65 – Settembre ‘90

settembre , 1990

Le case editrici, sul far dell’estate, sfornano con avidità libri, libroni e libercoli da consumare durante le vacanze. Gli italiani – si sa – sono praticamente analfabeti: basta leggere un tema di maturità per rendersi conto che la lingua italiana non esiste più. Tutti usano ‘te’ come soggetto anziché ‘tu’; dicono ‘mangià’ anziché ‘mangiare’; e questo sarebbe niente, se non ci trovassimo di fronte ai giornalisti televisivi che storpiano anche la dizione, parlando come contadini ubriachi di questa o quella regione. Chi sa ancora che la è di bène è aperta? Nessuno più mostra di conoscere l’uso del congiuntivo, impiegato poi, quando capita, in modo delirante. Noi saremmo del parere di imporre a tutti l’esperanto, almeno si potrebbe ricominciare da zero e gli analfabeti, più o meno di ritorno, del Costanzo Show avrebbero l’opportunità di imparare di bel nuovo una lingua, in modo coerente ed organico. In tal modo la bella lingua dell’altrettanto bel paese sarebbe privilegio di pochi eletti, capaci di rispettarla ed amarla.
Dopo questo sfogo, passiamo a riferire dei tre libri dell’estate che, forse, anche gli analfabeti hanno avuto occasione di leggere o farsi leggere, visto che li hanno comprati.
Incominciamo con La Chimera, di Sebastiano Vassalli (Einaudi, 1990, pagg. 303, Lit. 26.000).
L’autore è un manzoniano post-litteram che scrive con schietta onestà linguistica, fiorita di piemontesismi e lemmi prelevati dall’antico linguaggio della Valsesia. Noi non sappiamo se l’identificazione col Manzoni, così totale, sia anche consapevolmente cercata: sta di fatto che c’è il Seicento, ci sono le le grida, la peste, ci sono insomma tutte le disgrazie umane, a far da contrappeso alle quali manca però la Provvidenza; e manca anche la forza poetica di Manzoni. Tutti i personaggi dell’opera sono antipatici: lo è Antonia, la protagonista, vittima del fanatismo bigotto, lo è l’arcigno e allucinato vescovo Buscapé, lo sono i triviali genitori adottivi della ragazza e tutti gli altri, laici e religiosi, esseri immondi, vigliacchi senza speranza. Un solo personaggio sembra positivo: quello del boia, il quale appicca il fuoco al rogo, solo dopo avere, con tenerezza ed amore, inebetito la sua vittima con la somministrazione di uno stordente elisir. Tutto sommato, il libro risulta efficace, sia nel descrivere un ambiente ed un’epoca, sia nel dipanare una storia che appassiona, affollata di personaggi vividi e psicologicamente credibili.

La monumentale opera di Oriana Fallaci, Insciallah (Rizzoli, 1990, pagg. 795, Lit. 30.000) può essere mal giudicata per tantissimi motivi: perché usa ad ogni volger di pagina tutti gli effettacci possibili, perché è di un maschilismo così esasperato da infastidire persino due iper-maschilisti come noi, perché sproloquia su tutto l’universo fisico e metafisico; però nessuno può tacere che viene dalla mano di una scrittrice autentica. Il ritmo della scrittura è quanto mai avvincente, quasi sempre simile all’incalzare di una fervente preghiera. L’esaltazione della guerra riesce a tradursi anche in una condanna inappellabile, eppure nella totale assenza di retorica.
Il sadomasochismo dell’autrice si esprime a vertici di parossismo, però governato e reso sempre accettabile dalla qualità letteraria che fa ingoiare immagini che sarebbero intollerabili di bambine infilate come salsicce nei water o bambini da libro Cuore che saltano in aria scoppiando come palloncini mentre portano una gavetta di zuppa all’amico soldato italiano.
Le donne sono tutte figure inessenziali ed appiccicate, siano il gruppo di simpaticissime monache francesi, sia la bellissima e tormentata Ninette dalla psicologia inverosimile e fasulla. I maschi invece, sebbene enfatizzati fino alla caricatura, sono personaggi convincenti e credibilissimi dal primo all’ultimo: teneri, innamorati, buoni e cattivi; tutti riassumibili nella sintetica autenticità della frase: «Cazzo d’un cazzo stracazzo!» Prova evidentissima questa che depone contro l’assunto femminista che vorrebbe che solo le donne fossero capaci di capire le altre donne. Qui una donna arguta e intelligente capisce i maschi molto meglio di quanto capisca le altre donne.
Insciallah, se Dio vuole, forse è la formula della vita. Questo è anche un libro profondamente religioso; ma anche, inspiegabilmente quasi, spiritoso ed allegro.
Ci rendiamo conto adesso di non aver ancora detto che vi si narra della spedizione di pace degli italiani a Beirut. Ma forse si parla degli uomini e del loro essere al mondo.

Stupido ed irritante è invece Arco di Luminara di Luisa Adorno (Sellerio, 1990, pagg. 221, Lit. 10.000). Stupido perché i personaggi sono caratterizzati da uno psicologismo squallidamente ovvio; irritante perché non è che il ‘diario’ di una professoressa di scuola media inferiore, la quale è pericolosamente convinta di possedere genio e cultura soltanto perché da ragazzina ha letto I Malavoglia. Un romanzo può essere stupido non solo quando, come in questo caso, è flaccido ed inefficace, ma anche quando racconta vicende sulle quali l’autore non riesce a gettare la luce di alcun interesse. Speriamo poi che nessuno cada più nel trabocchetto della supposta letteratura che sa esaltare ‘le piccole cose’. Pascoli, Gozzano e Corazzini sono titani quando parlano di un profumo d’erba o del suono di una campana a sera. Il romanzetto della Adorno ha un irritante odore di rancido e di stantio. Fasulla è la sua Sicilia, descritta come un Paradiso abitato da citrulli, altrettanto fasulla è la vita che si svolge in piccoli riti sclerotizzati nell’appartamento romano. Nessuna delle figure che si muovono ed agiscono ha un’anima propria, ma su tutte si riflette invadente e impositiva l’anima della narratrice. Anche e forse proprio per il suo tentativo di smorzare i ‘grandi’ sentimenti con pietoso umorismo e una reiterata autoironia, il libretto perde d’interesse ad ogni pagina e si chiude sul nulla, come è prerogativa di un brutto romanzo.