Archivio di settembre 1990

65 – Settembre ‘90

sabato, 1 settembre 1990

Noi vorremmo proprio sapere come è venuta in mente ai responsabili dell’Associazione Culturale l’Arte e lo Spettacolo la perversa idea di organizzare i Sei concerti della serie Musica a Piazza Colonna alle sette del pomeriggio nei giorni a cavallo tra la fine d’agosto e l’inizio di settembre.

Abbiamo assistito ad un’esecuzione di Bastiano e Bastiana di W.A. Mozart nel frastuono inverecondo del più frastornante caos cittadino; di cui può dare un’idea un episodio esilarante: accadde infatti che ad un certo punto un arpeggio di re maggiore coincidesse perfettamente con il passaggio di un’ambulanza la cui sirena parve ripetere all’impazzata uno strombazzante la-re la-re… e questo per riferire solo una tra le tante ridicole situazioni fatte di strombazzamenti e spernacchiamenti che hanno tentato di sommergere le sublimi melodie mozartiane.

Tanto che vogliamo usare queste righe per condannare apertamente un’operazione pseudo-culturale incomprensibile e demente. Roma è piena di piazzette silenziose e di chiostri appartati in cui sarebbe piacevole ascoltare la musica, perché quindi avvilire artisti e spettatori nel baccano di un infernale centro cittadino? Una trovata poi addirittura ‘geniale’ è stata quella di far ricorso ad un potente impianto di amplificazione, col risultato di sconquassare completamente ogni possibile equilibrio musicale, per cui i solisti tuonavano dagli altoparlanti come voci infuriate dell’Olimpo, sovrastando indecorosamente l’esile orchestra Helios diretta da Stefano Valmaggi, la quale sembrava esalare estremi, flebili, nonché stonatissimi vagiti. Inoltre le poche di per sé già insignificanti battute recitate del testo (si tratta, ricordiamolo, di un Singspiel) erano dette da tre personaggi inqualificabili, le cui voci erano per di più prive di qualunque coerente collegamento con quelle dei cantanti. Ci pare che l’occasione sia troppo squallida per prenderla a pretesto di un commento di una pagina di musica che rappresenta uno tra i vertici massimi toccati dall’occidente.

Quelle di quest’operina sono musiche così belle, rimaste intatte e perfette dopo due secoli, che noi vecchiacci barbogi possiamo solo inchinarci di fronte a tanta perfezione.

E neppure vogliamo parlare di Rousseau, di Mesmer o di chiunque altro.

Sebbene non riusciamo a non ridere amaramente di tanta insipienza vogliamo però rendere merito alla bravura e al coraggio del soprano Leila Bersiani, attenta e corretta in ogni momento; del sopranista Gianni Pala Contini, che, nonostante qualche incertezza, si è dimostrato molto espressivo; e del basso Carlo Guelfi, dalla voce piena, rotonda e vibrante.

Abbiamo detto l’effetto che ci ha fatto l’orchestra, ma nel marasma non ci sentiamo di esprimere drastici giudizi.

Ci auguriamo soltanto che non venga mai più in mente a nessuno di massacrare la musica alle sette della sera nell’arena di Piazza Colonna.

65 – Settembre ‘90

sabato, 1 settembre 1990

Chi non è capace di fare qualcosa sarebbe bene si astenesse dal farlo. La signora Von Trotta è senza dubbio una signora molto per bene, però non ha la benché minima nozione di cosa sia uno spettacolo cinematografico. Il suo film L’Africana appena presentato a Venezia è un esile fumetto infarcito di luoghi comuni e di tanta noia. La storia è questa: a Parigi due donne, perfide streghe, una l’ex amante e l’altra la moglie in carica, si strappano l’una dalle braccia dell’altra uno sciocco giornalista in carriera. Marta, l’ex amante, è diventata un medico che fa del bene in Africa; Anna, la moglie, si diverte a fare la malata di cancro; ma si diverte ancor di più a fare la sciocchina con due vecchi maghi che la spiano dalla finestra. Le due megere dopo che la malata è andata in pellegrinaggio per le fonti di Bretagna, guarendo dall’oscuro male, decidono di scappare insieme e senza l’uomo: in Africa. Il maritino è contentissimo, ma in un finale incomprensibile fa suo malgrado la valigia per andare a rompere loro le scatole. I due vecchiettini al fin della storia adocchiano dalla finestra un’altra coppia da prendere in trattamento magico e…si leccano i baffi. I dialoghi sono un coacervo insulso ed incomprensibile. Le sequenze si succedono con monotonia esasperante, commentate dalla musica di E. Lkaraindrou, eseguita da un’orchestra d’archi, più sax e pianoforte (a parte alcuni brani del repertorio classico) melensa e dolciastra, senza alcuna originalità, ma corretta armonicamente ed orchestrata con dignità professionale. La fotografia di Tonino Delli Colli dà il meglio del film, sia a Parigi, sia in Bretagna, con acute connotazioni sociali e paesaggistiche. Stefania Sandrelli anche qui si esprime col solito birignao lamentoso della donna sfatta e questa volta con la scusa del cancro perde ogni pudore. Barbara Sukowa è perfettamente nella parte: non riesce infatti a far sospettare nemmeno un ombra di sentimento in un corpo di pietra e negli occhi di ghiaccio. Sami Frey è un dolcissimo bambolotto che veste in un modo così attento i suoi panni di giornalista à la page da non riuscire a pensare ad altro. I due vecchietti risultano caratteri eccellenti, ora seguendo la regista in qualche citazione di Bergmann ora rifacendo il verso ad Hitchkock.

65 – Settembre ‘90

sabato, 1 settembre 1990

Fin dai tempi della scuola si viene a conoscenza di quello che lì per lì pare un mistero della storia di Roma antica, cioè di un periodo etrusco contrassegnato da una dinastia di monarchi accomunati dal nome di Tarquini tra il 617 e il 509 a.c. Né aiutano a capire gli antichi annalisti, in fondo propensi al sensazionalismo filo-repubblicano. Ragion per cui fa un certo piacere ritrovare un senso storico e culturale di quell’epoca in una mostra come quella allestita nel Palazzo delle Esposizioni di Via Nazionale, magari con qualche tentazione di grandeur già nel titolo: La grande Roma dei Tarquini e qualche arditezza filologica di tipo teutonico nel proporre ricostruzioni come si vedono a Berlino. La cultura degli Etruschi, la cui origine ellenica sembra evidente è passata sulle rive del Tevere sia pure attraverso i molti filtri delle popolazioni indigene e straniere stabilmente residenti o di passaggio e questa mostra non si accontenta di restituircene qualche sparso frammento, ma li inserisce tutti in un contesto culturale organico. Si riesce così a ritrovare il senso di un mondo ricco seducente e pieno di fascino. I curatori si sono preoccupati anche di rintracciare i confini geografici di una civiltà che è andata oltre i confini urbani, seguendo il Tevere dal suo corso superiore alla foce, estendendosi sui Colli Albani e verso il meridione. Una civiltà per la quale il culto dei morti è stato importante, ma che non si è ridotta a questo, come testimoniano ad esempio gli studi dei materiali e dei documenti relativi al Foro Boario, centro attivissimo di scambio culturale e commerciale o i rilievi e i materiali relativi al Palatino e le aree residenziali con i plastici illustrativi delle domus aristocratiche sopra le mura e il pomerio.
Va dunque riconosciuto il merito di tanti enti, musei e studiosi che si sono uniti per restituirci una volta tanto un insieme coerente che aiuta a leggere un pezzo della storia che ci sta alle spalle cronologicamente, ma così vicino geograficamente e spiritualmente.

65 – Settembre ‘90

sabato, 1 settembre 1990

Le case editrici, sul far dell’estate, sfornano con avidità libri, libroni e libercoli da consumare durante le vacanze. Gli italiani – si sa – sono praticamente analfabeti: basta leggere un tema di maturità per rendersi conto che la lingua italiana non esiste più. Tutti usano ‘te’ come soggetto anziché ‘tu’; dicono ‘mangià’ anziché ‘mangiare’; e questo sarebbe niente, se non ci trovassimo di fronte ai giornalisti televisivi che storpiano anche la dizione, parlando come contadini ubriachi di questa o quella regione. Chi sa ancora che la è di bène è aperta? Nessuno più mostra di conoscere l’uso del congiuntivo, impiegato poi, quando capita, in modo delirante. Noi saremmo del parere di imporre a tutti l’esperanto, almeno si potrebbe ricominciare da zero e gli analfabeti, più o meno di ritorno, del Costanzo Show avrebbero l’opportunità di imparare di bel nuovo una lingua, in modo coerente ed organico. In tal modo la bella lingua dell’altrettanto bel paese sarebbe privilegio di pochi eletti, capaci di rispettarla ed amarla.
Dopo questo sfogo, passiamo a riferire dei tre libri dell’estate che, forse, anche gli analfabeti hanno avuto occasione di leggere o farsi leggere, visto che li hanno comprati.
Incominciamo con La Chimera, di Sebastiano Vassalli (Einaudi, 1990, pagg. 303, Lit. 26.000).
L’autore è un manzoniano post-litteram che scrive con schietta onestà linguistica, fiorita di piemontesismi e lemmi prelevati dall’antico linguaggio della Valsesia. Noi non sappiamo se l’identificazione col Manzoni, così totale, sia anche consapevolmente cercata: sta di fatto che c’è il Seicento, ci sono le le grida, la peste, ci sono insomma tutte le disgrazie umane, a far da contrappeso alle quali manca però la Provvidenza; e manca anche la forza poetica di Manzoni. Tutti i personaggi dell’opera sono antipatici: lo è Antonia, la protagonista, vittima del fanatismo bigotto, lo è l’arcigno e allucinato vescovo Buscapé, lo sono i triviali genitori adottivi della ragazza e tutti gli altri, laici e religiosi, esseri immondi, vigliacchi senza speranza. Un solo personaggio sembra positivo: quello del boia, il quale appicca il fuoco al rogo, solo dopo avere, con tenerezza ed amore, inebetito la sua vittima con la somministrazione di uno stordente elisir. Tutto sommato, il libro risulta efficace, sia nel descrivere un ambiente ed un’epoca, sia nel dipanare una storia che appassiona, affollata di personaggi vividi e psicologicamente credibili.

La monumentale opera di Oriana Fallaci, Insciallah (Rizzoli, 1990, pagg. 795, Lit. 30.000) può essere mal giudicata per tantissimi motivi: perché usa ad ogni volger di pagina tutti gli effettacci possibili, perché è di un maschilismo così esasperato da infastidire persino due iper-maschilisti come noi, perché sproloquia su tutto l’universo fisico e metafisico; però nessuno può tacere che viene dalla mano di una scrittrice autentica. Il ritmo della scrittura è quanto mai avvincente, quasi sempre simile all’incalzare di una fervente preghiera. L’esaltazione della guerra riesce a tradursi anche in una condanna inappellabile, eppure nella totale assenza di retorica.
Il sadomasochismo dell’autrice si esprime a vertici di parossismo, però governato e reso sempre accettabile dalla qualità letteraria che fa ingoiare immagini che sarebbero intollerabili di bambine infilate come salsicce nei water o bambini da libro Cuore che saltano in aria scoppiando come palloncini mentre portano una gavetta di zuppa all’amico soldato italiano.
Le donne sono tutte figure inessenziali ed appiccicate, siano il gruppo di simpaticissime monache francesi, sia la bellissima e tormentata Ninette dalla psicologia inverosimile e fasulla. I maschi invece, sebbene enfatizzati fino alla caricatura, sono personaggi convincenti e credibilissimi dal primo all’ultimo: teneri, innamorati, buoni e cattivi; tutti riassumibili nella sintetica autenticità della frase: «Cazzo d’un cazzo stracazzo!» Prova evidentissima questa che depone contro l’assunto femminista che vorrebbe che solo le donne fossero capaci di capire le altre donne. Qui una donna arguta e intelligente capisce i maschi molto meglio di quanto capisca le altre donne.
Insciallah, se Dio vuole, forse è la formula della vita. Questo è anche un libro profondamente religioso; ma anche, inspiegabilmente quasi, spiritoso ed allegro.
Ci rendiamo conto adesso di non aver ancora detto che vi si narra della spedizione di pace degli italiani a Beirut. Ma forse si parla degli uomini e del loro essere al mondo.

Stupido ed irritante è invece Arco di Luminara di Luisa Adorno (Sellerio, 1990, pagg. 221, Lit. 10.000). Stupido perché i personaggi sono caratterizzati da uno psicologismo squallidamente ovvio; irritante perché non è che il ‘diario’ di una professoressa di scuola media inferiore, la quale è pericolosamente convinta di possedere genio e cultura soltanto perché da ragazzina ha letto I Malavoglia. Un romanzo può essere stupido non solo quando, come in questo caso, è flaccido ed inefficace, ma anche quando racconta vicende sulle quali l’autore non riesce a gettare la luce di alcun interesse. Speriamo poi che nessuno cada più nel trabocchetto della supposta letteratura che sa esaltare ‘le piccole cose’. Pascoli, Gozzano e Corazzini sono titani quando parlano di un profumo d’erba o del suono di una campana a sera. Il romanzetto della Adorno ha un irritante odore di rancido e di stantio. Fasulla è la sua Sicilia, descritta come un Paradiso abitato da citrulli, altrettanto fasulla è la vita che si svolge in piccoli riti sclerotizzati nell’appartamento romano. Nessuna delle figure che si muovono ed agiscono ha un’anima propria, ma su tutte si riflette invadente e impositiva l’anima della narratrice. Anche e forse proprio per il suo tentativo di smorzare i ‘grandi’ sentimenti con pietoso umorismo e una reiterata autoironia, il libretto perde d’interesse ad ogni pagina e si chiude sul nulla, come è prerogativa di un brutto romanzo.

65 – Settembre ‘90

sabato, 1 settembre 1990

Sulla corta traversa del Corso che ha nome via dei Montecatini, a pochi passi dal fiume di automobili e di pedoni, ammicca invitante l’insegna de Il falchetto, ristorantino lindo e grazioso, arricchito da una civettuola veranda. Può accadere così che il frastornato viandante si trovi ad approdarvi in cerca di ristoro e di pace. La pace in effetti la trova, insieme con l’accoglienza garbata e spiritosa di un giovane camerierino dotato della stessa gentilezza dei suoi colleghi, ma con un briciolo di ironia in più; per quel che riguarda il ristoro invece le cose andranno volgendo, in poche portate, verso il tragico.
Noi abbiamo iniziato – sapendo di dover attendere persone che sarebbero sopraggiunte solo molto più tardi – con uno tra i nostri cocktail preferiti: il gin rosa, eseguito, su nostre indicazioni, con onesta cura.
L’attesa e l’aperitivo ci hanno poi spinto, piuttosto affamati, verso il tavolo degli antipasti, ma l’assoluta mancanza di qualunque sapore ha reso ben presto sterile il nostro lavorar di mascelle, per cui con diminuito entusiasmo ci siamo accostati ai primi piatti. Esperienza rivelatasi addirittura disperante. Fettuccine ai funghi porcini cementate da un sugo dissennato e incomprensibile, dominato da un sentore intollerabile di bruciato; !inguine al pesto amare più che se fossero state condite con fiele e mirra; gnocchi di patate come evanescenti bozzoli senza alcuna comunicazione tra loro di sugo o condimento purchessia. Piuttosto depressi abbiamo puntato le residue speranze su collaudatissimi secondi: saltimbocca alla romana, insipidi ma commestibili; rognoncino trifolato, preparato come l’avrebbe fatto una mamma indaffarata, tra l’ufficio del mattino e quello del pomeriggio: sapori slegati quindi, ma senza infamia; i calamari alla Luciana invece puntavano tutto su di uno squillante peperoncino che, inducendo a bere, teneva alto il buon umore. I crème caramel hanno riportato la nota amara che sembra essere la caratteristica dello chef: una tremula e depressa gelatina affogata in un amarissimo nero caramello. Dei vini si può dire che abbiamo bevuto un bianco della casa che pareva attinto alla fontanella, un Pinot Grigio del Collio e un Grignolino senza infamia e senza lode.
Il conto ci è parso tradire la voglia di approfittare del viandante di cui sopra e della sua stanchezza.

In Via Emilia esiste un ristorante ‘cinese’ dal nome Il Mandarino, in cui tutto può accadere, in una scenografia hollywoodiana che è la parodia di uno pseudo-liberty cantonese: finti e veri marmi, drappeggi di finta e vera seta, lampadari di finto e vero cristallo, draghi di finto oro e veri camerieri italiani vestiti per finta con vere casacche cinesi. Tutto questo per garantire la cornice più sontuosa alla più orrenda ed improbabile cucina. Noi consigliamo di farci una scappata per godere una serata di lussuosa follia. Astenetevi però dal perdere tempo con crostini di gamberi bruciacchiati o pastrocchi ammollati e densi di fecola, ma chiedete il solo ed unico piatto che – prodigiosamente – qui viene eseguito e servito in modo ineccepibile: l’anatra laccata alla pechinese. Avrete un’esperienza che varrà l’altissimo conto. Ignorate, e se lo diciamo noi potete crederci, la lista dei vini e uscite sobri ma divertiti.
Come è accaduto a noi, anche maliziosamente soddisfatti nell’avere spiazzato due carissimi amici che lì ci avevano invitato, con amore, sperando a loro volta di ’spiazzarci’.

Psicoanalisi contro n.65 – Il Papa e la portiera

sabato, 1 settembre 1990

Ho già detto altre volte che, lo psicologo in generale e lo psicoterapeuta in particolare, è bene che affrontino lo studio e la cura di quell’entità imprecisabile, denominata ‘psiche’ con un atteggiamento probabilistico che non solo non escluda a priori alcun tipo di approccio; ma che permetta loro di evitare il rischio di ridurre la psiche ad un concetto astratto e svincolato dalla realtà organica; non soltanto del cosiddetto sistema nervoso centrale o periferico, ma anche degli altri apparati fisiologici del corpo umano. D’altra parte lo psichiatra organicista che procede andando alla ricerca di lesioni cerebrali e di alterazioni metaboliche limitandosi ad operare esclusivamente in tale ambito ed intervenendo con somministrazione di dosi più o meno massicce di psicofarmaci deve rendersi conto che la realtà davanti alla quale viene a trovarsi è ben più complessa delle favolette anatomo-fisiologiche cui la sua pretesa scientificità vorrebbe ridurlo.
L’essere umano con le sue relazioni col mondo che ne fanno tutt’uno con l’ambiente ed il rapporto di azione e reazione di sé con sé travalica i limiti della propria fisicità. Ovviamente molto spesso l’azione farmacologica avrà effetti evidentemente positivi per psichiatra e paziente, ma il significato profondo del disagio non potrà essere compreso da chi si limiti alla lettura organica dell’etiologia e dei sintomi e ad essa conformi il suo intervento. Con questo non voglio entrare in merito al problema metafisico e teologico se la psiche sia da identificare con l’anima, anche se penso che pure questo aspetto della questione debba essere tenuto presente da chi ritiene di dover intervenire in un campo così denso di implicazioni come la psicopatologia che può essere affrontato solo grazie ad un pluralismo scientifico il più aperto possibile. Io personalmente so che quando mi impegno nella cura lo faccio con l’intenzione di lottare anche contro quello che considero il ‘male’ metafisicamente inteso perché nella mia prospettiva è sempre presente un punto di riferimento trascendente da cui non voglio prescindere. Forse nella mia lotta contro il male c’è anche un impegno di lotta contro il ‘maligno’ e questo benché cerchi di usare con la massima precisione possibile quegli strumenti scientifici che anni di studio e di esperienza mi hanno messo a disposizione e che apparentemente sfuggono ad ogni considerazione di tipo teologicometafisico.
Io so di non essere – in quanto psicologo – un salvatore di anime; ugualmente il mio sforzo punta a far star meglio le persone con cui ho un rapporto terapeutico, considerandole entità unitarie sulle quali cerco di agire nei miei limiti di psicologo e psicoanalista che scruta nel profondo e in quello che sta dietro ed anche prima, tentando la comprensione di un mondo e di un significato esistenziale che è causa diretta o indiretta del disagio.
Ogni alterazione psichica, leggera o grave, rimanda continuamente ad una disfunzione organica, ma non solo. Per questo il fondamento teorico su cui baso il mio intervento non esclude l’uso di farmaci o psicofarmaci, purché siano sempre subordinati al fine di aiutare nella sua interezza la persona ad uscire dallo stato di malessere, senza limitarsi ad una contenzione parziale di sintomi fine a se stessa; tanto che quando posso fare a meno di tali sussidi me ne rallegro perché sono consapevole di quanto rischio ci sia in tale uso, un rischio ancora maggiore di quello già insito nell’uso della parola.
Sono inoltre convinto dell’importanza per uno psicoterapeuta dell’uso del linguaggio del corpo e del gesto, anche il corpo del terapeuta ha un linguaggio ed è importante che egli non rimanga paralizzato dal tentativo continuo che il paziente opera di leggere od interpretare, giudicando.
Il paziente ha il diritto di giudicare e spesso il suo giudizio è acuto ed utile al rapporto analitico; proprio per questo io biasimo quei terapeuti che narcisisticamente si sottraggono al possibile giudizio dei loro pazienti, anche acquattandosi alle spalle dei propri analizzati, nel tentativo di farsi percepire il meno possibile, paghi di essere solo una voce che parla.

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La scuola di cultura teorica e di pratica psicoanalitica che ho fondato da più di dieci anni a questa parte ha in me un direttore e un didatta che si connota per alcune caratteristiche piuttosto sui generis. Una delle conseguenze più significative di questa mia singolarità è costituita dall’interazione tra me e l’analista personale al quale ciascun allievo è affidato per regolamento statutario. Dato che ogni analista ha avuto, a suo tempo, un’esperienza analitica con me, e poiché io mantengo un contatto diretto con gli allievi, viene a costruirsi un gioco articolatissimo di interazioni tra i tre termini del rapporto analitico e didattico, dentro e fuori delle sedute. Non solo, ma io stesso debbo usare queste fantasie, queste proiezioni, queste identificazioni questi transfert con naturalezza e allo stesso tempo con responsabile cautela; non posso infatti far finta di essere per allievi e docenti, analisti e pazienti, soltanto una figura istituzionale: io sono io e anche altro da me, sono una quantità di persone e di ruoli.
Questo vale comunque per ogni rapporto interpersonale: sempre i meccanismi trasferenziali arricchiscono la persona trasferendovi dinamiche esperite prima e altrove, solo che su di me questi meccanismi operano con intensità eccezionale e maggiore è la fatica di trovare in tanto lavorio trasferenziale il modo di propormi anche quale io sono in realtà, o come credo di essere.
In ogni caso – e consapevole dei rischi e delle fatiche che ciò comporta per tutti – ho scelto la via del rapporto diretto che inizia fin dal primo colloquio preliminare all’eventuale ammissione alla scuola durante il quale io sempre propongo a chi sto per ammettere una riflessione sulla mia persona e i sentimenti che essa ispira esortando soprattutto a riflettere sugli aspetti che paiono negativi. Non voglio infatti iniziare il rapporto didattico e analitico con chi, al di là delle inevitabili ambivalenze, provi per me eccessivo odio, diffidenza, paura o antipatia. Se il rifiuto della mia persona è troppo accentuato è meglio evitare l’inizio di un’esperienza comune che inevitabilmente finirebbe per essere distruttiva. Io so di dover dare molto e di dover chiedere in cambio altrettanto, so di non dare tregua, sono affettuoso ma scomodo, anche perché non nascondo i miei difetti, allo stesso modo in cui non nego quelli che ritengo siano i miei pregi. Sono pochi quelli che credono davvero a quanto dico. Alcuni rimangono affascinati, altri reagiscono con irritato fastidio, altri si sforzano di non sentire; ugualmente sono convinto di dover fare la mia opera di avvertimento, con la speranza che in qualche angolo della psiche le mie parole agiscano e servano a superare eventuali momenti di disorientamento futuro. Il mio sforzo consiste nel cercare di debellare definitivamente la menzogna, in tutte le sue forme, dai miei rapporti con gli altri; anche se so che non potrò mai dire d’avercela fatta fino in fondo. Se questo mio atteggiamento ha dei grandi ed evidenti svantaggi, ha però il vantaggio di dare coerenza a tutto il mio progetto teorico ed esistenziale e solidità al mio mondo affettivo.

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Molte sono le forme che la psicologia dinamica ha assunto; oggi la psicoanalisi non è più solo quella che ha precisi riferimenti freudiani; anzi vi sono scuole di pensiero psicoanalitico che si oppongono a Freud esplicitamente; tuttavia possiamo tranquillamente ormai definire ‘psicoanalitico’ un atteggiamento che è comune a quasi tutte scuole e che consiste nel tentativo di cogliere dietro a quelle che sono le ‘razionalizzazioni’ del quotidiano vivere le ‘motivazioni’ nascoste. I perché coscienti che spingono l’uomo ad agire hanno la loro importanza e possono essere formulati con chiarezza e questo vale anche per la formazione dei sintomi, psichici od organici, ma si tratta sempre solo di epifanie di qualcosaltro che può avere spiegazioni anche molto diverse da quelle razionali. Le motivazioni inconsce stanno alla radice dei comportamenti individuali ed anche di quelli del gruppo sociale e ne causano gli aspetti patologici o perversi: siano violenza o razzismo, siano epidemie o situazioni endemiche, espressioni psicosomatiche di una realtà inconscia del gruppo. Come dicevo, oggi c’è su tutti questi fenomeni un atteggiamento psicoanalitico per grosse linee univoco che tende alla ricerca delle fonti nascoste del disturbo. Io personalmente non credo che sempre le razionalizzazioni individuali o sociali debbano essere schopenhauerianamente considerare come ‘rappresentazioni’ e che dietro il ‘velo di Maya’ si agiti l’impulso della ‘volontà’, sono anzi del parere che le espressioni coscienti dell’individuo e del gruppo seppure spesso siano falsità che realmente nascondono verità profonde, in altri casi esprimono in parte esigenze reali che completano quelle inconsce. L’atteggiamento psicoanalitico è però estremamente utile per gli individui e per la collettività; è infatti pericoloso negare o ignorare la presenza dei legami inconsci; la concatenazione delle cause e degli effetti è molto serrata anche se è pressoché impossibile pretendere sempre di risalire alle cause fondamentali o primarie; è abbastanza facilmente intuibile un processo di circolarità che riporta dal fondo alla superficie e viceversa; e la psicoanalisi più utilmente di altri metodi di indagine può metterlo in luce.

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Il gioco di reciproca interazione tra esigenze di razionalizzazione ed esigenze dell’inconscio non è semplice: la spiegazione che a livello cosciente si può dare di un comportamento viene facilmente smentita dall’analisi delle motivazioni inconsce; ma sarebbe un errore ritenere che il meccanismo sia sempre identico: ogni volta il collegamento tra i due livelli si realizza con modalità proprie e con variabili pressoché te infinite. Tutto questo complica, unitamente alle resistenze e alle negazioni il rapporto psicoanalitico perché nessuno accetta di buon grado la guida di un altro specialmente sulla strada della presa di coscienza. Due sono i modi fondamentali attraverso i quali individui o il gruppo sociale si sottraggono alle conseguenze del lavoro analitico: il primo consiste nello scegliere come ipotesi assolutamente valida quella meno scomoda fra le molte che si sono prospettate; il secondo sta nel mettere in evidenza, vista la non univocità assoluta delle ipotesi, l’impossibilità di scegliere utilmente un’ipotesi come più probabile delle altre, privilegiando comunque la razionalizzazione. In entrambi i casi, alla coscienza si somma la cattiva coscienza. Vorrei concentrare l’attenzione sul primo modo al quale ho accennato e mettere in evidenza come questo sia un atteggiamento privilegiato proprio da chi fa il mestiere di psicoanalista.

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Ho detto come grave sia la condizione di coloro che si assumono irresponsabilmente il peso della professione psicoanalitica, e con scarse basi teoriche, assenza di una solida metapsicologia, una cattiva analisi didattica o peggio l’assenza della medesima, condizioni che creano un vero e proprio marasma psichico che coinvolge analista e paziente, per questo non voglio neppure considerare l’ipotesi di un comportamento delittuoso di chi diventa capace di qualunque slealtà pur di non essere scoperto. Non meno grave mi pare però la posizione di quegli psicoanalisti sufficientemente preparati i quali, forti della loro credibilità, usano un tipo di strategia difensiva ed aggressiva che io trovo scorretta. Approfittando del fatto che, in ultima istanza, quasi nessun gesto umano, quasi nessuna frase sono mossi da una spinta univoca, ma sono la risultante di complicati compromessi tra le molte spinte dell’inconscio ai diversi livelli, questi analisti scelgono una fra le molte motivazioni, generalmente quella che fa loro più comodo, per molteplici ragioni, e vi ascrivono totalmente il significato del comportamento del paziente o del soggetto in questione; lo stesso fanno per giustificare un loro comportamento di reazione a quello del paziente o interlocutore, imponendo così sempre la giustificazione del loro dire o agire. A me è successo più di una volta di rimanere esterrefatto nell’assistere a simili giochi di inganno. A costo di sentirmi dire che anche il mio giudizio poteva essere facilmente ‘interpretato’ io ho sempre voluto impormi di esprimere comunque il mio diritto-dovere di critica e di intervento, costringendo in qualche misura gli analisti che lavorano con me a riconsiderare le cose ed a mettersi a loro volta in discussione.

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Tutti ormai conoscono l’imperversante cattiva abitudine degli orecchianti della psicoanalisi, pazienti o studenti, o solo cultori i quali non perdono occasione per affliggere le persone del loro ambiente con continue interpretazioni dei gesti della vita quotidiana dietro ai quali riescono sempre a trovare reconditissime e per lo più ignobili motivazioni; ma tutto sommato la loro stessa smania li rende in genere innocui perché li fa sprofondare nel ridicolo.
Molto più difficile è invece affrontare l’argomento delle motivazioni inconsce con uno psicoanalista. È una favola messa ad arte in circolazione dalla nostra stessa categoria fin dai tempi di Freud che uno psicoanalista sia più consapevole di altri delle proprie dinamiche inconsce e sia in grado di esercitare sempre su di esse il massimo controllo. Certo un bravo psicoanalista a qualunque scuola faccia riferimento e quali che siano le proprie basi metapsicologiche deve sapersi destreggiare non solo quando è alle prese con l’inconscio altrui, ma anche quando ha a che fare con il proprio e se fa onestamente il proprio mestiere non può essere del tutto preda della propria cattiva coscienza, almeno durante le ore della pratica professionale, cioè durante le sedute e anche quando, consapevolmente giudica con gli strumenti che gli sono specifici la realtà circostante. Accade invece a molti psicoanalisti ‘a tutto servizio’ o ‘a tempo pieno’. Gente che sembra nata con le stimmate del ‘dottore della psiche’. Non voglio alludere a quei teneri individui che sono agli inizi della loro pratica psicoanalitica e che sono fatalmente destinati a conoscere il loro momento ‘ossessivo’; ma parlo di gente che ha alle spalle anni ed esperienza clinica. Sono persone che ostentano un’imperturbabilità straordinaria, non sembrano inquinati da passioni od emozioni e del mondo sembrano vedere solo ciò che ’sta dietro’ scaltri lettori delle motivazioni inconsce del Papa come della portiera dello stabile in cui vivono.
Per lo più la loro aderenza al mondo esterno si manifesta con il culto di un hobby osservato con seriosa concentrazione e sul quale riversano le loro scorte di passionalità: sia una collezione di pipe o la catalogazione di reperti aztechi, sia la raccolta di minerali o la giallistica. Per il resto guardano il mondo con l’occhio del veggente e di ogni evento sanno con un sorriso predire le immancabili conseguenze o trovare la conferma dei loro passati presentimenti, e questo nel caso di conflitti internazionali come nel caso di incidenti di giardinaggio. Sono persone che forse riescono a trovare un po’ di equilibrio e di autoironia solo quando operano terapeuticamente e quando ciò non accade allora vuol dire che sono veri e propri pericoli pubblici e meglio farebbero a cambiar mestiere.

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Qualche tempo fa mi trovai coinvolto in una situazione particolare, nella quale un gruppo di amici doveva decidere di fare un regalo ad una persona affettivamente molto importante per loro. Era venuto a conoscenza della cosa qualcuno a me vicino e sufficientemente attendibile: la scelta era caduta su di un oggetto di notevole valore e certamente atteso e gradito dal destinatario, cui veniva offerto con grande amore e rispetto a costo di un certo sacrificio economico. Uno dei donatori era uno psicoanalista da me ben conosciuto, serio e preparato, ma all’ultimo momento proprio costui s’era tirato indietro, con sgomento di tutti, dicendo di non voler stare a quello che definiva un ‘gioco di massacro’. «Voi – spiegò – volete umiliare l’amico con un regalo sbalorditivo, per motivi che sono ignobili e dai quali mi dissocio energicamente.» Lo sbalordimento fu generale, ma io ebbi la conferma della malafede del dissenziente e dell’errata interpretazione dal fatto che mentre presto tutti scordarono l’episodio, realizzando il progetto ed offrendo un dono che fu accettato con gioia e riconoscenza, solo il tartufismo del buono psicoanalista e pessimo amico si preoccupò di giustificare il suo rifiuto. Proprio per la precisione con cui seppe chiarire di ciascuno le possibili dinamiche di ambivalenza, spiegando ad uno l’invidia, ad un altro l’aggressività, ad un terzo la speranza di farsi perdonare un tradimento e così via, incapace però di riflettere sulla propria incapacità di unirsi agli altri, di offrire con gioia, di dare con semplicità. L’esempio per banale che possa parere, è illuminante di come sia facile usare i propri strumenti critici e cognitivi per leggere l’inconscio altrui come fa più comodo e per sottrarsi alla lettura del proprio.
Questo perché anche le zone d’ombra pur presenti in molti gesti non sempre sono predominanti e non è detto che annullino uno slancio d’amore.

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Ciò che può essere entusiasmante nell’indagine psicoanalitica e nel lavoro terapeutico è anche questo sentirsi sempre in bilico tra vero e falso, giusto ed ingiusto, tra l’inganno più turpe e la sincerità più disarmante. È verissimo che molti baci sono come quelli di Giuda, ma Giuda ne era consapevole? Molti sono i baci forieri di tradimento, suscitati dall’odio e non dall’amore, eppure molto spesso non lo sa neppure chi offre quel bacio. Anche molti gesti d’amore sono così carichi d’odio che risulta incomprensibile che possano essere compiuti con tanta inconsapevolezza. Viceversa gesti di odio o di aggressività possono essere in realtà coperture di grandi e inconsapevoli sentimenti d’amore. Non solo l’analista, ma chiunque lo sappia fare con un po’ di acume, può leggere, se lo vuole, gli altrui e i propri gesti anche come l’opposto o comunque altro da quella che è la dichiarata intenzione di chi li compie.
Questo non significa che non si abbia sempre il dovere di guardarsi dall’accusare gli altri di delitti e sentimenti che appartengono invece a chi legge o a chi accusa.
L’ambigua polivalenza dei sentimenti costringe tutti ad una lotta continua con gli altri e con se stessi, non ci si può dunque permettere tregua, ma soprattutto e prima di tutto con se stessi; cosa di cui non tiene spesso conto la terribile meschinità dei ‘tartufi’, psicoanalisti e non.

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Bisogna dunque accettare la contradditorietà insita in gran parte dei comportamenti umani; quello che si può fare, però, è agire sulle motivazioni, lavorare su di sé per rendere più armonico il rapporto tra le cause e gli effetti. Per quanto difficile è però possibile individuare nel proprio comportamento la motivazione predominante o la linea di motivazioni principali, malgrado la presenza delle tensioni opposte, dei desideri contraddittori; e riconoscere al di sotto o al di sopra di esse l’obiettivo ultimo. Questa esortazione a non perdersi troppo nelle elucubrazioni sulle infinite ipotesi dell’inconscio vale per tutti, ma vale in modo particolare per coloro che svolgono un lavoro di psicoanalisi, come analisti o come pazienti. L’obiettivo deve essere quello di comporre una mappa di motivazioni inconsce, valutandone peso, forza e direzione; non bisogna porre tutto sullo stesso piano: idee e desideri, nell’inconscio come nella coscienza, s’incontrano e si scontrano; talvolta le forze sono equilibrate, talaltra invece un elemento predomina perché così è o così vorremmo che fosse. Resta solo la sicurezza di voler fare insieme il possibile per capire. È più difficile sbagliare se si desidera davvero conoscere la verità.