le-The potenzialità di Super-Uomo. Queste teorie sono sta­te lette in due modi molto diversi tra loro. La più vecchia e nota lettura ha visto nel Super-Uomo la personificazione del ditta­tore, della super-razza, che hanno il diritto di schiacciare le masse e di annientare le al­tre razze. La seconda lettura, più moderna e secondo me più corretta, vede nel Super- Uomo la realizzazione dell’Uomo Nuovo. L’uomo deve essere superato, deve lascia­re la vecchia condizione di membro di un gregge, la sua morale non deve più basarsi sulle convenzioni, egli deve avere il co­raggio essere libero, di affrontare l’in­certezza di ciò che è nuovo, darsi nuove

Deve essere per questo anche potente. Io non credo che l’ipotesi niciana vada riferita ad un singolo uomo, né che preveda una realizzazione immediata; ma che contempli la possibilità per tutti di abbandonare la ormai sterile morale borghese, pseudo-cristiana, per rag­giungere un livello superiore. Sfortunata­mente in troppi hanno pensato di essere il super-uomo le légittimato a dominare il gregge ed in un certo senso la scienza stessa ha legittimato questa presunzione che chi è più potente ha maggiori diritti. La teoria dell’evoluzionismo classico aveva decretato il principio della sopravvivenza del più forte; cioè di quegli individui o quelle specie capaci di dominare sugli altri e sull’ambiente Oggi queste facoltà che abilitano per così dire all’esercizio del potere potrebbero essere riassunte in tre punti: 1) robustezza fisica- 2)astuzia ed intelligenza; 3) ricchezza. Se riuniamo in un solo ndividuo  queste caratteristiche ab­biamo quello che nella nostra società è con­siderato un uomo di potere. Di fatto poi si verifica che l’abbondanza di una sola di queste qualità può compensare la insuffi­cienza delle altre; già i sofisti dicevano che è più forte non chi è più robusto, ma chi è capace di imporre le proprie ragioni.

La psicoanalisi si è occupata approfondita mente del problema del potere. Freud nel suo libro Psicologia delle masse ed analisi dell’Io teorizza l’Ideale dell’Io e l’esigenza che le masse sentono del leader; un capo che riunisca in sé le qualità ideali che ciascuno vorrebbe avere, ma che in genere ha solo in parte o per niente. Ogni essere umano, egli dice, costruisce grazie al proprio narcisismo un ritratto ideale di sé e poi elabora una successiva figura ideale che dovrebbe incarnare la perfezione. Lo stesso avviene per le masse: ogni gruppo più o meno grande proietta i propri ideali dell’Iosu di una persona: il leader, a cui consegna l’incarico di realizzare tutte le proprie fantasie di potere e di perfezione. Anche quando per ragioni politiche la massa detronizza il leader, l’idea­le rimane fissato all’ideologia (questa affermazione di Freud è per me molto interessante). L’ideologia, è:altrettanto tirannica e concentra su di sé il desiderio di potere del gruppo.

Dopo Freud, Alfred Adler è stato lo psi­coanalista che ha meglio teorizzato e de­scritto le dinamiche del potere. Staccatosi nel 1911 dalla psicoanalisi freudiana, Ad­ler prende l’avvio dagli studi sulla cosid­detta “insufficienza d’organo”. Quando una persona soffre dell’insufficiente funziona­mento di un organo qualunque, gli altri or­gani ed apparati entrano in funzione per compensare quest’insufficienza aumentan­do le loro capacità; oppure lo sforzo di su­perare un cattivo funzionamento ottiene il risultato di rendere il funzionamento dello stesso organo ottimale: Adler cita come esempio il caso di Demostene, che per su­perare la propria balbuzie tanto si esercitò nell’uso delle facoltà vocali che divenne fa­moso per la sua abilità oratoria. Poi Adler estende questa concezione alla psiche. Teo­rizza il “complesso d’inferiorità” e sostie­ne che quando una persona si sente in qualche modò inferiore, per ragioni fisiche o psichiche, morali o sociali, il suo compor­tamento può prendere due direzioni: una che si potrebbe definire normale, l’altranevrotica. Il comportamento normale porta a superare l’inferiorità con il successo in qualche campo dell’attività professionale, culturale o sportiva contribuendo a forma­re persone pienamente realizzate. Il com­portamento nevrotico è quello di chi non riesce a controllare il proprio smisurato de­siderio di potenza e nel tentativo fallito di superare l’inferiorità finisce col rimanere bloccato, preda di un delirio di onnipotenza, incapace di qualunque realizzazione pratica:Questo principio della volontà di Potenza come molla originariadell’esisten­za umana verrà da Adler contrapposto al principio freudiano del desiderio ses­suale originario. Secondo Adler il piccolo dell’uomo nasce impotente e sviluppa fin da subito la volontà di potere, fantasticando il controllo delle persone che lo manipolano e dell’ambiente da cui di­pende. In un secondo passaggio gli esseri umani identificano il potere con il ruolo maschile e questo dà luogo alla “protesta virile” tipica delle donne, ma anche di…que- gli uomini che si sentono assimilati per la loro debolezza alle donne. Il bambino non prova – secondo Adler – desiderio sessuale pér la propria madre, ma désidera sottometterla, poi desidera liberarsi del potere del padre e sottomettterlo a sua volta. Quando il complesso edipico non viene su­perato, l’individuo non riesce neppure ad emanciparsi e rimane succubo del potere genitoriale. Anche il rapporto sessuale è in quest’ottica un esercizio di potere e non d’amore. La volontà di potenza è la molla di tutta la realtà. Il nevrotico fallisce perché si pone obiettivi di potere che non rie­sce a realizzare; la terapia psicoanalitica adleriana o “analisi individuale” per guarirlo gli indica i possibili obiettivi da raggiungere ed è molto direttiva.

Io personalmente distinguo il concetto di potenza dal concetto di potere, anche se la radice è la stessa.

La .potenza è secondo me più legata ad un tipo di comportamento narcisistico.-la -ama il maschio che esibisce nelle palestre .k propria forza muscolare, vanitoso e concentrato sulla propria capacità di migliora­re le prestazioni ; oppure la ragazza che si esalta nel constatare la propria capacità di seduzione, senza vero interesse per chi ne è l’oggetto. L’esaltazione della propria po­tenza è un esercizio, di-narcisismo che relega gli altri ad ruolo di spettatori.

Il potere, invece, interessa soprattutto i sa­domasochisti, perché è piacere di dominare gli altri, molto spesso con loro soffe­renza; l’esempio più banale che mi viene in mente è quello degli inse­gnanti di scuola che si compiacciono di avere in loro potere, oltre che gli al­lievi, intere famiglie. C’è anche chi masochisticamente gode di subire il potere altrui, identificandosi con chi lo gestisce. La realtà del potere è negata da chi non è si­curo di sè eda chi vuole_  esercitarlo senza controllo. Nel gioco dei ruoli sessuali non ha più potere il maschio della femmina, ma lo ha chi lo maschera meglio. Il primo pas­so verso l’eliminazione dei giochi perversi del potere è il riconoscimento e la messa in discussione dei proprio potere, prima che dell’ altrui.

V.2. DON GIOVANNI

I rapporti di potere sono oggi ineliminabi­li, è illusorio tentare di negarlo. Tutti desi­deriamo il potere, lo fantastichiamo, ne ab­biamo bisogno e paura: siamo stati educati a questo. Un aspetto poco evidente del po­tere è quello che viene esercitato attraver­so la seduzione.

Per la psicoanalisi freudiana, già il bambi­no tenta di sedurre chi ha cura di lui e, a loro volta, gli adulti che lo manipolano lo seducono cercando di dargli e trarne piace­re. Le conseguenze di questa seduzione pri­maria si faranno sentire nello sviluppo suc­cessivo della personalità. Freud elabora una sua teoria della seduzione secondo la qua­le i nevrotici ossessivi e gli isterici sareb­bero individui che nei primi anni di vita sono stati oggetto di un atto di seduzione da parte di un adulto. Il bambino in fase pre-sessuale, non in grado di provare desi­derio, aveva subìto con angoscia quella passivizzazione che gli aveva procurato un trauma. Dopo la pubertà un’esperienza an­che non sessuale, che abbia richiamato il ri­cordo di quella primitiva violenza, ha riattualizzato quel trauma, provocando l’in­sorgere della nevrosi. Più o meno pa­rallelamente, però, Freud aveva avanzato una ben diversa ipotesi sostenendo che questa seduzione può anche non essere mai avvenuta, ma che è presen­te nella fantasia infantile fin da subito, in­sieme con la pulsione sessuale. In realtà sa­rebbero desideri sessuali di tipo- masturbatorio ad ingenerare questa fantasia di seduzione. Leggendo l’opera freudiana succes­siva si ricava l’impressione che egli non ab­bia mai abbandonato completamente l’ipo­tesi della seduzione, ma non vi annetta più un’eccessiva importanza ai fini dell’etiolo­gia della nevrosi.

Sedurre deriva da secum ducere ed ha in sé la stessa radice di dux: il condottiero, colui che porta con sé. Dove porta la seduzione? La seduzione ha sempre uno sfondo sessuale, ma combinato con vari aspetti.  Della fascinazione che anche trascina. Seduttore per antonomasia è Dori Giovanni Tenorio, personaggio leggendario che Tirso de Molina fissò nelle pagine de “Il burlatore di Siviglia e il convitato di Pietra” e che poi ancora fu descritto da Molière e musicato insuperabilmente da Mozart. Anche il filosofo Kierkegaard ricorre al personaggio di Don Giovanni nel suo Diario di un seduttore. Don Giovanni seduce, ma non ama le donne che seduce, ama piuttosto il gioco della seduzione in sé, la sua capacità di far cedere sempre tutte a prezzo di ogni virtù. Rodolfo Valentino è la versione borghese e di celluloide del mito. La storia dell’Occidente è piena
anche di seduttrici: Circe che seduce, le Sirene che portano alla morte col loro canto. Il mito delle Sirene- ha- avvalorato la fantasia romantica e borghese del binomio amore e morte, nel quale io non credo: l’amore per me è solo e sempre salvezza, quello che trascina alla rovina gli amanti è soltanto l’impossibilità di amare davvero. L’amore non può limitarsi al potere di seduzione che trasforma gli uomini in cinici strumentalizzatori del corpo altrui e le donne in Sirene che portano alla morte o in Maghe che tra­sformano, con la offerta di una sessualità lubrica, gli uomini in porci. La seduzione può dunque portare all’amore o alla mor­te, ma non coincide  in ogni caso con la pienezza dell’amorericercats di Eros.

V.3. LA SEDUZIONE DEL SEDOTTO

Che cosa vuol dire essere seduttori? Cia­scuno di noi immagina di essere una Circe o un Don Giovanni e neppure i limiti intel­lettuali o fisici bastano a scoraggiare. Chi non ricorda quel delizioso dramma borghe­se di Rostand che appaia i suoi due eroi: il brutto Cyrano e il luminoso Christian che, insieme, riescono a conquistare il cuore e le grazie della bella Roxane? Le qualità dell’intelletto bastano a compensare i di­fetti del fisico, e un bell’aspetto convince più di qualunque dote dell’intelligenza. Ognuno si sente quindi in parte giustifica­to nel molo del vero seduttore. Seduce chi è convinto di poter sedurre e solo a poste­riori chi è sedotto cercherà una giustifica­zione in questa o quella qualità del sedut­tore. Il seduttore ha inoltre la caratteristica di godere più delle proprie fantasie di se­duzione che del piacere di possedere fisi­camente le sue conquiste. Quello che dà al seduttore il piacere maggiore è la fantasia del potere_ che è in _grado di esercitare sull’altro. Questo avviene forse perché nella nostra cultura l’atto sessuale vero e pro­prio è circondato da un giudizio morale ne­gativo e svalutante. La vera seduzione è quella che va oltre il gioco sessuale, e si caratterizza come potere permanente di chi mescé a soggiogare l’altro.

L’arma più potente in mano al sedut­tore è il potere di ricatto. Il sedutto­re può ricattare anche fingendo di non avere potere alcuno, di porsi comple­tamente alla mercé dell’altro, allo stesso modo del malato che ricatta con la sua ma­lattia. La seduzione è un esercizio di pote­re che viene messo in atto in modo esem­plare nel rapporto tra adulti e bambini. L’offerta di amore dell’adulto al bambino si svolge subito attraverso una dinamica di seduzione, potere e ricatto. Il piacere che viene concesso al bambino hacondizione  la sua accettazione  totale; ogni riserva infatti sopraggiunge l’irrigi­dimento: la carezza viene negata, la voce si fa dura e paurosa. Il bambino risponde ben presto con la stessa tecnica mettendo in opera i suoi meccanismi di seduzione, per­ché è per lui importante tenere in suo pote­re chi a sua volta lo domina. Questo scam­bio di poteri continua per tutta la vita e la seduzione è il mezzo apparentemente meno violento: nella vita di coppia, in quella fa­migliare, ma anche tra amici, tra allievi e maestri, si gestisce il potere sfruttando più o meno consapevolmente e chiaramente i messaggi di seduzione che si insinuano in ogni rapporto. Non si può sopravvivere senza mandare comunque messaggi di se­duzione. Non esistono persone che non vo­gliono sedurre; può accadere che però non si riesca a sedurre; chi non ci riesce invidia chi ha successo. Io credo che ci sia anche un segreto, che è secondo me, l’aspetto po­sitivo della seduzione: seduce di più chi non ha paura di essere sedotto, chi si rivol­ge all’altro senza preoccuparsi troppo di difendersi. In fondo i grandi seduttori non sono altro che dei  grandi sedotti.. E bello abbandonarsi al piacere della seduzio­ne reciproca di chi non è avaro del proprio corpo e dei propri sentimenti, di chi è di­sponibile consapevolmente a dare e a pren­dere piacere nel rapporto anche sessuale. È questa la differenza grande che c’è tra la se­duzione e quello che comunemente veniva

considerato negativamente come plagio: nella seduzione c’è consapevolezza da parte del sedotto. Nella vita la li­bertà si conquista solo accettando ed imparando a gestire consapevolmente il gioco delle seduzioni. Purtroppo la paura di Eros e la perversione dei meccanismi di­fensivi inducono gli uomini per lo più a ne­gare di essere sedotti o seduttori, per poter meglio recitare con la maschera della vitti­ma o del vincitore.

V.4. IL NASO DI PINOCCHIO

La cultura moderna e contemporanea ha creduto opportuno creare una figura di se­duttore nuova, o almeno poco diffusa nel passato: quella del seduttore_ inesistente, perché non è tanto una persona, quanto un  simulacro. È questo un frutto diretto dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, che usano il meccanismo della seduzione in funzione di grossi interessi economici. Il cinema, il rotocalco e poi la televisione sono stati i tramiti maggiori del tipo nuovo di seduzione. Rodolfo Valentina e Francesca Bertini furono prototipi nostrani di questi simulacri di celluloide che corri­spondevano ad una tipologia costruita in la­boratorio alla quale le persone fisiche pre­stavano solo un volto e un corpo destinati ad essere oggetto di culto e a sedurre inte­re masse. In fondo il meccanismo non è poi così nuovo, come ho appena detto forse con leggerezza, infatti nei secoli passati feno­meni non dissimili erano stati costruiti dal­le organizzazioni religiose che, inventando agiografie di santi e di sante e diffondendo immagini e reliquie, erano state capaci di creare fenomeni di seduzione di massa cla­morosi, anche con risultati economici non inferiori a quelli dell’industria dell’imma­gine attuale: basti considerare la ricchezza raggiunta da monasteri e santuari divenuti luoghi celebri di devozione. Oggi l’imma­gine è fine a se stessa: non importa a nessuno la realtà della persona che vi sta dietro, tanto le si fa dire ciò che deve dire, la si fa pensare quel che

deve pensare, si disegna sul suo corpo l’im­magine fisica che serve allo scopo del mo­mento. Non per nulla è un fatto generaliz­zato che l’incontro con un divo o una diva faccia sempre dire che li si è trovati molto diversi da quello che si era fino a quel mo­mento immaginato. In genere contribuisce al giudizio riduttivo soprattutto l’invidia, ma certo è che difficilmente una persona reale può soddisfare tutte le esigenze del simbolo. Questo seduttore costruito può an­cora essere considerato veramente tale? O è un puro prodotto della nostra voglia di es­sere sedotti? Questa voglia di seduzione però si perde nel nulla perché non incontra nessuna volontà concreta di un seduttore o di una seduttrice, non ha un interlocutore reale, ma un fantasma. È vero che ogni gruppo sociale si costruisce i suoi sedutto­ri e quanto più il gruppo è vasto, tanto meno concreta ha bisogno di essere la fi­gura del seduttore. Questo principio vale per tutti i “tipi” schematizzati dai mezzi di comunicazione di massa: l’assassino, l’eroe, il perverso, il leader, il santo, il maestro. Ogni essere umano è anche co­struito dalla situazione ambientata in cui opera, dalla volontà delle persone che lo circondano le quali in parte riescono a co­struirlo così come vogliono e, se non ci rie­scono completamente, ugualmente lo co­stringono per quanto possibile ad un ruolo, magari mentendo a se stessi: fingendo cioè che sia quello che non è. Più il gruppo è va­sto, più quest’operazione riesce indipen­dentemente dalla realtà della persona in questione.

Noi siamo quindi anche frutto dei racconti cha fanno di noi, degli appellativi con cui ci hanno designato. Anche quando ci ribelliamo dobbiamo tenerne conto. Benedetto Croce diceva che tutto è storia. Io dico che tutta la storia è un racconto: quando si è combattuta una battaglia, poi si racconta la storia di quella battaglia; il naturalista che descrive un fossile racconta la storia di quel fossile e l’astro­nomo la storia delle stelle. Raccontando facciamo la storia nostra e degli altri. Anche quando sognamo  raccontiamo una storia.

Fairbairn dice che nei sogni i personaggi sono parti dell’Io oppure oggetti introiettati: cioè lo stesso sognatore diviso in tanti personaggi. Ad esempio, se sogno di in­contrare un pastore che balla la tarantella e che poi incontra un lupo, una parte di me è rappresentata dal pastore e l’altra dal lupo. A me pare che Fairbairn sia qui di un’ov­vietà lapalissiana, dal momento che il so­gnatore non può che sognare contenuti che gli derivano dalla propria esperienza indi­viduale e genetica. I sogni raccontano ciò che egli stesso e sotto forma di tino spettacolo narrante. Il sogno pércepito come spettacolo, tanto è vero che oggi è frequente sentirsi dire durante il rac­conto di un sogno: “…poi il film va avanti così…” Chi narra pronuncia la parola “film” senza quasi accorgersene, sottoli­neando con quel lapsus il carattere spetta­colare del sogno; che deve però sempre avere un_ riferimento -alla realtà, come lo ha la più sfrenata.-delle fantasie. In fondo la nostra vita è soprattutto il racconto che ne facciamo a noi stessi o agli altri, nei: sogni ad occhi aperti., sempre in bilico tra verità e menzogna. Non è possibile infatti vivere senza mentire, per quanto la menzogna parta sempre da un dato reale. Anche il cammino della scienza si costruisce rac­contando verità solo approssimative e pre­cedendo fantasticamente le realtà che con­tribuisce a costruire.

La bugia è un peccato che ci ac­compagna da sempre: il bambino è subito bugiardo. Le bugie non sono peccati di natura sessuale, però sono consi­derate dagli adulti particolarmente gravi, perché sottraggono il bambino al loro con­trollo, sottraendolo al loro potere; inoltre la perdita di controllo attraverso la menzogna cita una zona- franca anche in campo sessuale. Solo il bambino assolutamente -Le bugie sono però più fitte in certi periodi della vita e alcune per­sone sono più bugiarde di altre. Il bisogno di mentire a volte si accompagna con il desiderio di reprimere un contenuto di coscienza rifiutato:esempio l’omosessualità, ci sono persone che provano inconsapevolmente forti desideri omosessua­li, che non vogliono confessare né a sé né agli altri, le quali sentono un bisogno coatto di mentire sempre. Spesso si aggiunge a -ciò la paura • di compiere gesti assurdi. Un’altra motivazione che rafforza l’abitu­dine a mentire è il bisogno di superare situazioni esistenziali particolarmente frustranti; è quesita una modalità di compensazione. Curiosamente le bugie in tali casi non sempre dipingono un quadro migliore di quello reale, anzi paradossalmente le persone coinvolte, proprio peggiorando in modo clamoroso la realtà con bugie vergognose e constatando la loro capacità di persuasione è come se dicessero a se stesse: “Come riesco a far credere queste cose brutte, altrettanto facilmente riuscirò ad essere convincente quando racconterò di me cose bellissime, se infatti non raccontassi anche cose brutte non sarei creduto.” La bugia può qualche volta persino essere un atto di giustizia: quando non dire quello che si pensa significa rispettare la persona che abbiamo di fronte e di cui conosciamo verità che potrebbero procurare sofferenza o umiliazione. In ogni caso la bugia, la diagnosi e la persona sono strettamente collegate. sinceropuò dare agli adulti la certezza di un controllo completo e quindi anche sul com­portamento sessuale. Per questo si scrivo­no libri come Pinocchio. Però ugualmente tutti diciamo bugie, a volte addirittura cre­dendo di dire la verità, come succede mol­to spesso in analisi.

V5. IL SESSO DELLA VIOLENZA

Non so se ci si possa o ci si debba salvare dalla generale violenza. Violenza pubblica e violenza privata non sono così facilmen­te distinguibili: l’una infatti si alimenta dell’altra. Tuttavia ancora una volta cer­cheremo di distinguere per questioni di me­todo. Vorrei soprattutto sottolineare la vio­lenza che è in ognuno di noi, in contrasto con il diffuso sentimento generale di esse­re violentati. Cosa è la violenza? È un’im­posizione con la forza di qualcosa che non è desiderato o che è temuto. Se però questa violenza è esercitata da chi detiene un po­tere legittimo, allora è essa stessa legittima e viene chiamata, per esempio, giustizia, e non più violenza. Lo Stato può con le sue leggi imporre ed inibire, ma non viene per questo considerato necessariamente violen­to. Invece la violenza si esercita al di fuori delle leggi o contro le leggi. Esiste una vio­lenza diretta ed una violenza indiretta. La violenza diretta è per esempio quella di chi ti aggredisce per derubarti o stuprarti, ma anche quella di chi non rispetta il codice della strada, o il suo turno in una coda allo sportello. È una forma di imposizione del­la volontà di un individuo o di un gruppo su altri individui o sull’ambiente. C’è una violenza maschile ed una violenza femmi­nile. Il maschio violento è in genere volga­re ed ottuso, usa la sua forza fisica, aggre­disce ingiustificatamente. La donna violen­ta è meno esibizionista, è più capace di in­sistere e si esprime soprattutto nei rapporti famigliari; la sua è una vera e propria capacità di castrazione verso il maschio stu-pido che crede di essere il vincitore. Spesso la violenza -viene esercitata per dele­ga: è quella dei dipendenti delle gran­di strutture pubbliche o private che opprimono con la burocrazia i citta dini meno protetti, dei medici che soggio­gano con la presunzione della loro scienza chi si mette nelle loro mani, del poliziotto o del vigile che usano il potere della divi­sa per reprimere indiscriminatamente.

La violenza indiretta è spesso quella che si definisce “non violenza” e che è invece ricatto. È difficile da individuare, perché è meno ingenua di quella tronfia di chi si espone con tutta la sua stupidità al giudizio degli altri. Si appoggia sui rimorsi _e spesso riesce a strumentalizzare anche l’amore: ” Mi fai morire.” Dicono i genitori al figlio che cerca di emanciparsi, operando scelte che non sono quelle che loro avevano previsto o voluto. Oppure se è rientrato tardi gli dicono. “Ho passato la notte in bianco per causa tua ” Dentro e fuori la famiglia in rapporti di coppia o di gruppo è tutta una gamma di comportamenti che vanno dalla malattia vera o simulata alla più profonda, disperata e disperante tristezza, digiuni, isolamenti e mutismi, pianti e sospiri. Prima di riconoscere il diritto dell’altro gli si butta in faccia il suo dovere di corrispondere comunque alle aspettative di chi lo ama. Il rimorso nasce tanto più profondo, quanto più l’amore è sincero, la vittima è tanto più indifesa quanto più ama. Una particolare-Torma di violenza indiretta è quella di certe lotte politiche condotte ricorrendo ai digiuni di protesta, che mettono l’avversario di fronte all’alternativa tra cedere oppure avere il rimorso per una morte di cui si è chiamati per forza a dividere la responsabilità. Forse è meno pericoloso dell’uso delle armi da fuoco e delle stragi, ma è ugualmente un tipo di lotta violenta. La violenza permea la nostra vita nelle forme più molteplici: c’è chi la accetta e chi la rifiuta, chi distingue tra violenza giusta e violenza ingiusta, chi finge di non vederla negli altri e nega la propria, quella che si alimenta dell’odio e quella che crede di essere motivata dall’amore; c’è persino l’ultima violenza di chi vuole sottrarsi per sempre ad una logi­ca di violenza ed è il suicidio. La politica è violenza, lo è lo stato, la famiglia, l’educa­zione, che sono sempre imposizioni parzia­li o totali di limiti alla libera volontà degli esseri umani. Non si riesce a sottrarvisi neppure se si applica quella che io trovo la più bella enunciazione della libertà: “La mia libertà finisce quando incomincia quel­la degli altri.” Questa frase attribuita a Kant non risolve però il probema della libertà, in quanto non stabilisce chi sia a porre i con­fini e quando sia giusto porli. Se sono io a decidere dove finisce la mia libertà, l’altro sarà costretto a subire questa mia decisione, se sarà l’altro a deciderlo, io sarò vittima della sua imposizione.

Esiste, collegato al discorso della violenza e del potere, il concetto di autorità.; In cosa l’autorità si distingue dalla violenza e dal potere, con cui tuttavia è continuamente compromessa? L’autorità deriva dal rico­noscimento del potere di qualcuno da par- te degli altri. Il principio di autorità è stato a lungo ingiustamente combattuto, soprat­tutto perché la lotta contro l’autorità altrui dispensa dalla presa di coscienza del pro­prio potere_e_quindi dai problemi legati alla sia gestione. Un’autorità negata_ equivale a un potere esercitato nascostamente, Mentre un’autorità riconosciuta può vedere riconosciuti anche l’identità e i limiti del proprio potere.

V.6. LUNGA È LA VIA

Tornando al tema di fondo della diagnosi, della persona e delle sue maschere ab­biamo visto che esistono le maschere del bello e dell’avaro, del geloso, del violento e così via. Tutti portiamo in parte anche quelle maschere che pure non ci caratterizzano e siamo caratterizzati da alcune maschere più che da altre.

La psichiatria e la medicina stabiliscono le loro diagnosi. Una realtà viene quindi ri­conosciuta attraverso le sue linee essen­ziali, come in una radiografia che lascia vedere anche ciò che normalmente è na­scosto. Una corretta diagnosi prevede un’eziologia ed una prognosi (cause ed evoluzioni della situazione che si è dia­gnosticata). Ho parlato poco però di dia­gnosi mediche o psichiatriche; mi interes­sava di più far vedere come attraverso la diagnosi si e etichetti un essere umano ma allo stesso tempo gli si dia anche un’identità:, come per la malattia, la diagnosi è utile perché fornisce un criterio di orientamento. Allo stesso tempo è terribile constatare come le persone risultino oppresse  dalle definizioni. Quello che mi interessava trovare era la possibilità di raggiungere, attraverso la diagnosi, una persona e dimostrare come cambiando il punto di vista sia possibile modificare la diagnosi stessa. Cosa prevale: l’oppressione della diagnosi sulla persona o il contributo che la diagnosi dà alla conoscenza? Ho detto che la persona è sempre una maschera. Gli attori del teatro greco indossavano sulla scena una maschera enorme, gli spettatori posti a grande distanza dalla scena riconoscevano i personaggi attraverso di questa: quello è Edipo, quella Elettra! Non si può però togliere una maschera senza trovarne un’altra che sta sotto, che è quella del viso dell’attore, che lui ha imparato ad indossare da quando era bambino, che gli altri gli hanno anche messo addosso. Nessuno dei suoi gesti è suo fino in fondo, ma tutti sono stati appresi dagli altri. Quante sono le maschere che l’attore, toltasi quella del personaggio di scena, continua ad interpretare? Dietro la maschera non c’è un’altra persona da trovare poiché ogni persona è la somma delle sue maschere. Persino la morte non libera dalle maschere. Ognuno di noi, anche da morto, è il racconto della propria storia. Alcune maschere sono in accordo dala volontà di chi le porta o con la vo­lontà degli altri, altre sono in disaccordo. Alcune maschere ci fanno soffrire, altre ci danno piacere: nessuno però è libero o spontaneo; l’importante è riuscire a far prevalere le maschere che ci rendono più felici o meno infelici. Le diagnosi che gli altri operano sulle nostre maschere un po’ ci chiariscono – a noi e agli altri – e un po’ ci confondono. “Cogito ergo sum” non vuol dire niente: io sono invece quello che io e gli altri pensiamo di me. Le masche­re, le persone, le diagnosi non sono equi­valenti: alcune hanno più valore di altre. Irt ogni persona c’è un aspetto .di_disvalo­re che è _legato al narcisismo_e al sadoma­sochismo e un aspetto -di valore, che tende all’erotismo. Quest’ultimo- è spesso- con­traddetto ed è difficilissimo da realizzare:

è sempre oltre il punto in cui noi siamo, ma non è mai altrove, rispetto al -mondo in cui viviamo.Quando ho accettato il mio ruolo di. Maestro i ben pensanti si sono scandalizzati. Hanno ragione a scandaliz­zarsi, ma la loro ragione è piccola e triste: l’amore che io ho per i miei discepoli è in­vece grande e gioioso. Io ho sempre cer­cato di parlare in maniera chiara, scopren­domi. I ben pensanti non hanno gradito il mio sforzo di chiarezza. Il ruolo di Mae­stro mi dà autorità, io non la rifiuto e me ne faccio carico come di un dovere di re­sponsabilità. Voglio continuare ad avere la possibilità di parlare con amore ed autorità a chi ha voglia di ascoltarmi, in un cam­mino comune verso un luogo che non sap­piamo con precisione dove sia, ma che sappiamo esserci: “Lunga è la via, parole di viandanti amano sempre vagare” (Sofo­cle, Edipo a Colono, vv. 303-304).