Psicoanalisi contro n.1 – La diagnosi e la persona (Sezione terza)

maggio , 1993

III.1. PREMIO E PUNIZIONE

Studiando la personalità dell’essere umano, riflettendo su come si forma, come il mon­do e gli altri contribuiscono a costituirla, mi sono chiesto: “…e allora di nostro che cosa c’è?” Abbiamo reperito influenze sin dal primo istante del concepimento ed anche anteriori… ma, se tutto ci viene tutto dal corredo genetico, dall’ambiente, dal­l’educazione che condizionano anche le nostre reazioni, noi siamo solo il risultato inevitabile di agenti a noi esterni. L’indivi­duo non sceglie nemmeno di nascere, cosa può realmente scegliere in seguito che lo li­beri da un così schiacciante determinismo? Eppure Io sono Io; se è vero che l’inizio mi è stato dato, ad esso ho reagito. Rea­gendo ho scelto, così che pur essendo fin dall’inizio espropriato di ogni libertà, pure dal momento che nessun altro individuo ha scelto per me, tutto quello che ho èche mio Nessuno è identico a me, neppure il mio gemello monozigote. Ognuno di noi due ha la propria storia: avremo avuto nell’utero due posizioni diverse e poi ba­sterà che siamo stati messi in due lettini diversi, o in due punti dello stesso letto, che siamo stati accarezzati da mani diver­se oppure in tempi diversi dalle stesse mani. Quindi, paradossalmente, proprio il fatto che non ci sia-fin dall’inizio qualco­sa di nostro,fa sì che noi siamo assolutamente  noi e soltanto noi. Ciò che ci ha espropriato di noi stessi ci fa anche essere noi stessi.

Ciò dato, ha senso, quindi, parlare di re­sponsabilità individuale? Il senso comune dà per scontato che questa responsabilità esista e le persone si comportano nelle loro relazioni di conseguenza, tanto che si sono addirittura fissati codici di leggi che prevedono punizioni a chi è responsabile di azioni ritenute dannose alla comunità. Si è però paral­lelamente sviluppata nell’ambito della cultura borghese una concezione come quella luterana, che libera l’uomo da ogni responsabilità, delegando il potere de­cisionale a Dio, il quale è onnisciente, onnipotente e ha già scelto il destino di ciascuno. Si è avvalorata questa tesi in funzione, di un’economia capitalistica, per cui la ricchezza sarebbe un segno della grazia divina. La Chiesa cattolica ha invece sostenuto il contrario: segno della predilezione divina sarebbe la sofferenza. Entrambe le posizioni sono a mio avviso una distorsione dell’insegnamento evan­gelico.

La stessa cultura ha poi elaborato teorie scientifiche con la pretesa di affrancarsi dal moralismo confessionale delle Chiese. emblematica e ancora relativamente recente la teoria lombrosiana. Cesare Lombroso (1835-1909), psichiatra noto soprattutto per i suoi studi di antropologia criminale, spiegava la disposizione alla criminalità con argomenti piuttosto peculiari, basati sulla fisiognomica in cui egli leggeva le predisposizioni del carattere. Sosteneva che la facilità di commettere assassinii ed atti di violenza fisica derivasse da un innalzamento nei criminali della soglia del dolore: non provando quasi dolore fisico costoro faticherebbero a percepirlo negli altri e quindi sarebbero da considerare meno responsabili. Il concetto di responsabilità ha avuto anche evoluzioni in materia di giurisprudenza ed è stato collegato a quello di minorità. I maggiorenni hanno piena responsabilità morale e giuridica e nei loro confronti si applica pienamente la punibilità contemplata dalle leggi, mentre i minorenni sono imputabili solo a partire da un’età prestabilita (attualmente in Italia a 14 anni), mentre prima sono giudicati
responsabili secondo le valutazioni di ogni singolo caso.

Nella nostra società l’individuo è vittima di una concezione dicotomica del libero arbi­trio che se da una parte lo investe piena­mente della sua responsabilità, dall’altra, in un’ottica deterministica, lo espropria della sua libertà di scelta. A questo si aggiunge il relativismo morale, culturale e giuridico che di volta in volta condanna o non con­danna un determinato comportamento: la violenza esaltata nella “resistenza”, fu con­dannata all’epoca del “terrorismo”; il pa­triottismo di Cesare RattiitiWC6nsiderato tradimento dagli austriaci; il cannibalismo è considerato legittimo ancora in alcune aree geografiche, etc. Eppure io sono con­vinto che i cattivi esistono e sono coloro che strutturano il loro comportamento in base -all’esaltazione incondizionata delle delle due difese fondamentali.-narcisismo e sadomasochismo. Questo mio è un giudizio morire; ma anche scientifico, dal momen­to che nessuna scienza può sottrarsi alla legge morale. La cultura, la religione, l’educazione e la legge stabiliscono poi di volta in volta il principio della punibilità dei comportamenti ritenuti trasgressivi. Allo stesso modo viene stabilito il princi­pio del merito di chi può o deve essere premiato.

III.2. GIUDICI PER FORZA

Noi viviamo dando continuamente giudizi di buono o di cattivo, camuffati spesso con affermazioni diverse, travestiti da opinione politica; ma che ridotti all’essenza sono giudizi su ciò che è bene o male fare e non fare. Non è chiaro stabilire chi sia buono davvero e chi sia cattivo, rimane il principio che si giudica chi ci stadi fronte come se-fosse –responsabile delle sue azioni.

La cultura occidentale e borghese ha avuto in Kant l’ultimo grande moralista. Kant in­fatti nella Critica della ragion pratica ha esplicitamente parlato di un postulato, che bisogna accettare, senza &quale non ha senso parlare di morale:il libero arbitrio. Io anche nella mia esperienza di docente ho avuto modo di constatare quanto sia diffi­cile cogliere la differenza tra “libero arbi­trio” e “libertà giuridica”. La libertà giuri­dica viene all’individuo dall’esterno, men­tre il libero arbitrio è una capacità interna all’individuo stesso. Il libero arbitrio è la possibilità interiore che ogni essere umano ha di opporsi ad ogni condizionamento, fi­sico o morale, culturale o sociale. L’uomo, dice Kant, deve essere libero di opporsi tan­to al meccanicismo naturale quanto al con­dizionamento della legge dello stato. Sol­tanto se noi pensiamo che ogni essere uma­no, nonostante la sua situazione emotiva, e i condizionamenti, scelga liberamente di commettere o non commettere un sesto, possiamo dire se ha fatto bene o male; se invece non era libero di opporsi none giu­dicabile. Il diretto occidentale ha fatto proprio questo principio e non condanna chi viene ritenuto non completamente libero di intendere o di volere, o di scegliere auto­nomamente, con apposite norme che rego­lano il giudizio sui minorenni o su persone alle quali viene riconosciuta una particolare condizione di alterazione delle facoltà di giudizio.?

Se però è già complicato giudicare se un gesto è buono o cattivo e dire di una per sona se è buona o cattiva, più difficile è giudicare l’intelligenza e la stupidità e definire le responsabilità degli stupidi e degli in telligenti; benchè il senso comune ci abbia abituato a giudicare furbo, stupido, o intelligente colui con cui ci confrontiamo. Che cosa è l’intelligenza per la nostra cultura e conseguentemente cosa è la stupidità? Esistono diverse tecni­che di misurazione attraverso prove, test e analisi varie che vorrebbero determinare in base a parametri_ datti], cosiddetto Q.I. (quoziente di_ intelligenza). Sono però tec­niche assolutamente stupide perchè non tengono conto della validità sempre soltan­to relativa dei criteri in base al quale si è definito preliminarmente il concetto di in­telligenza con il quale l’individuo deve es­sere misurato. Queste tecniche possono tutt’al più fornire valori di attitudinalità rispetto a campi ben precisi e molto delimi­tati di applicazione.

Di fatto ogni gruppo sociale ha sviluppato criteri propri di intelligenza e di stupidità e quindi ciascuno cercherà di adeguarsi a quello che è il criterio adottato dalla società in cui vive. Ricordo il caso di un bambino che venne ritenuto “stupido” da una psico­loga scolastica che Io aveva sottoposto ad una serie di test; in particolare mi colpì il fatto che la testista aveva dato un giudizio negativo ad una risposta che invece deno­tava, a mio avviso, una sensibilità e una ca­pacità di osservazione addirittura superiore a quella richiesta dal test; infatti il bambi­no, messo di fronte al disegno di una giacca in cui c’era un’asola di meno del nume­ro dei bottoni corrispondenti alla domanda: “Cosa manca in questa giacca?” Aveva brillantemente risposto: “Ci manca l’uomo dentro.” Ovviamente questo mio è un pa­radosso provocatorio che però vuole sotto­lineare quanto sia difficile e spesso ingiu­sto applicare semplicemente schemi prefis­sati su realtà vive ed attive.

Nonostante però la difficoltà di stabilire criteri ferrei di giudizio, io affermo che la stupidità esiste davvero.Narcisismo e sa­domasochismo possono rendere gli uomini stupidi, perché l’incapacità narcisistica di osservare il mondo e gli altri si tra­duce in una incapacità di capire, in una ottusità generalizzata. La chiusura al mondo è fonte di ignoranza e di chiusura alla capacità erotica di cogliere il fuori di sé, il narcisismo è una difesa che rende stupidi. Il sadomasocliTsni6a sua vol­ta naia film di aggredire o di essere ag­grediti avvolge l’individuo in veli di rabbia, di sofferenza o di depressione che alterano la percezione e quindi la comprensione del mondo. L’intelligenza è capacità di sentire prima e capire poi il discorso di Eros.

III.3. IL BELLO E IL BRUTTO

La nostra cultura distingue tra intelligente e stupido, tra buono e cattivo. Socrate ha dato una chiave di lettura molto acuta di questi fenomeni, dicendo che il cattivo e lo studio sono quelli che non sanno. Esiste un altra dicotomia universalmente operata• quella tra il bello e il brutto e io vorrei esaminarne l’aspetto più concreto, non facendo un discorso metafisico od estetico, ma applicato agli esseri umani. Bello comunemente è definito colui che viene considerato desiderabile sessualmente, mentre non si può dire che il buono sia più desiderabile del cattivo o viceversa. La mia intenzione è quella di distinguere tra la sessualità _e l’erotismo, il quale ultimo è un concetto più ampio e complesso di quello strettamente legato alla cosiddetta “libido”. L’essere umano bello, dunque, è comune mente considerato sessualmente appetibile, mentre quello brutto viene respinto e rifiutato. Questo messaggio noi lo abbiamo introiettato e non possiamo prescinderne, nonostante le successive acquisizioni, filosofiche, politiche o religiose che ci indicano comportamenti diversi. La bellezza è molto spesso collegata, oltre ché alla: salute, alta giovinezza. Chi ricorda i versi di Gozzano su -cruna donna “da troppo tempo bella, non più bella tra poco” contrapposta alla “fanciulla Graziella”in quell’inno alla nostalgia borghese che è Le due strade? La salute è collegata nel nostro inconscio sociale alla giovinez­za: il vecchio è visto come più vicino alla morte: lo denunciano lo stato dei tessuti, l’appannamento dello sguardo, l’incanuti­mento o la calvizie, ragion per cui si tende a considerarlo comunque meno sano di un giovane, anche se non è raro che un ottan­tenne sia più sano di un diciottenne mala­to. Sono i condizionamenti dell’inconscio sociale che ci fanno ,attribuire soprattutto alla giovinezza il diritto alla salute, allaKouroi e alle Korai, alle loro splendide nudità. Il canone su cui Policleto costruiva le sue statue, dove la bellezza coincideva anche con misure e rapporti ben precisi. Questi canoni sono validi tuttora, anche se qualcuno oggi paradossalmente consiglierebbe alla venere di Milo una die­ta dimagrante. Questi criteri sono rimasti nei secoli, nonostante il periodico interven­to di modelli diversi in questa o quell’epo­ca storica, influenzati dal misticismo o dall’edonismo, dalla sensualità barocca o dal cerebralismo dell’art nouveau. C’è an­che stata una rivalutazione del brutto come ricco di una sensualità perversa, di cui si è impadronita certa cultura popolare e non. Nonostante insomma tutte le contraddizio­ni resta il fatto che ciascuno ha un bel­lezza e quindi anche alla sessualità. Inoltre la donna viene considerata desiderabile per meno tempo dell’uomo maschio e la vec­chia infoiata è considerata ancora più ridi­cola del maschio allupato. Sono condizio­namenti che ci vengono da una lettura for­se tendenziosa della cultura ellenica. Noi pensiamo ai proprio criterio di bellezza che coincide per lopiù con giovinezza, salute e sensualità. Esiste poi un fenomeno inspiegabile che rende desiderabili sessualmente anche persone apparentemente brutte, almeno in base ai canoni finora analizzati e viceversa fa rifiutare sessualmente persone belle. Questo si spiega, secondo me, perché ci sono due componenti fondamentali della bellezza: una esteriore ed una interiore. Quella interiore ha a che fare con l’armonia che deve esserci tra soma e psiche e tra l’individuo e gli altri. Quella esteriore ha bisogno per essere dav­vero desiderabile di essere unita ad una ca­pacità adeguata di percepire eroticamente il mondo e di farsi percepire allo stesso modo. Così il “brutto” Socrate può essere desiderabile, mentre possono non esserlo il modello o la maggiorata incapaci di pro­porsi “eroticamente” e sensualmente. Riba­disco a questo punto che comunque i con­dizionamenti dell’inconscio sociale sono determinanti.

III.4. DALL’ORO AL POTERE

Ho detto come il canone della bellezza sia rimasto, attraverso i secoli, e percorrendo trasversalmente le classi sociali, sufficien­temente stabile. Ci sono i gusti e le mode, le epoche cambiano i principi estetici, ma questi mutamenti sono soprattutto percepi­ti nel momento in cui avvengono, mentre la successiva prospettiva storica sembra ave­re un’azione uniformatrice. Le discussioni intorno al bello e al brutto danno molto fa­stidio perché richiamano sempre alla ses­sualità.

Narcisismo e sadomasochismo sono le  componenti fondamentali della bruttezza, nostra e altrui perché l’uno ci impedisce di vedere la bellezza negli altri e di mostrare loro quello che di bello c’è in noi; mentre l’altro ci rende _brutti nella violenza espropriatrice che deturpa l’oggetto stesso del nostro desiderio. Io continuo ad andare alla ricerca di- Eros e considero mio compito in­vitare gli altri a perseguirlo come fine. Chi desidera l’incontro con Eros lo ha già in parte trovato.

Vorrei a questo punto riassumere in tre punti il percorso fin qui tracciato:

1. Esiste una situazione di fatto, per cui nessuno nasce da sé, o per volontà propria, ma tutti nasciamo condizionati da una si­tuazione biologica e storico-sociale. I due gameti si incontrano, già ricchi di un patri­monio che viene di molto lontano, loro tra­smesso dal padre e dalla madre. Nessuno ha scelto i propri genitori, ma non può pre­scindere dalla eredità storica e genetica.

2. Successivamente la cultura del gruppo sociale e le condizioni ambientali ci pon­gono di fronte ai problemi delle scelte e delle responsabilità, su queste basi matu­riamo i giudizi sul bene e sul male, sull’in­telligenza e sulla stupidità, sul bello e sul brutto.

3. Narcisismo e sadomasochismo sono le difese che, quando subiscono lo scacco e predominano o si sovrappongono, allonta­nano da Eros, che è il solo modo sano di porsi in relazione con l’altro e con il mondo.

Un aspetto di cui si ha pudore di parlare, quando si fanno analisi complessive delle dinamiche umane, è quello legato diretta­mente al denaro e alle patologie ad esso collegate.

Quando ci si riferisce al danaro e quindi all’economia non può non affacciarsi alla mente il nome di Karl Marx. Questo sem­brerebbe un discorso poco pertinente con la psicoanalisi, ma io ho creduto di scorgere in Marx un pensatore che ha meglio di Jung formulato una teoria che, superando quella dell’”inconscio collettivo”, si avvicina al mio concetto dell’”inconscio sociale”. La  teorizzazione degli “archetipi” dell’inconscio e della conoscenza ha il grande meri­to di 91./ere – iiiarne con quella freudiana delle Urphantasien - ipotizzato l’esistenza di principi sobrapersonali e di contenuti psichici universali. Secondo questa idea junghiana noi siamo costituiti non solo dal bagaglio della nostra espe­rienza personale, ma nasciamo con un corredo di nozioni, astrazioni e simbolizzazioni  che ci vengono dalla specie e che Jung ha molto astutamente accostato alle “idee” dell’iperuranio” teorizzate da Pla­tone.

Jung considera questi contenuti principi immutabili ed eterni che passano attraver­so le generazioni. Secondo questa teoria, concetti fondamentali come quello di uomo e di donna, di padre e di madre, di figlio e di figlia sono dati una volta per sempre. Eb­bene senza voler entrare in un campo non suo, Marx ha avuto un’intuizione che a mio avviso supera in genialità quella junghiana, quando ha parlato dei concetti di “struttu­ra” e “sovrastruttura”. La struttura, secon­do Marx, è il complesso dei bisogni, non però banalmente intesi come collegati al meccanismo economico-finanziario; ma nella loro più ricca complessità di cui l’eco­nomia è solo un aspetto.

Partendo da questo spunto marxiano, io ho- voluto proseguire, sostenendo che alla base del bisogno c’è il desiderio. L’uomo nasce in uno stato dr bisognò che subito mette in moto il desiderio, il desiderio è prima di tutto piacere del desiderio e desiderio del piacere, senza il quale egli non potrebbe so­pravvivere nemmeno un minuto. La scelta progressiva della soddisfazione dei bisogni e dei desideri determina via via una situa­zione di fatto, composta dalla struttura eco­nomica, regolata prima dai rapporti di pro­duzione e poi da una conseguente morale, una religione, un’arte e così via. Nessun in­dividuo ha scelto la classe in cui nascere e i valori di quella classe, ma entrambi sono per lui gli archetipi che potrà accettare o ri­fiutare tali e quali o tentare di modificare lottando.

Immutabile ed ineliminabile resta solo la soddisfazione di -quel primo bisogno che è il piacere del desiderio-e desiderio del piacere-e che io ho voluto-chiamare eros, cioè la pulsione veramente originaria, prima ancora dell’istinto di conservazione, proprio perché  l’insufficiente autonomia del piccolo dell’uomo richiede prima di tutto uno slancio verso l’altro che deve garantirgli la sopravvivenza, e questo slancio è spinto solo dal desiderio del piacere, poichè l’istinto vitale ha biso­gno innanzi tutto del piacere per attivarsi dinamicamente.

Il bambino non dice subito questo è bene e questo è male; solo con l’esperienza farà le sue scelte in accordo o disaccordo con l’ambiente sociale che l’ha formato. Marx ha ipotizzato un divenire dialettico della storia che trasforma via via la struttura eco­nomica; 10 stesso divenire trasforma, se­cail5 me, gli archetipi e i valori, e la loro evoluzione dà i contenuti a quello che io chiamo “inconscio sociale”.

Il nostro inconscio sociale ha col danaro un rapporto complesso: da una parte considera la ricchezza un valore, dall’altra condanna i ricchi, giudicando moralmente più sani i poveri, che però sono chiamati a battersi per una giustizia sociale che li renda ricchi a loro volta. È un dato di fatto che ieri come oggi senza danaro non si poteva fare molto. Il Re Sole, quando discuteva sui bilanci di Versailles o sul costo di una cam­pagna militare si trovava di fronte a grosse difficoltà per la mancanza di danaro: lo stesso problema che tormenta la coppia proletaria, posta davanti all’eventualità del­la più piccola spesa. Tutti a diversi livelli siamo schiavi danaro. L’utopia del barbone solo uomo libero o quella dei “figli dei fiori” si scontra troppo spesso contro la tragedia e la morte nella miseria.

Il danaro adesso è di carta, un tempo era d’oro. Perché questa scelta, prima, e questa trasformazione in seguito? Gli archeologi dicono che fu scelto l’oro perché era era raro e resistente agli agenti atmosfe­rici. Io ho il sospetto che sia stato an­che perché  è splendente. L’oro è ancora oggi simbolo di ricchezza, virtuale e pratica, tanto è vero che la stessa vilissima carta moneta perde di valore quando diminuisce la riserva aurea nelle casse del­lo Stato.

La antica mitologia è ricca di aneddoti in cui l’oro gioca un ruolo importante: basti ricordare qui la storia di Danae, bellissima figlia di Crisia re di Argo. L’oracolo inter­rogato dal re aveva predetto che il figlio di Danae gli sarebbe stato fatale. Crisia, preoccupato di sfuggire al destino, fece seppellire Danae insieme con un’ancella in una prigione sotterranea di bronzo, chiusa ermeticamente da ogni parte, eccetto che per una piccola fessura in alto da cui po­tesse passare la luce. Zeus però che si era invaghito dell’avvenente fanciulla, pur di possederla si trasformò in una pioggia d’oro che, penetrando da quello spiraglio, la fecondò. Da quello strano amplesso nac­que Perseo che molto più tardi, liberato dal­la prigione, fu la causa della rovina del non­no. L’interpretazione più squallida del mito è quella secondo la quale le donne posso­no essere comperate con l’oro, altre letture vedono in Danae il simbolo della libertà malgrado tutti gli ostacoli, oppure una pa­rafrasi dell’avvicendarsi delle stagioni, in cui il grano, oro sepolto sotto la terra, fe­condandola genera nuove spighe.

In ogni caso è presente la concezione che unifica simbolicamente l’oro col seme che genera e quindi con la sessualità. Anche io vedo una dinamica sessuale molto com­plessa che non si può neppure ridurre al fallocentrismo di Freud, ma che è segno di una sessualità che si trasforma in lotta fin dalla notte dei tempi, tra il maschio e la femmina. Eros da subito si è scontrato con la violenza di espropriazione che ha dato luogo alla lotta tra i sessi: il maschio ce­dendo alla donna il proprio seme si è sentito impoverito e da allora si è aperto il conflitto.

Anche la mitologia biblica parla di questo rifiuto del maschio ad accettare l’espro­priazione del proprio seme da parte della donna, tanto che Onan preferisce spargerlo al suolo, commettendo il primo peccato di inaiturbazione di cui resti traccia. Io non credo che nella lotta tra il maschio e la fem­mina ci sia un solo espropriatore, certo che non è il maschio. L’espropriazione è reci­proca e continua, come lo è la lotta per il danaro, e l’una è simbolo dell’altra. In realtà maschi e femmine espropriano altri maschi e altre femmine in una logica di po­tere e poi sempre perseguendo la stessa an­sia di potere si espropriano reciprocamen­te. Non so se prima di questa lotta ci fosse un Eden felice, certo non ci sarà un Eden fino a che maschi e femmine non si af­fronteranno come persone e non come pro­tagonisti di un ruolo sessuale o di potere.