Archivio di marzo 1980

Psicoanalisi contro n. 3 – L’altra domanda. Appunti di tecnica psicoanalitica

sabato, 1 marzo 1980

I sapienti intorno alla teoria e alla tecnica psicoanalitica dicono che quando uno « psicoanalizzando » ri­volge allo psicoanalista una doman­da, per questo solo fatto, starebbe mettendo in atto una resistenza. Io credo che questo sia, anche, vero; penso, però che la lettura di questo tipo di domande non è così semplice come può parere. Ogni gesto, ogni atteggiamento e ogni frase espressi durante una seduta psicoanalitica, sono sempre anche, resistenze. La censura non si trova in un’area loca­lizzabile della psiche. I contenuti in­consci vogliono e non vogliono di­ventare coscienti; conscio è ciò che l’Io è, adesso e qui, inconscio è ciò che l’Io era e sarà. Il conscio è co­stituito da un piccole, e Claudicante desiderio: da un desideno proget­ffinte che, chiuso nel qui ed ora, tenta di superarlo. L’inconscio è co­stituito da un insieme di desideri, passati e futuri, che cercano di tra­valicare il prima e il poi, nel tenta­tivo di essere qui ed ora.

Il conscio è continuamente attratto dall’inconscio, ma l’inconscio non è sempre attratto dal conscio. I con­tenuti inconsci, come ho detto, si af­follano nel tentativo di diventare un qui ed ora; ma, anche, cercano di allontanarsi dal qui ed ora, per con­tinuare ad esistere nelle dimensioni del passato e del futuro.

Il passato e il futuro attraggono an­che la coscienza, che, però, non ap­pena vi si dirige, li distrugge, come passato e come futuro, attualizzan­doli. L’inconscio, però, non è soltanto costituito dal passato e dal futu­ro: è anche presente, con la coscien­za, pur non essendo coscienza.

La psiche umana è composta di in­finite dimensioni progettanti. Dimen­sione vuol dire spazio, ma spazio percorribile in un tempo, spazio per­corso con una velocità. Le ascisse e le ordinate della psiche sono carte­sianamente utili; ma imprecise quan­to utili. La « quota » serve, ma il tutto era ancor prima. Perciò Fin- conscio, spesso, si ribella alla sua tendenza a diventare conscio. La psi­che ha la ricchezza strutturale di una città antica e ancor viva. Il tem­po ha sovrapposto forme architet­toniche diversissime, per cui, da ogni angolo, vicolo o piazza, la città sembra diversa. Forse la si può an­chè, sempre, un po’ inventare.

Torniamo, ora, a parlare delle do­mande che vengono rivolte allo psi­coanalista durante la seduta. Sono, per lo più, di tre tipi: il primo tipo comprende quelle che riguardano la persona dello psicoanalista e il suo ambiente; il secondo tipo si riferi­sce in genere agli argomenti teorici della psicoanalisi; il terzo compren­de domande sull’andamento dell’a­nalisi stessa che si sta conducendo. Indubbiamente, queste domande ri­velano anche il desiderio di sposta­re l’attenzione dello psicoanalista su qualcosa di diverso; ma diverso da che? Si potrebbe rispondere: diver­so dall’analisi. Ma, soggiungo: dal­l’analisi di che? Dei contenuti men­tali dello psicoanalizzato. Ma le do­mande non sono forse contenuti mentali dello psicoanalizzato?

Io mi sto convincendo, sempre più, che, durante una seduta psicoanali­tica, tutto sia una resistenza, e, nello stesso tempo, nulla sia da conside­rarsi, in particolare, come una resi­stenza. Io credo che l’unica resisten­za che conservi le caratteristiche prinebali della resistenza s,ia2.’„iister- ruzi analisi. Anch’essa sem­pre comprensibile, che, però, parla un linguaggio che non può permet­tere la prosecuzione del discorso: è come una parola perentoria e chia­rissima, dopo la quale, però, c’è il silenzio.

Lo psicoanalista tende, spesso e vo­lentieri, a considerare resistenze i comportamenti che gli sono incom­prensibili della persona con cui ha il rapporto analitico. Ogni gesto di ribellione, di aggressione, viene in­terpretato come resistenza. L’anali­sta, spesso, interpreta come resisten­za sia il silenzio, che le domande; ma, ribadisco, per lo più, scaglia_il suo anatema contro la resistenza, quando non capisce.

Il primi) tìpo di domande di cui ho parlato sembrerebbe raccogliere quelle che esprimono le resistenze più palesi ed evidenti. Se io chiedo all’analista informazioni sulla sua vita privata, suoi suoi gusti, sulle sue opinioni politiche, i suoi affetti, il suo passato, etc.; voglio, è vero, anche, fronteggiarlo, assumere io l’at­teggiamento dgirarialifanierò, sPes so, è anche un mezzo per buttarmelo •: addosso, per scoprirmi di più:

Una signora, dopo avermi chiesto dove comperavo le scarpe, le para­gonò a quelle del figlio; poi, con un apparente salto logico, mi chiese quali erano i miei sentimenti verso suo figlio, anche lui in analisi con me. Due domande interpretabili co­me resistenze? Io credo di no. Espli­citamente era stato espresso il de­siderio di vedere i miei genitali e mi era stata fatta la richiesta di fare in modo di vedere più chiaro nella sessualità e negli affetti del figlio. Due piccole domande, appena vela­te, di resistenza.

Un signore, sdraiato su di un diva­no, in atteggiamento rilassato e di­sponibile, mi stava sciorinando una serie ricca e variopinta di associa­zioni; sembrava che le resistenze fos­sero del tutto abolite. Pareva quasi che l’inconscio parlasse direttamen­te; eppure quelle associazioni erano lontanissime dal discorso che vole­vano coprire. Ad un certo punto, mi accorsi che quel signore tentava, senza riuscirci, di negare la mia pre­senza. Mi aveva allontanato da sé, sia pur fantasticamente, per allon­tanare l’analisi. Non voleva più che io ci fossi. Era quasi riuscito a rea­lizzare l’interruzione dell’analisi; pe­rò era anche consapevole della mia presenza, quindi si sforzava di pre­sentarmi associazioni ricche, sebbe­ne incomprensibili. Per un po’ ri­masi disorientato; per fortuna, quel­la volta, la resistenza-fuga mi fu . chiara.

Però, secondo me, quel signore aveva tentato di resistere assai più che quella donna con le sue domande. Un ragazzo, mettendomi una mano sul ginocchio, mi domandò se in tut­te le analisi si affrontavano i proble­mi omosessuali. Era una resistenza o un invito. Anche un invito anali­tico, intendo!

Un altro ragazzo fece una serie di associazioni, sciolte e libere, a pro­posito di una serie di libri che si trovavano di fronte a lui, sullo scaf­fale. Ne saltò uno solo, involontaria­mente; sperava che io non me ne accorgessi; aveva saltato La questio­ne omosessuale di Tripp.

Quando si chiede all’analista di fare il punto sull’analisi che si sta con­ducendo, in effetti si cerca di esor­cizzare l’analisi. Oppure quando ci si rivolge all’analista con la frase: — adesso che mi dici? — In queste richieste c’è anche qualcosa che ri­fiuta l’analisi; ma spesso le doman­de sono formulate in modo che con­tengono già in sé frammenti di ri­sposte.

Vorrei ora fare un’osservazione ge­nerale sulle domande: non dimenti­chiamo che uno dei moduli linguisti­ci più tipici del nostro parlare è quello di rispondere usando una do­manda. Che è, sì, beniteso, un tenta­tivo di eludere, ma è anche un modo di rispondere. Noi abbiamo introiet­tato questo modulo linguistico, per­ciò, spesso, in analisi, si risponde con una domanda, ci si scopre con una domanda. Ma ci si scopre per- che ci Si vuole scoprire.

Psicoanalisi contro n. 3 – Io ho paura della solitudine: problemi di un musicista, forse ingenuo

sabato, 1 marzo 1980

Io posseggo dodici suoni. Sulla tastiera del mio pianoforte dodici tasti bianchi e neri; poi si raddoppiano; ma sono sempre quelli: frequenze diverse, frutto di un calcolo matematico, ma il mio orecchio li scopre: acuti o gravi, sempre quelli.
Quando le mie mani frugano fra quei tasti, senza sforzo, grappoli di suoni nascono e si susseguono; hanno un senso, una sintassi, una grammatica.
Nella mia mente ci sono dodici suoni. Quando scrivo musica li sento concreti e presenti dentro di me. Qualche volta hanno la concretezza di un timbro particolare: un violino, un oboe, un contrabbasso… oppure sono più astratti, vibranti, tesi: sono tra il suono e l’immagine.
Quando si percepisce un’immagine, questa si distende in un tempo e con un ritmo. Quando si ascoltano suoni, questi si appropriano di uno spazio. L’orecchio percorre lo spazio musicale, come l’occhio percorre la figura dipinta o scolpita; spezza l’involucro del momento in cui il suono è presente; ricordo e attesa sono spazio, lo spazio è: ricordo e attesa.
Dentro e fuori di me sento molti suoni. Dodici sono privilegiati e, di questi dodici, particolari successioni di sette si sovrappongono come lastre di cristallo, grani di un rosario o serie di momenti colorati.
Anche per me le varie tonalità hanno un colore. Musicologi e musicisti hanno tentato di scoprire le oggettive colorazioni delle tonalità. Sforzo ingenuo e inutile; eppure io penso che non esista nessuno che non dia un colore ai suoni; perciò il musicista, che sa più o meno cosa vuol dire mi bemolle maggiore o fa minore, quando sente nell’orecchio l’accordo di mi e di fa, immediatamente, nella mente, li colora.
Per me, ad esempio, la tonalità di mi bemolle maggiore è bruno dorata, quella di fa minore sfuma dal blu all’azzurro; ben diversa da quella di fa maggiore, tutta azzurra, con una sola nota evidente ed allegra, di un giallo brillante: il si bemolle.
Anche i rapporti tra i suoni hanno un colore che cambia: ogni settima, ogni nona, ogni diminuita hanno un colore; ogni consonanza, ogni dissonanza.
Questo è un linguaggio antico, colorato e preciso.
lo sono un compositore d’oggi ed ho scelto di tendere questo linguaggio oltre se stesso. Talvolta mi si spezza tra le mani. Imperiosa nella mia mente si presenta una successione armonica: tonica – sottodominante e poi una serie di suoni ammucchiati e contraddittori. L’ultimo va alla ricerca di una sensibile come un’eco lontana che mi attrae. Mi ribello alla tonica e una serie di dodici suoni imita un altro linguaggio. Spero sempre che non sia soltanto un gesto di ribellione. Voglio che, dietro a tutto, ci sia una linea di sviluppo.
Io mi sento solitario.
Nei tempi passati il linguaggio musicale era più omogeneo.
A Versailles e sotto la Bastiglia vi erano musiche un po’ diverse; ma i moduli linguistici erano gli stessi.
La Juppiter di Mozart si radica nella stessa struttura di linguaggio di una corrente popolare del Settecento.
Perché io, adesso, debbo usare (quando sono un compositore «serio») un linguaggio diverso da quello che continuano ad usare tutti? Perché, se adesso mi proponessero di scrivere un branetto musicale per il carillon di un campanile, non saprei che linguaggio usare?
Perché la gente, quando passa per strada, fischietta (quando fischietta, naturalmente) usando una grammatica ed una sintassi che io debbo rifiutare in una sala da concerto? Freud aveva detto che la psicoanalisi ha un linguaggio particolare, per cui può essere usata soltanto con persone che siano in grado di cogliere questo linguaggio, di penetrarlo e di usarlo.
lo ho rifiutato questa aristocrazia e mi sono accorto che era un bluff di Freud. Il linguaggio è prima della psicoanalisi. Il linguaggio è quello che io ho, che tu hai.
Il linguaggio non coincide con il desiderio; ma il linguaggio può servire a costruire il desiderio. Le parole sono sempre presenti.
Anche le lettere dell’alfabeto hanno un colore; così le parole. Si è cercato di determinarlo, sforzo inutile in sé, ma utile perché divertente.
Mi sono sempre chiesto se le formule linguistiche delle immagini siano meno rigide di quelle dei suoni.
Molte persone, quando telefonano o ascoltano una conferenza, se hanno una matita in mano, formano disegni. C’è chi disegna volti di profilo, occhi, fiori; c’è chi circonda il proprio nome di svolazzi barocchi, e c’è anche chi costruisce grate sempre più fitte e intricate. Molti fanno disegni astratti, linee e macchie. Nessuno, però, soprattutto se non è un musicista, che se lo impone per dovere, canta brani atonali mentre SI fa la doccia o guida l’automobile, canta cioè al di fuori di quel linguaggio musicale appreso alle elementari e ribadito dalla televisione.
Io ho paura della banalità, ho paura di ripetermi; ma ho soprattutto paura della solitudine: so che potrebbe perdermi.

Ogni volta che scrivo musica spero di non usare più il linguaggio tradizionale e spero che ogni mia composizione imposti, ogni volta, perentoriamente, un linguaggio nuovo.
Ogni brano che scrivo è comprensibile, a fondo, solo al secondo ascolto. Io imposto una formula linguistica e poi la sviluppo. Mi chiedo sempre, però: ha senso costruire ogni volta un nuovo esperanto?
Io ho soprattutto paura della solitudine.

Psicoanalisi contro n. 3 – Sulla riva dello stagno

sabato, 1 marzo 1980

La psicologia mette in relazione l’o­mosessualità con il narcisismo. L’o­mosessuale sarebbe colui che ha scelto sessualmente un individuo del proprio sesso, perché ancora troppo prigioniero di un narcisistico amore di sé: nell’altro vede se stesso, o co­me vorrebbe essere o come era. Sce­glie il simile perché non ha la capa­cità di amare il diverso da sé, per­ché ha paura dell’avventura amorosa e sessuale. In fondo, l’omosessuale, come ogni narcisista, sarebbe un egoi­sta che non vuole dare e darsi; al­lora sceglie il simile perché, così, ha l’illusione di perdersi di meno e di non allontanarsi troppo dal deside­rio di sé.

Questa teoria trova concordi psico­logi, psichiatri e psicoanalisti (ov­viamente, quelli che non ritengono che l’omosessualità sia causata da una alterazione organica; neurologi­ca, ormonale o altro).

L’omosessualità è, comunque, rite­nuta da molti una malattia psichica strettamente collegata con la dege­nerazione morale. L’omosessuale sa­rebbe, come ho detto, soprattutto, un egoista: il Narciso per eccellenza. Vi sono anche altri psicologi e mo­ralisti che tentano di non scagliare anatemi sull’omosessualità e parla­no di scelta omosessuale. L’omoses­sualità sarebbe una scelta; ma se si chiede a costoro perché alcune per­sone operino questa scelta, spesso la risposta è questa: — la scelta omosessuale è una scelta narcisisti­ca —, poi aggiungono: — scelta com­prensibile; in alcune situazioni, for­se, non sarebbe stato possibile assu­mere un altro atteggiamento ses­suale. Però è compito della terapia psicologica sbloccare la chiusura narcisistica per riportare all’etero­sessualità, unica forma biologica­mente conveniente e moralmente accettabile. Se però la terapia falli­sce bisogna assumere nei confronti dell’omosessuale un atteggiamento di umana comprensione e, persino, di solidarietà.

Anche la cultura non psicoanalitica, e persino il senso comune, ritengo­no che l’omosessuale sia una persona particolarmente chiusa in se stes­sa, un individuo compiaciuto di sé, prigioniero di problemi lontani dal­la concreta serietà della vita di tutti. L’omosessuale è un frivolo che si gingilla con il proprio corpo e con il corpo delle persone simili a lui: in fondo, non è mai diventato un adulto.

La scienza psicologica, più del senso comune, riconosce agli omosessuali una certa genialità, soprattutto in campo artistico. Le spiegazioni sono quanto mai bizzarre e contradditto­rie; però si è costretti a riconoscere un dato di fatto: molte personalità di spicco della nostra cultura furo­no, e sono, omosessuali.

Il narcisismo omosessuale spinge chi ne è prigioniero a vivere una vita essenzialmente estetizzante. Così si dice, così dice la scienza, così dico­no i « ben pensanti ». L’omosessuale, innanzitutto, ama il suo corpo: lo cura di più di quanto facciano gli ete­rosessuali, lo ammira e lo esibisce. Le suore di un tempo dicevano che se ci si guarda troppo allo specchio si rischia di veder comparire il dia­volo: questo diavolo è l’omosessua­lità.

Si dice che l’omosessuale abbia gu­sti raffinati; che vada alla ricerca di cose belle, ma un po’ estenuate e decadenti. Si dice che l’omosessuale assapori la vita cercando di coglier­ne gli aspetti scintillanti e preziosi; gli si riconosce di essere acuto e pungente, ma non profondo. Lo si ritiene geniale, ma non costante; di lui si dice che crei, ma che distrug­ga continuamente. Gli omosessuali, tutto sommato, dicono i ben pen­santi — scienziati e non — hanno una sensibilità epidermica che spes­so li porta più a sentire che a capire; anche per tutte queste ragioni non gli si è mai riconosciuta capa­cità di azione politica: l’omosessua­le sarebbe colui che nasconde die­tro un paravento di seta l’angoscia della propria sterilità.

Altri ancora mettono in relazione omosessualità e impotenza. L’omosessuale sarebbe un impotente che non ha voglia e capacità di crea­re; ma di cui la vita si vendica, caricandolo di un’angoscia mortale. La condanna è l’impossibilità di amare e la sterilità. L’astuzia della specie escogiterebbe una vendetta terribile per l’omosessuale: lo farebbe vivere, continuamente oppresso da, più o meno consapevoli, pensieri di morte. L’omosessuale, si sente inutile, per­ciò il pensiero della morte lo accom­pagna e lo spinge ad una frenetica ricerca sessuale. La gaiezza degli omosessuali sarebbe permeata di an­goscia di morte.

Queste sono immagini oleografiche e banali. Debbo riconoscere che al­cune persone, sedicenti omosessuali, hanno fatto, e fanno, di tutto per renderle concrete. Il discorso è mol­to più complesso ed ampio. La no­stra cultura concepisce due tipi di omosessualità maschile: il primo è quello che ho sopra descritto, l’al­tro è il travestitismo.

L’omosessualità femminile è stata descritta dalla scienza quasi esclu­sivamente come una forma di tra­vestimento. La donna vorrebbe so­prattutto essere un maschio e ne as­sume perciò il comportamento ses­suale e l’atteggiamento psichico ti­pico; e, dal punto di vista estetico, scimmiotta pateticamente il maschio. Anche la femmina omosessuale, pe­rò sentirebbe nel rifiuto della maternità una condanna mortale. I suoi desideri sterili la fanno sentire vuo­ta e rinsecchita; allora diviene o ec­cessivamente ansiosa e depressa, o aggressiva e autoritaria; ma il vuoto intirinseco la schiaccia e la condan­na. Comunque, è sempre oppressa dal fatto di non aver saputo sceglie­re come oggetto d’amore l’altro ses­so: è pur sempre una donna che ama un’altra donna.

Condannati o compresi che siano dalla scienza e dai ben pensanti, gli omosessuali sono persone che non hanno saputo scegliere se non il si­mile. Tutte queste considerazioni so­no semplicistiche e banalizzano un problema molto più complicato. Già la psicoanalisi classica aveva affrontato il problema della sessualità in­fantile, sostenendo che l’essere uma­no nasce carico di tutte le perver­sioni sessuali. Il polimorfismo per­verso caratterizza i primi anni di vita. Due istanze interverranno a in­canalare questa anarchia pulsionale e sessuale: la prima è interna, un istintuale meccanismo evolutivo che guida i desideri, strutturandoli in fasi successive in cui alcuni saranno rimossi ed altri spinti ad articolar­si in comportamenti ed a dirigersi verso oggetti biologicamente e moralmente utili. La seconda istanza è esterna: l’educazione della famiglia e della scuola che affiancherà l’inna­to meccanismo. Se in questo com­plicato lavorio di forze e controforze qualcosa non funziona, ecco che le pulsioni perverse rompono gli argi­ni, dominano la personalità, impe­dendo un vita sessuale « normale ». È abbastanza divertente accorgersi che, secondo la psicoanalisi classica il neonato è un accanito lettore dei feuilleton scollacciati e piccanti del primo Novecento; perché pare che il polimorfismo delle sue perversioni sia composto da una collezione di piaceri sessuali torbidi, ma precisi e ordinati; tanti mini-ruoli sessuali perversi e precisi: esibizionismo, voyeurismo, sadismo, masochismo, coprofilia, etc…

Io ritengo che quelli siano, certa­mente, modi in cui, anche, il bam­bino tenta di vivere la propria ses­sualità; ma questo è uno schemati­smo creato a posteriori dall’adulto, nel tentativo di leggere il desiderio del bambino. Questo tentativo di let­tura condiziona il bambino stesso: non è il neonato che legge i giorna­letti pornografici; ma è l’adulto che legge il bambino secondo i suoi schemi.

Penso che le cosiddette perversioni siano, all’inizio della vita, molto più ricche e varie. La sessualità si costi­tuisce, secondo me, nel rapporto con l’altro: un corpo che cerca un altro corpo, che vuole e dà calore. La scel­ta originaria, secondo me, consiste nel piacere di sentirmi uno che ri­trova l’altro: non l’opacità indistinta dell’identità, ma l’appropriazione di un piacere che si attua nello scam­bio. Il piacere si realizza nella « di­rezionalità »: è dentro perché è mio, è fuori perché voglio che sia anche tuo; è dentro e fuori perché si rea­lizza nel « riconoscimento ».

L’Io si compatta attraverso il piace­re riconosciuto, non solo mio e non solo tuo. Il piacere è la voglia del piacere, che diviene piacere prima della voglia di piacere. La vita stessa coincide con il piacere; ma la vita si realizza, sempre, in un dirigersi verso, e così pure il piacere. La psicoanalisi classica aveva, per fortuna, privilegiato una perversio­ne: l’omosessualità. Diceva che la situazione originaria è quella bises­suale. Questa è stata un’affermazione estremamente importante.

Come si realizza la bisessualità? Ap­pena l’adulto cerca di immaginarla, di descriverla, pensa ad un ma­schio che si sente per metà anche femmina e ad una femmina che si sente per metà anche maschio. Quan­do Freud dice che in un rapporto, a due, eterosessuale, si è sempre al­meno in quattro, vuol dire che per il maschio c’è un altro maschio, e lui si identifica con la femmina per provare piacere con quel maschio; e per la femmina c’è una femmina e lei si identifica con il maschio per provare piacere con la femmina. Io credo, però, che prima ci sia la fan­tasia del maschio che, come ma­schio, vuole l’altro maschio e quella della femmina che, come femmina, vuole l’altra femmina; e prima an­cora, c’è il maschio che vuole l’al­tro e la femmina che vuole l’altro, poi vuole sé e l’altro, e poi, volen­do anche sé, gode di sé maschio che gode con una femmina e di sé fem­mina che gode con un maschio, e di sé maschio che gode con un altro maschio, e di sé femmina che gode con un’altra femmina.

Le situazioni sono fluide e moltepli­ci. Il maschio ha il suo modo di sen­tirsi maschio e di sentire l’altro ma­schio e di sentire la femmina; la fem­mina ha il suo modo di sentirsi fem­mina, di sentire l’altra femmina e di sentire il maschio. La bisessuali­tà è, allora, androginia? Non lo so. L’androginia è la commistione di due concetti sessuali, ancor prima che di due organizzazioni fisiologi­che ed anatomiche. Oggi, se non si possiede qualche idea delle caratte­ristiche del maschio e della femmi­na, è impossibile godere sia dell’ete­rosessualità che dell’omosessualità, perché il nostro piacere va soprat­tutto alla ricerca di caratteristiche sessuali riconoscibili.

Io sostengo che la vita è sempre un teatro; quindi anche la sessualità. Purtroppo, autori, registi e capoco­mici hanno imposto all’essere uma­no un copione schematico e mono­tono con pochi personaggi, irrigiditi in corazze buffonesche e con due protagonisti, quasi paralizzati nei costumi del maschio e della femmi­na. I travestiti hanno tentato di spezzare questa schiavitù scambian­do il costume, senza accorgersi, pe­rò, che era ancor peggio: perché la rigidità rimaneva ed i movimenti ri­sultavano ancor più impediti da un costume sempre troppo stretto o troppo largo.

Nella ricerca del piacere l’essere umano trova la sua concretezza nel mondo. Questa ricerca ha sempre una direzione. Si realizza nel « pro­getto-piacere »: l’altro da me non è soltanto l’altro spaziale, è anche l’al­tro temporale. Il piacere si proietta nel futuro perché vuole ancora. Non è possibile vivere una relazione chiu­sa nell’astrazione del presente. Il mio piacere si dirige, ascolta e cerca in innumerevoli tentativi. Io e l’al­tro — spaziotemporalizzati — ten­tiamo di realizzare il nostro piacere che è la nostra esistenza.

Lo spazio è anche, sempre, il mio spazio; come il tempo è anche sem­pre il mio tempo.

Kant diceva che il tempo e lo spa­zio non contengono l’esperienza, ma sono condizione dell’esperienza pos­sibile.

Sono condizioni mie e dell’altro. Però, talvolta, l’altro si ritrae: sta costruendo un suo spazio, espande i suoi desideri in un suo tempo. Vi può essere, quindi, un disorienta­mento: all’improvviso una parte è scoperta, si sente freddo. La sensa­zione di freddo esprime, bene se­condo me, la frustrazione del desi­derio. Quando la relazione non ap­paga, l’altro aggredisce con il freddo. Possono venirmi addosso il silenzio, il rifiuto, la fuga, l’aggressione… al­lora io nego l’altro: Narciso si con­sola nello stagno.

Non è possibile trovare il punto del­l’inizio, sia nello spazio sia nel tem­po. La mente umana vuole appigli stabili; la stabilità, però, non è una sua caratteristica. La persona, nella sua interezza, si costruisce trovan­do: trovando sé e l’altro. L’Io è an­che, subito, un corpo.

L’origine, secondo me, non è da si­tuarsi in un momento di chiusura. L’inizio della vita (quando?) è da porsi in un momento di quasi sim­biosi. Ho usato due termini « qua­si » e « simbiosi »; molto probabil­mente chi legge avrà fissato la sua attenzione sul termine « simbiosi », considerando il « quasi » un chiari­mento non del tutto essenziale. Vor­rei invece che tutti e due i termini avessero la stessa importanza: la simbiosi tende all’identità, il quasi pone una tensione dialettica. L’ini­zio di una nuova vita è nell’altro, in uno stato di tensione. La ricerca dell’altro, ho detto, è costitutiva; ma ricerca è tensione: essere e non es­sere, volerlo e fuggirlo, ma fuggirlo perché prima lo si è voluto. La chiu­sura assoluta è un’astrazione: per­ciò il narcisismo primario non è una possibilità umana.

Il narcisismo è un meccanismo di difesa; senza le difese la vita non procederebbe. La difesa narcisistica può sempre essere messa in atto. Persone estremamente disponibili, da sempre, giunte in un momento particolare della loro esistenza, so­praffatte da una situazione incontrol­labile e frustrante, alzano, improvvi­samente, tutt’attorno, una massiccia barriera narcisistica. Si rifiutano di continuare a percepire molto di ciò che sta loro intorno; perché molto è l’intollerabile. Ma, qualche volta, il mondo, con astuzia, insinua in me il disprezzo di me: dove fuggire al­lora? Nego il mondo e cerco di in­ventare un altro me: sarà contento il mondo adesso? Il mondo, ancora, condanna. Allora Narciso si accoc­cola sulle rive dello stagno e parla con la propria immagine. Narciso è Narciso finché tenta di baciare la propria immagine; se cade nell’acqua e annega, è una disgrazia, o una punizione: Narciso era prima. Ades­so è un fiore, ed io non conosco i meccanismi di difesa dei fiori: Non c’è bisogno di ipotizzare una primaria situazione narcisistica per giustificare le successive fughe nel narcisismo. La difesa è una possibi­lità della vita, che sorge con essa.

L’Io non si difende soltanto fuggen­do e negando; può anche tentare la disperata messa in atto di un’ap­propriazione: l’Io può, con un gesto violento, tentare di appropriarsi del­l’altro che sfugge.

Se l’altro continua ad essere ostile, a frustrare ed a ritrarsi, allora può venire aggredito con violenza; que­sta prensione dura spesso appaga. Se l’altro soffre, l’altro è in relazio­ne; eccolo presente nella sua soffe­renza. L’altro c’è; poi, forse, l’Io vuole anche punirlo: il giudice è sem­pre in relazione con il giudicato, con il punito. Se è vero che l’Io si costituisce nella relazione, quando l’altro a cui esso si rapporta si ritrae, non solo teme di perdere l’altro, ma sente di perdere se stesso.

L’Io ha quindi bisogno di trovare e percepire anche se stesso. Ecco al­lora l’aggressione rivolta verso il sé, per sentire di esserci. Un bambino, cosiddetto autistico, batteva violen­temente la testa contro il muro: sul­la parete grigia una macchia di san­gue; quel bambino cercava di ritrovare se stesso attraverso quella sof­ferenza. è più doloroso della sofferenza fisica sentire l’Io che sfugge; sentire noi separati da noi da un dia­framma. Spesso, vi è chi mi dice: — ho l’impressione di vivere in un sogno: il mondo lo percepisco come attraverso un cristallo. Però, anche i miei gesti li sento ovattati ed estra­nei, io mi sento anche lontano da me —. Il cristallo, qualche volta, non divide soltanto l’Io dal mondo, ma anche l’Io da se stesso: è terribile non sentire e non sentirsi. Sembra una contraddizione, eppure è così; qualche volta è intensissima la sen­sazione di non sentire a sufficienza. Il sadismo e il masochismo sono, quindi, un’altra forma di difesa dal­la relazione insoddisfacente. Poi, l’Io usa ancora il sadismo e il masochi­smo per altri scopi; ma l’origine, se­condo me, è quella che ho detto. L’omosessualità è anche, spesso, mes­sa in relazione con il sadomasochi­smo. L’omosessuale è un insoddisfat­to, si dice, quindi scarica la sua insoddisfazione godendo delle soffe­renze altrui. L’omosessuale è quello che sevizia i bambini dopo averli adescati, è sempre un bruto in po­tenza. Si dice ancora che sia oppres­so dal senso di colpa per questa sua sessualità anomala; perciò non può vivere una sessualità felice. Cer­ca la sofferenza perché ha bisogno di essere punito per il piacere che prova. Desidera essere sottomesso e calpestato. Altre volte, non perdona all’altro del suo stesso sesso di sti­molargli il desiderio e allora lo pu­nisce per questo; scarica su di lui la sua libidine, ma vuole anche ve­derlo soffrire, mentre vi si identifica… I giochi sado-masochistici di cui ho, sopra, parlato, non sono soltanto in­venzione del moralismo dei ben pen­santi e degli psicologi; talvolta, l’o­mosessualità viene vissuta anche in questo modo. L’errore consiste, pe­rò, nel pensare che la sessualità etero­sessuale sia essenzialmente sadoma­sochistica, come, per un altro verso è, secondo me, mistificante ritenere l’omosessualità essenzialmente nar­cisistica.

Sado-masochismo e narcisismo sono meccanismi difensivi dalla frustra­zione; possono essere presenti in qualunque relazione. Possono essere usati strumentalmente per non vive­re direttamente la pulsione omoses­suale, ma anche per non vivere qua­lunque altro desiderio che spaventi.

L’educazione consiste sempre nel porre divieti ad alcuni desideri. I desideri, forse, sono infiniti. L’educazione però, costringe, anche, a de­siderare alcuni desideri piuttosto che altri.

Io non credo che sia possibile non educare; come non credo sia possi­bile accettare e vivere tutti i desi­deri.

La vita è un progetto, quindi è an­che una scelta (se sia una scelta me­tafisicamente libera non mi interes­sa appurarlo). È importante, perciò, orientarsi nella scelta dei nostri pro­getti desideranti. Io penso che sia pedagogicamente utile insegnare all’uomo a non avere paura di alcuni desideri. La paura è ineliminabile; ma è possibile spostarla.

Psicoanalisi e politica, unite, dovreb­bero avere questo scopo.

Ci hanno insegnato ad avere paura del desiderio rivolto verso il nostro stesso sesso. Quando il mondo con­danna un nostro desiderio, renden­doci difficile una relazione, noi atti­viamo i primi meccanismi difensivi che abbiamo imparato. Qualche vol­ta, poi, siamo così deboli da non es­sere in grado di ribellarci al nostro copione. Autore, regista, capocomi­co, vogliono che l’omosessuale sia così. Allora, l’omosessuale cerca di essere come lo vogliono e, così fa­cendo, soddisfa due esigenze fonda­mentali: prima, il bisogno di trova­re una collocazione nella rappresen­tazione generale — se debbo essere omosessuale, voglio esserlo, almeno, come tutti dicono che si debba es­serlo —; seconda, l’esigenza di sod­disfare il proprio piacere di voler essere omosessuale — io voglio es­sere omosessuale; se recito bene la parte dell’omosessuale, sono real­mente omosessuale.

È importantissimo affermare che l’essere umano, pur avendo paura dell’omosessualità, e quindi, in buo­na parte rifiutandola, ne ha, ancor più, un fortissimo desiderio profon­do. Si è messo, anche troppo, l’ac­cento sulla paura e sul rifiuto del­l’omosessualità; però io so che tutti vogliamo essere omosessuali; perché sappiamo, anche, che l’omosessualità è bella. È bella come è bella la vita, nonostante le contraddizioni e i di­sorientamenti.

Entusiasmante dell’omosessualità è il sentirsi capace di amare una per­sona che è simile a me, ma che è altro da me.

La nostra società ha tentato di con­vincere anche gli omosessuali che è indispensabile, sempre, amare l’al­tro sesso.

Spesso al maschio omosessuale fa paura, proprio come all’eterosessuale, l’idea di amare l’altro maschio; allora lo costringe a vestirsi da don­na o si traveste egli stesso. La don­na ha paura di amare l’altra donna, allora qualcuna si sforza di fare il maschio.

Il travestitismo è la più profonda difesa dall’omosessualità. I travesti­ti, con questo loro gesto, negano nel modo più profondo l’omosessualità. Ma, allora, l’omosessualità, se por­tata alle estreme conseguenze, sareb­be il narcisismo assoluto? Se l’omosessualità più rifiutata è l’amore per il simile, il più simile a me stesso non sono forse io stesso?

Io sostengo, invece, che il narcisi­smo, insieme con il travestimento è l’altra, più astuta, forma di difesa dall’omosessualità. Molto spesso, nel rapporto eterosessuale, il piacere passa attraverso l’altro, o l’altra, ma non vi si ferma; ritorna sul sé. Molti accoppiamenti eterosessuali sono l’e­saltazione narcisistica dell’omoses­sualità. Poiché abbiamo introiettato che si è massimamente maschi quan­do ci si unisce con una femmina e si è massimamente femmine quando ci si unisce con un maschio, noi usiamo il momento del rapporto eterosessuale per sentirci massima­mente maschi o massimamente fem­mine e godere sessualmente della no­stra mascolinità o della nostra fem­minilità. In un delirio narcisistico io osservo me nei cosiddetti tipici at­teggiamenti del mio sesso, mi com­piaccio e ne godo. In quel momento godo solo di me, maschio fino in fondo, femmina fino in fondo, omo­sessuale, ma non omosessuale. L’altro che mi fa paura, e che desi­dero ancor più di me stesso, è l’al­tro del mio stesso sesso, perché è altro più di quello dell’altro sesso. È quello che mi è simile, ma che può farmi prendere coscienza del fatto che io non sono l’unico ad es­sere così. Mi può costringere a sen­tire che non sono il solo. L’altro è sempre il simile e il dissimile allo stesso tempo. La corrente sessuale che si dirige verso l’altro me lo fa percepire, però, come altro. Non aver paura di scoprire che il simile è altro da me, significa non aver paura del rapporto.

Tutti gli altri sono tutti gli altri. Allora il maschio sente la somiglianza-diversità dell’altro maschio e anche della femmina; la femmina sente a sua volta la somiglianza-diversità del­l’altra femmina e anche del maschio. I ruoli sono tanti, ma, forse, la meta è una sola: strutturare il mio Io nel­la relazione piacevole con l’altro, sentendo l’altro come simile-dissimile da me. Narciso non ha più bisogno dello stagno.

Psicoanalisi contro n. 3 – Eroe artigiano

sabato, 1 marzo 1980

Alcuni manuali di storia della filo­sofia dicono che Socrate sia lo sco­pritore del « concetto ». Questa af­fermazione equivale a dire che Ga­lileo Galileo sia lo scopritore del sole.

Secondo me, non c’è nessuna differenza, tra il concetto e la parola. Io, oltre a non credere che Galileo Galilei abbia scoperto il so­le, non credo neppure che Socrate abbia scoperto la parola. La parola è sempre esistita, o almeno esisteva prima di Socrate, non solo come mezzo per comunicare con noi stessi e con gli altri e per intervenire sul reale; anche„ come termine privilegiato, suono, segnale-simbolo che accoglie in sè altri segnali simbolo. La parola così è comunemente chiamata: concetto, anche se è soltanto questione di prospettiva. Qualunque elemento linguistico iso­labile può essere un concetto; lo possono essere anche una congiun­zione, un avverbio, una interpun­zione. È comodo, però, affermare che sono concetti soltanto quelli e­sprimibili attraverso il linguaggio verbale. È comodo ritenere concet­ti una « quinta giusta » o l’« ammic­camento» solo quando divengono termini che acquistano una corpo­sità verbale.

Qui si aprirebbe il problema, credo irrisolvibile, che tenta di definire che cosa sia verbale e non verbale in un qualunque gesto da e nell’uo­mo. Il concetto, quindi, è per me una parola, anzi, una parola privile­giata, perché in quel momento mi faceva comodo privilegiarla. Un concetto è una parola, ma è anche una definizione e la definizione è fatta di parole. In un dizionario della lingua italiana ho trovato che « edicola » è una costruzione a for­ma di « garitta »; un pizzico di pa­gine più in là, il medesimo librone mi comunicava che la « garitta » è una costruzione a forma di edicola. L’ingenuità di Lacan sta nell’aver usato uno specchio solo, afferman­do che mi riconosco e mi costrui­sco quando mi vedo nello specchio; se fosse stato coerente avrebbe messo due specchi riflettenti eternamen­te: niente.

Esistono ‘gli amici e i nemici della parola. C’è chi afferma che la paro­la è tutto: gabbia, prigione, sostan­za, liberazione. Per il cristianesimo Cristo è il « logos » la parola-concet­to-sostanza. Talvolta mi viene il so­spetto che S. Agostino e Origene siano dei lacaniani ante-litteram, o meglio: che Lacan sia una reincar­nazione dei primi padri della chiesa. Ma anche gli antichi padri possiedono un unico specchio, anche se lo chiamavano Cielo ed Assoluto: non sono le dimensioni che conta­no. I nemici della parola vanno alla ricerca del corpo; come se la parola non fosse corpo! Invece coloro che hanno paura del corpo privilegiano la parola; come se il corpo non aves­se un linguaggio. Rimane, comunque, il gioco degli specchi. Quando ero piccolo amavo fare il gioco della « gi­bigianna ». Prendevo uno specchio, captavo un raggio di sole e lo sca­gliavo negli occhi di chi passava da quelle parti: la persona rimaneva ab­bacinata, costruiva sul suo volto un’espressione che mi divertiva mol­tissimo; mi sentivo padrone del so­le. Il « logos » illumina. Il problema è irrisolto: è il sóle o è un bambino Che gioca alla gibigianna? Gli spec­chi dovrebbero essere due; ma se sono realmente due, l’Io ci Si Perde. La parola diviene la sua tomba.

Ho detto che il concetto è una paro­la privilegiata. Privilegiata, adesso, ora, perché mi fa comodo. Noi vi­viamo nella precarietà. La parola è precaria come precaria è la ricerca della parola. Non basta dire che Cri­sto è il « logos ». La parola continua ad essere uno specchio che guarda uno specchio. È indispensabile in­frangere il dominio della parola: però si lotta contro le parole con le parole.

Aristotele nel Protrepticon lo aveva detto: per contestare la filosofia è indispensabile la filosofia. Ed io sog­giungo: per vincere, la parola è necessaria la parola. Se la parola è il logos, la parola afferma la sua tirannia, tirannia dogmatica che ri­chiama ad altro da sé: in una defi­nizione costrittiva, o, più corretta­mente, creativa. La parola crea; ma che cosa crea? Cose o parole?

Se la parola è il « logos », la parola è una sola; ma se è una sola non è una parola. L’edicola continua, mal­grado tutto, ad essere una « costru­zione » a forma di garitta e la garit­ta, imperterrita, si ostina ad essere una costruzione a forma di edicola. I termini, le parole, debbono sem­pre essere almeno due. Un’edicola che guarda la garitta e und garitta che si specchia in una edicola. Fra queste due parole rimbalza la paro­la « costruzione », ed allora o rim­balza all’infinito o diviene « realizza­zione di un complesso funzionale, mediante appositi elementi ordinata­mente disposti, uniti, collegati ». Continuiamo a girare le pagine del dizionario della lingua italiana e an­diamo alla ricerca di come viene definita la « realizzazione »: « tradu­zione in effetto di quanto costitui­sce un desiderio o di quanto è de­stinato ad una attuazione concre­ta ». La parola perno, questa volta, è « desiderio ». Mi viene però il so­spetto che l’espressione « realizza­zione », quando era inserita nella frase che tentava di definire la « co­struzione », esprimesse qualcosa che non era poi definito quando si affron­tava proprio la definizione della pa­rola « realizzazione ». Oppure il ter­mine « costruzione » si- specchia in quello di « realizzazione » e vicever­sa ed entrambi rimandano a « desi­derio » che diventa a sua volta: « sen­timento di ricerca appassionata o di attesa del possesso, del compimento o dell’attuazione di quanto è senti­to confacente alle proprie esigenze o ai propri gusti ». La « realizzazio­ne » si specchia nel « desiderio », il « desiderio » nella realizzazione: in comune abbiamo l’« attuazione ». Po­tremmo andare all’infinito o forse dovremmo agganciarci ad una paro­la che non sia una parola.

La parola quindi nega se stessa, ten­de ad altro da sé; ma quell’altro da sé è pur sempre una parola. È indi­spensabile un dio, quindi, il « lo­gos », per porre la prima parola, che si autoponga ed abbia una forza creatrice; creatrice di altro da sé? Ma l’altro da sé è di nuovo una pa­rola, un altro « logos » creatore! La parola gioca con se stessa, ruba i raggi del sole sperando di dominarlo; ma il sole è la stessa attorno alla quale gravita il sistema di cui fa par­te la Terra e che costituisce per questa l’essenziale fonte di energia e quindi di vita »; e che cosa è la stella? « astro dotato di luce propria perché costituito di materia incan­scente », e che cosa è un astro? « qua­lunque corpo della sfera celeste, so­le, luna, stelle, pianeti, pianetini ». Ed ecco il sole che prima era una stella e adesso sembra essere qual­cosa di diverso, e le stelle e il sole hanno la loro presenza incompren­sibile ma luminosa; il sole è una stella, la stella è un astro, gli astri sono stelle che talvolta sono anche il sole.

Ma quando sono il sole? Il gioco de­gli specchi continua.

Un concetto che, come abbiamo vi­sto, non è altro che una parola fun­zionalmente privilegiata; può essere osservato sotto due punti di vista fondamentali. Il primo è quello per mezzo del quale si fa la storia del concetto, si va alla ricerca di quando la prima volta quella parola- concetto sia comparsa; quanti signi­ficati abbia acquistato, che peso ab­bia avuto e quando abbia assunto il suo significato più pregnante e chiaro.

Il secondo punto di vista è quello per cui la parola-concetto viene isolata, analizzata, osservata, e se ne tenta una definizione organica e comprensibile. Sotto tutti e due gli aspet­ti si attua una ricerca: ricerca per capire e per orientarsi.

Nessuno va alla ricerca della ricerca. Tutti cercano qualcosa che va oltre la ricerca. Io so che cosa cerco? Forse, se lo sapessi, non lo cercherei più, o meglio, non avrei più interesse nel cercarlo: è il discorso degli an­tichi sofisti; valido ancora perché nessuno è stato in grado di sostituir­lo. Quando invece si dice che la ri­cerca spesso non è altro che deside­rio della ricerca si vuol dire in realtà esattamente l’opposto. Nella frase: « la ricerca non è altro che il desi­derio della ricerca » la parola « ricer­ca » viene usata con due significati diversi. La prima volta si dice « ri­cerca » intendo la ricerca come tale, cioè come « attività avente come fine un ritrovamento »; poi nell’espres­sione « è desiderio della ricerca » si tenta di affermare che la ricerca tende ad esaurirsi in se stessa; in realtà la seconda volta il termine « ricer­ca» nasconde un desiderio che non è mai desiderio della ricerca, ma è la ricerca che è un’attività desiderante; desiderante un desiderio inespresso, forse inesprimibile, La vita è tutta una ricerca come è tutta una attesa; ma se pure io aspetto Godot, Godot è qualcosa di diverso dall’at­tesa. Godot è anche un mio sogno, un padre buono, una vagina calda, -una tavoletta di cioccolato.

Ho in mente il termine « psicoana­lisi » o forse anche, più corretta­mente « psicologia dinamica » e vor­rei tentare di chiarire alcuni aspetti di questo concetto. Penso che ormai sia lezioso e frivolo perdere troppo tempo per chiarire che la « psicolo­gia dinamica » è il tutto e la « psi­coanalisi » è una parte. Ormai la teoria e la tecnica freudiane che si dovrebbero chiamare « psicoana­lisi » sono diventate sinonimo del tutto. Perciò con poco rigore filolo­gico io interscambierò i due segnali. Adesso perciò mi chiedo che cosa è la psicoanalisi o, se preferiamo, la psicologia dinamica. Per seguire lun­go la storia l’affermarsi e l’evolversi di un concetto è indispensabile co­noscerne in modo adeguato la strut­tura; però, per acquistarne una co­noscenza sufficiente è necessario ri­percorrerne l’evoluzione storica. Evi­dentemente, è una difficoltà senza soluzione. Accetterò quindi di usare un concetto, fin da subito, ambiguo ed impreciso, che, proprio per que­sto suo peccato di origine, anche alla fine del discorso, rimarrà am­biguo ed impreciso.

Perché la psicoanalisi è sorta alla fine dell’Ottocento? È persino trop­po facile trovare nella cultura euro­pea a cavallo dei due secoli elemen­ti che ne favoriscono il sorgere e lo sviluppo. Nietzsche e Webern, il se­cessionismo e l’inquietudine ango­sciosa che preparerà la prima guerra mondiale, sono elementi di un’epo­ca che è facile accordare con i fon­damentali concetti della psicoanalisi. Nietzsche vuole sovvertire i valori della borghesia cristiana per creare un super-uomo amorale ed ideale: un essere libero, soddisfatto e pa­drone dei propri istinti. Però l’uomo Nietzsche un giorno, a Torino, ab­braccia un cavallo frustato dal padrone e la sua volontà di potenza si smarrisce in un ospedale psichia­trico.

Webern abbatte gli ultimi residui di un’armonia ormai contraddittoria, ma presente ed avvolgente. Costrui­sce brevi composizioni musicali, ap­parentemente arbitrarie, ma in real­tà logiche e conseguenziali, proprio come i sogni, e da queste non arri­verà più ad uscire se non con il suicidio.

Lo stesso secessionismo, che costrui­sce cancellate iperboliche ed ester­refatti palazzi allucinati, pare voglia scavare in lati oscuri e misteriosi della psiche. Mentre tutta l’epoca, intanto, tenta di rimuovere, con un massiccio gesto nevrotico, enormi tensioni e conflitti. La « belle épo­que » di alcuni copre sfruttamento, rabbia e rassegnazione di tantissimi altri. La prima guerra mondiale è assurda, ma inevitabile come un’e­splosione psicotica. La psicoanalisi sembra accordarsi pienamente con tutto questo. Eppure, stranamente, la psicoanalisi, con poche variazioni, si trova accordata con qualunque epoca della storia occidentale. Sa­rebbe stata Pienamente in accordo con l’epoca barocca, con il capovol­gimento dei cieli operato da Coper­nico e Galilei, come pure con le si­nuose e fantastiche immaginazioni manieristiche. Pensiamo, inoltre, al­la pittura caravaggesca: su sfondi densi e oscuri come l’inconscio, una imprevedibile luce illumina, esaspe­randoli, pochi elementi: nell’oscuri­tà può esserci qualunque cosa. Op­pure alla pittura fiamminga: minu­ziose ricostruzioni di scene e am­bienti borghesi, in cui il realismo im­provvisamente si infrange contro gesti e corpi esasperati, sensuali e brutti: equivoci come il desiderio. Potrei ancora descrivere i roghi per le streghe, i sontuosi riti cattolici, il razionalismo inquieto di Borromini e la sfuggente sensualità di Rameau. Dopo tutto questo, il terreno per la psicoanalisi sembrerebbe pronto, anzi, ci si potrebbe chiedere: ma perché non c’è la psicoanalisi? Se ci spostiamo nel secolo d’oro di Atene e di tutta la Grecia, non pos­siamo credere che, senza consape­volezza, l’arte e la filosofia potessero giocare con tanta precisione con

Narciso e con Edipo. E pensiamo ancora al Partenone variopinto e coerente come un sogno interpreta­to. Intanto Platone raccontava di un vecchio, brutto ed affascinante, che, usando le parole, aveva inventato una tecnica per far ricordare e, at­traverso Eros, raggiungere la verità perduta. Ma questo vecchio è uno scienziato inquietante che, forse, non crede nella sua scienza e finge di essere contento di morire., come fin­gono di esserlo i cigni sacri ad Apollo. Anche qui: è un’imperdonabile scorrettezza, da parte dei Greci, non aver inventato la psicoanalisi.

La psicoanalisi è perciò coerente con l’epoca in cui è sorta; ma si armo­nizza benissimo con molte altre si­tuazioni storiche. Vi sono indubbia­mente parecchie ragioni per cui la psicoanalisi doveva sorgere proprio tra l’Ottocento e il Novecento; sono ragioni però, secondo me, assai me­no isolabili ed evidenziabili di quelle che hanno contribuito alla compar­sa di altri fenomeni culturali.

E’ arrivato il momento, adesso, in cui debbo cercare di abbozzare una risposta alla domanda che mi ero posto più sopra: che cosa è la psi­coanalisi? Potrei rispondere che la psicoanalisi è una filosofia, ‘Che ha una sua visione del mondo e del­l’uomo; potrei anche dire, però, che è una particolare branca della scien­za psicologica, con una sua tecnica terapeutica. Sarebbe anche possibi­le intrecciare i due concetti e dire che: è una tecnica terapeutica che si fonda su una filosofia; oppure che è una filosofia fornita di una tecnica Psicoterapeutica. Ma esistono filoso­fie che non siano psicoterapie?

Quest’ ultima domanda mi è sfuggi­ta; potrei cancellarla, ma non vo­glio. Per il momento, rimanga lì, come domanda.

Non si riesce mai a costruire discor­si unidirezionali• è indispensabile es­serne consapevoli: ogni discorso è anche, sempre, la castrazione di al­tri discorsi. Rimanga quella doman­da come memoria di tutti i discorsi che si sarebbero dovuti fare a que­sto punto; ma che non sono stato in grado di esprimere.

Proviamoci ancora a precisare la risposta alla domanda principale: ho detto che la psicanalisi è una parti­colare filosofia ed una particolare tecnica terapeutica: che cosa si an­nida dietro il termine particolare? Si annida l’inconscio.

Ciò che, secondo me, caratterizza la psicoanalisi è una contraddizione originaria: la consapevolezza dell’in­Conscio. La Psicologia dinamica non ha inventato l’inconscio, ha tentato di parlarne, ha tentato di usarlo e lo ha, quindi, strumentalizzato. Le prime teorie psicoanalitiche han­no sovrapposto ontogenesi e filoge­nesi, affermando che l’evoluzione psi­chica di ogni essere umano ripercor­re le tappe dello sviluppo psichico della specie: tesi ingegnosa, ma sem­plicistica. Se l’inconscio esiste, esi­ste da sempre, o, meglio, esiste da un sempre che è sempre per noi, il sempre che ci interessa. Ripeto, quindi; che la psicoanalisi è carat­terizzata dall’importanza data all’in­coscio. È profondamente scorretto dire che la psicoanalisi abbia sco­perto l’inconscio; è meglio ripetere, a mio avviso, la contraddittoria af­fermazione di prima: la psicoanalisi ha tentato di rendere conscio l’in­conscio.

La realtà dell’inconscio, però, è sem­pre stata presente. L’inconscio è come il sole: visibile e manifesto, ma doloroso a guardarsi e anche pe­ricoloso. L’inconscio, consapevol­mente scoperto, come una ferita do­lente e nuda, nell’epoca barocca; impudicamente scoperto nell’antichità classica, è stato sempre più peri­coloso che ignoto.

Prima, quando ho sinteticamente schizzato le caratteristiche dell’ePo­ca in cui è sorta la psicoanalisi, ho detto le solite cose. Così solite che rischiano di essere stupide. Ho det­to che, nell’epoca inquieta della fol­lia di Nietzsche e delle angosce sot­terranee che prepareranno la guer­ra, la psicoanalisi sorge come esi­genza di chiarire questa follia e que­ste angosce: osservazione non scor­retta, ma sempliciotta. Non vorrei che si potesse pensare che, secondo me, la psicoanalisi sorge in un mo­mento di esaltazione della sponta­neità e dei sogni, come un aspetto di questa esaltazione.

Uno dei primi testi fondamentali del­la psicoanalisi parla sì dei sogni„ in­fatti; ma con il titolo: « Die traum­deutung iiber den traum »: « L’in­terpretazione dei sogni », 1899. È un geniale tentativo non di esaltare la fantasiosa e libera poeticità del pen­siero notturno, ma di esprimere la positivistica esigenza di razionaliz­zare l’irrazionale, affermando che an­che il sogno è controllabile dalla scienza. Questo è il tentativo consa­pevole: per fortuna lo scienziato dei sogni ha una ricchezza interiore in­sospettabile e, nonostante il puerile e splendido capitolo settimo, l’incon­scio si ribella al suo tiranno co­stringendolo a parlare della intermi­nabilità della analisi: se l’analisi è interminabile l’inconscio avrà sem­pre la possibilità di sfuggirle.

Nel momento in cui scrivo, in una grande piazza vicino alla mia casa stanno urlando dei manifestanti. Ar­riva fin qui il ritmo degli slogan che però mi rimangono incomprensibili. Mi mette un po’ a disagio accorger­mi di aver assunto un atteggiamento di neutralità: attorno a me i miei mobili carichi di passato e i miei li­bri, strumenti del mio potere e del mio privilegio. Quegli slogan inintel­liggibili poterebbero essere espres­sione di qualunque tendenza politi­ca. Io, qui, con la paura e il piacere di non potermi coinvolgere, quegli altri, là, urlanti. Troppo banale dire: « ecco le processioni del nostro tempo che, nella città del papa, hanno sostituito quelle dei preti e dei cri­stiani ». Tanti inconsci con tante mo­tivazioni. Un rituale, dei ritmi, un’e­motività, alcuni esorcismi: ho pau­ra, voglio interpretare. Adesso, forse, mi è chiaro perché è sorta la psicoa­nalisi: è sorta per dominare la paura dell’inconscio.

Il meccanismo della psicoanalisi si radica, quindi, nell’atteggiamento os­sessivo della scienza positivistica del tardo Ottocento, per cui nulla deve sfuggire al controllo della ragione umana. Se alcuni decenni prima Au­guste Comte, ex ricoverato psichia­trico, controllava la sua paura del­l’inconscio affermando che la psico­logia non era mai stata una scienza, la psicoanalisi afferma che la psico­logia è la scienza prima; come la teo­logia aristotelica, perché studia l’es­sere primo: non più dio ma uomo. Il meccanismo coatto della scienza è quello di coprire con il suo con­trollo tutta la realtà. Oggi, la scienza si è resa conto che la realtà non è stabile, ma si costruisce con gli stru­menti stessi che la controllano. Se cambiano gli strumenti, non mutia­mo soltanto il modo di intervenire sul reale, creiamo anche un altro reale. E, se il complesso dei bisogni, nel suo mutare, forma nuove esi­genze e quindi una nuova realtà, sor­ge il bisogno di nuovi strumenti scientifici per cogliere la nuova si­tuazione che si è venuta formando. Parallelamente, però, i nuovi stru­menti contribuiscono a formare una nuova realtà, e così via.

Uno strumento scientifico fa parte del complesso dei bisogni ed è quin­di utile, ma superabile, come tutti bisogni. Soltanto il desiderio, nel nostro sempre, è un bisogno che non verrà mai meno. Ecco che sem­pre e mai si sono incontrati. Perciò debbo dire che anche questo mai è il nostro mai.

Tutte le complesse ragioni che han­no fatto sì che, proprio in quell’e­poca, la scienza divenisse così osses­siva, tanto da voler controllare an­che l’inconscio, non sono facili da esporre. La storia della scienza e la storia della cultura ci hanno dato alcune indicazioni che, a mio parere, sono, però, insufficienti. La storia è sempre soltanto una narrazione, una favola, un teatro.

Dovrei, ora tentare di definire la psi­coanalisi in se stessa. Oggi la psico­logia dinamica è un tutto, articolato ma organico, e mi è impossibile, qui, analizzare e confrontare le varie cor­renti.

La psicoanalisi è, soprattutto, pre­sente. È presente nelle ricerche psi­cologiche, nelle analisi sociali, nei romanzi e nei film e viene pure usa­ta, talvolta, per interpretare avveni­menti clamorosi: delitti, per lo più, moda e spettacolo. Si chiede sempre il parere dello psicoanalista e lo psi­coanalista dà il suo parere su tutto. La sùa presenza è comoda e scomo­da allo stesso tempo.

La psicoanalisi è sorta come difesa dall’inconscio e si radica nei biso­gni dell’inconscio. La più grossa di­fesa della psicoanalisi è, quindi, la psicoanalisi stessa. Io penso che vi­vere voglia sempre dire, anche, di­fendersi. Se la nostra psiche non si difendesse, anche, sempre, verrebbe distrutta. Difendersi vuol dire; pe­rò, anche, scegliere, non soltanto fug­gire o soltanto aggredire. Fuga e ag­gressione sono sì due meccanismi difensivi tipici; ma la psiche riesce a metterne in atto moltissimi altri: la pseudo-fuga della negazione, per esempio; e poi che l’adesione e l’ac­cettazione possono essere meccanismi di difesa: si potrebbe dire che io accetto questo per fuggire da quell’altro.

La coscienza serve soltanto in picco­lissima parte ad orientarci nel mon­do: secondo me, la coscienza è sorta soprattutto come meccanismo di di­fesa utile a schermare l’inconscio. Quando, seduto sul mio seggiolone, accarezzando con voluttà ed amore i riccioli di legno dei braccioli, ascol­to le persone che mi stanno par­lando durante il « nostro » lavoro analitico, si disegna nella mia men­te una strana figura, immagino due linee che si snodano parallelamente: la prima è più nitida, distinta e sot­tile, ed è composta dalle frasi che la persona al mio fianco sta dicen­do; l’altra è più densa ed intricata, vorrei dire confusa, e rappresenta i discorsi inconsci che il mio orecchio, allenato, percepisce continuamente. È come ascoltare una composizione contrappuntistica a due voci. Un contrappunto un po’ bizzarro per­ché la seconda voce, quella incon­scia, è composta da una miriade di altre voci, che formano un insieme più complesso del più complesso contrappunto fiammingo.

La coscienza continua a voler fuggi­re, a difendersi per sopravvivere. Due sono, come ho detto, i modi ti­pici di difesa: la fuga (in tutte le sue varianti) e le aggressioni. Sco­prire la psicoanalisi è stato il più astuto tentativo escogitato dalla mente umana di difendersi dalla psi­coanalisi. Ci si potrebbe chiedere: ma come è stato possibile volersi difendere dalla psicoanalisi quando la psicoanalisi non esisteva?

Mi pare di aver già detto che non solo l’inconscio è sempre esistito, ma che sono sempre esistite anche si­tuazioni quasi-psicoanalitiche. Per­ciò, nel momento in cui la nuova fisica tentava di re-interpretare la struttura della materia, il bisogno di sistematizzare il rapporto con i no­stri desideri inconsci divenne im­pellente. Allora l’inconscio, costrin­se la cultura ad inventare la psicoa­nalisi; potrei anche dire, però, che la nostra cultura si difese dall’in­conscio inventando, allora, la psicoa­nalisi.

Una situazione di questo genere può succedere anche alla persona singo­la. Talvolta ci si butta nell’analisi per la gran paura che se ne ha. Vi è una forma nevrotica per cui il con­flitto interno, paura e desiderio di scoprire il desiderio, si manifesta con il sintomo di un bisogno coatto di psicoanalisi. Allora si comprano montagne di libri di psicoanalisi, si frequentano tutti i seminari di psicoanalisi della città, si parla conti­nuamente di psicoanalisi, •si vede tutto sotto la luce psicoanalitica. Quando, superata l’ultima resistenza, viene iniziato un rapporto terapeu­tico, le difese non sono per nulla abbattute, anzi, a quel punto, si sta sfidando direttamente la psicoanali­si. I rituali vengono tutti ossessiva­mente rigettati, ma un rapido sguar­do di sfida scagliato sullo psicoana­lista è più significativo di tutte le negazioni. Eppure anche questo è psicoanalisi.

La psicoanalisi è realmente un pe­ricolo. Molte persone hanno iniziato un rapporto terapeutico quasi per gioco e vi si sono trovati immischia­ti. In fondo, molte delle accuse alla psicoanalisi sono giuste.

Ho detto che la psicoanalisi è sorta come difesa dall’inconscio, eppure l’inconscio c’è sempre stato, ed è sempre stato un po’ conscio. La co­scienza è anche stata sempre un po’ inconscia. Il Preconscio è una stupi­daggine. L’inconscio non è delimita- bile, neppure la coscienza. sono due condizioni psichiche nettamente di­stinte. La filosofia e la psicologia del passato hanno distinto soggetto da oggetto per scaraventare le esigenge e le paure inconsce nell’oggetto: l’al­tro da noi, amico, nemico, amante, albero, tazza.

L’altro da noi è l’oggetto, si diceva, a cui si contrappone un soggetto. Poi si continuava: il soggetto cono­sce l’oggetto, il soggetto è il cono­scente, l’oggetto il conosciuto; ma non si conosceranno mai tutti gli oggetti. In questo mai risiedeva l’in­conscio.

La distinzione tra « soggetto » ed « oggetto » ha fatto il suo tempo. Per me, la distinzione più corretta è quella « conscio »-« inconscio », e l’energia è data dal desiderio. Senza questa tensione dialettica la vita psichica sarebbe incomprensibile. Può darsi che, un giorno, si porranno altre distinzioni, oppure si raggiun­gerà l’estasi mistica in un nirvana indistinto. Oggi dobbiamo vivere la nostra schizofrenia: conscio ed in­conscio.

Ritorna il discorso dello specchio. Molte persone mi hanno raccontato che amavano guardarsi a lungo nel­lo specchio; che da bambini si am­miravano, si esibivano, che talvolta baciavano la loro immagine riflessa: cosciente non era che il freddo con­tatto con il vetro. L’occhio di chi si guarda nello specchio diviene spec­chio e via così… Altre persone mi raccontano che si trovano a disagio davanti ad uno specchio, distolgono lo sguardo perfino quando si vedono riflesse nel cristallo di una vetrina di negozio. Consapevole è soltanto quel gesto di diniego; ma è consa­pevole come il gesto di un attore: perché fuggi la tua immagine? Avevo, e forse ho, un amico che, quando mi sente parlare di psicoa­nalisi deve allontanarsi da me. Non protesta, non mi aggredisce, si allon­tana con discrezione. Ha i capelli lunghissimi, un tempo scriveva mol­to bene;” -adesso non lo so, eppure so che qualche volta mi ha ascoltato. Poi un giorno gli venne il terrore di morire di infarto; mi chiese aiuto ed io stetti ad ascoltare, non dissi nul­la. Sono convinto di sapere quale sia la causa inconscia di quella sua fo­bia; però, anche se mi chiedesse di rivelargliela, commetterei la violenza di rifiutarmi. Perché, non lo so. Mi sono detto che non voglio saperlo: è la stessa cosa. Ho paura che per lui sarebbe una spiegazione banale. Però io so che la psicoanalisi non sta in quella spiegazione.

Io sono un « maestro » di psicoana­lisi. Ho usato il termine di « mae­stro » e non quello di « psicoanali­sta didatta » perché l’espressione « maestro » condensa in sé due si­gnificati per me essenziali. Il mae­stro è una figura carismatica, strana e scomoda, ed io questo vorrei es­sere. Maestro è però anche l’antico mastro artigiano che insegna all’ap­prendista la propria tecnica, attra­verso un rapporto diretto, manuale, ed affettivo. Il maestro è un eroe-ar­tigiano. Io vorrei essere l’uno e l’al­tro; anche se ho paura di essere sia l’uno che l’altro. t difficile essere un eroe, ma è ancor più difficile essere un artigiano.

Nel mio lavoro di eroe-artigiano dico e faccio molte cose. Non so quali siano le più importanti. Un’affermazione che ripeto spesso e che, forse, ritengo quindi importante, è que­sta: « chi fa lo psicoanalista dovreb­be rifiutarsi di interpretare. Io cerco di impedire ai miei allievi di usare la parola interpretazione. Quando uno psicoanalista racconta un suo « caso » e dice: « allora gli ho dato quest’interpretazione… » io mi sento a disagio. Mi disgusta vedere la ric­chezza delle situazioni esistenziali di una persona ingabbiata e castrata in una frase che la interpreta. Eppure, anch’io nel mio lavoro do le inter­pretazioni. Non vorrei che, però, fosse soltanto il termine a farmi paura; spero che l’insofferenza per la parola possa anche voler dire qualcosa di più.

Gli psiconalisti più sono narcisisti e stupidi e più usano l’espressione: gli ho interpretato… ». Per queste persone interpretare vuol dire analizza­re. Anche se l’interpretazione, da un punto di vista tecnico, è corretta, snatura il lavoro analitico, quando è calata dall’alto, come una giaculato­ria o uno slogan. Può anche darsi che il « paziente » la sappia usare a suo vantaggio, arricchendo il pro­prio lavorio psichico; però questo non è molto importante ai fini del discorso che sto facendo.

Quello che adesso voglio affermare è che la consapevolezza raggiunta nell’analisi è dovuta solo in parte alle frasi dette dallo psicoanalista. Allora: l’analisi è sempre autoana­lisi? Io penso di no. Io credo che la psicoanalisi si realizzi soltanto at­traverso un rapporto con un’altra persona.

Ho visto pochissime persone rag­giungere risultati attraverso l’autoa­nalisi. Per lo più (non voglio assolu­tizzare), colui che si è autoanalizza­to non ha fatto altro che ‘rafforzare le proprie difese narcisistiche, ed è diventato incapace di ascoltare, non solo gli altri, ma anche se stesso: parla e non pensa; le parole gli si intrecciano dentro, esplodono e muoiono come involucri rinsecchiti.

L’auto-analisi, come ho detto, è pe­ricolosa perché rischia di imprigio­nare colui che si sta auto-analizzando in una gabbia di parole, dando­gli una sicurezza apparente e ridu­cendo la sua disponibilità a mettersi in discussione davvero.

Mi sta venendo in mente un altro pensiero: forse l’auto-analisi è im­possibile.

Io credo che l’essere umano sia co­stitutivamente programmato per la relazione con l’altro. Vivere vuol di­re progettare, cioè dirigersi verso qualcosa che fa parte di noi, pur senza essere noi. L’auto-analisi, co­me relazione conoscitiva dell’io con l’io, non sarebbe altro che la più radicale delle situazioni di chiusura narcisistica. Io penso, però, che il narcisismo assoluto sia un’astrazio­ne. Il narcisismo è un meccanismo di difesa, conseguenza di un’espe­rienza dolorosa di relazione.

L’auto-analisi è, quindi, frutto della paura del rapporto, in questo caso, del rapporto analitico. Allora si sce­glie uno psicoanalista fantasma; o meglio: tanti psicoanalisti docili e accondiscendenti. Allora ci si appog­gia ai libri od a brandelli di frasi sentite.

Ecco, però, che l’altro continua ad essere presente, anche se tentiamo di negarlo: la chiusura assoluta è impossibile. Quando si sceglie come analista il proprio io, gli strumenti che il nostro « io-analista » usa per comprendere il nostro « io-analizza­to », non sono creazioni dell’io• sono pensieri e parole imparati nei dialo­ghi e nei contatti con gli altri.

Essere o pensare in una situazione di assoluta autarchia psichica è, co­me ho detto, di fatto, impossibile; però l’io potrebbe desiderare di tro­varsi in questa situazione. Secondo me, questo è un desiderio estrema­mente pericoloso, perché produce un atteggiamento psichico che può co­stituire la più brutale e violenta del­le scelte, anche se è una scelta im­possibile.

Per un altro verso, però, l’auto-ana­lisi è indispensabile, tanto che ogni buon rapporto psicoanalitico deve essere anche e sempre un’auto-ana­lisi.

Bisogna stare continuamente all’er­ta per cercare di capire se il nostro auto-analizzarci è un tentativo violento di escludere gli altri dai no­stri pensieri, oppure è invece un va­lido desiderio di conoscere noi stes­si, usando anche le nostre forze. Pau­ra e desiderio dell’altro costituiscono ogni comportamento umano.

Nessuno vuole soffrire: neppure il masochista. La scelta non è mai la sofferenza. La sofferenza è una scel­ta impossibile: scegliere di vivere escludendo il rapporto con l’altro da me e scegliere la sofferenza sono le due scelte impossibili. Vi sono state ideologie, gruppi sociali e sin­goli individui che hanno tentato di esaltare queste scelte. In realtà, l’e­saltazione della chiusura in se stessi e della sofferenza è stata usata per raggiungere altri scopi.

Tutto ciò che diciamo ha, sempre, almeno due significati: ovviamente anche quello che sto dicendo io ades­so. Adesso che sto parlando di que­ste due scelte impossibili, sono con­sapevole anche del fatto che io vo­glio che siano impossibili, perché ho troppa paura del mio delirio di on­nipotenza, che distrugge gli altri; ed ho troppa paura della sofferenza, presenza possibile in ogni istante del­la mia vita. Ma, se ne ho così paura, ne ho anche desiderio: e allora? Per fortuna, io sono io: mi sono al­zato da poco, ho suonato il piano­forte; questa notte ho sognato di far l’amore, o forse di parlare, con molte persone. Io non sono atto pu­ro; pensiero pensante se stesso. E allora? Che significato ha, a questo punto, avere raccontato quello che mi sento addosso in una mattina di novembre?

Vuol dire che: io sono io; con le mie paure e i miei desideri, di cui, però, non voglio essere soltanto pri­gioniero. Pur se io ho le mie paure e i miei desideri, non per questo deb­bo rinunciare ad esprimere opinioni che vadano oltre le mie sensazioni personali. Ripeto perciò: esistono scelte impossibili.

Torno, ora, a parlare più propria­mente di psicoanalisi. Ho detto che la psicoanalisi consiste in un lavoro fatto, da almeno due persone, in un tentativo comune di orientarsi nel cumulo di bisogni e di desideri che costituisce l’esistenza umana. Biso­gni e desideri che, per la maggior parte, sono inconsci. L’inconscio e costituito da tutto ciò che, in qual­che modo, e per qualche ragione, la nostra esistenza tenta di allontanare da sé.

L’inconscio è il rimosso. Il meccani­smo di rimozione è quel meccanismo di difesa che ci permette di soprav­vivere. Se tutti i nostri bisogni, tutti i nostri desideri, e tutte le nostre esperienze, fossero sempre presen­ti, ci disperderemmo in una miriade di rivoli che si inaridirebbero pre­sto. Rimuovere non vuol dire, neces­sariamente: rifiutare. La rimozione è un meccanismo profondamente vi­tale. t vitale, però, anche darsi da fare per non essere tirannicamente assogettati dalla rimozione.

Sfuggire alla tirannide della rimo­zione vuol dire scoprirne i meccani­smi e scontrarsi con molti desideri e pensieri nascosti. Io penso a que­sto e non a quell’altro, io ricordo questo e non quell’altro, io ho ri­mosso questo e non quell’altro, non certo per libera scelta. Le mie paure non sono soltanto mie, i miei desi­deri non sono soltanto miei. Io vivo in una società che tenta di farmi vi­vere le sue paure e i suoi desideri. E impossibile non educare. Quando un bambino viene al mondo, ancor prima: nel ventre materno; ancor prima: nella psiche di coloro che so­no nati prima di lui, egli è, sempre, in qualche modo, educato. Una ma­dre mi diceva: « un giorno mio figlio mi domandò: — mamma, perché mi guardi con quegli occhi? — capii al­lora che con gli occhi mandavo un messaggio che, forse, non volevo mandare. Cercai allora di guardare altrove, e mio figlio, angosciato mi domandò: — Mamma, perché non mi guardi più? ».

Il rimosso è quindi costituito an­che da ciò che l’educazione ci co­stringe a rimuovere. Tutto ciò che è rimosso ha la stessa energia vitale di quello che è presente alla coscien­za. Il rimosso non è il dimenticato. Il rimosso è ciò che ha un tipo di presenza diversa dalla presenza di ciò che noi chiamiamo cosciente; ma non è meno presente. Non solo: gli altri si nascondono a noi; con un gioco sessuale e persecutorio, che vi­ve di una infinita quantità di perse­cuzioni. Chi non ha avuto, qualche volta, entrando in una stanza de­serta, l’impressione che ci fosse qualcuno? Chi non si è mai sentito inseguito in una strada deserta? Spesso i nostri amori allontanati ri­tornano come persecutori, oppure i persecutori si trasformano in aman­ti appassionati.

È impossibile liberarsi dal gioco de­gli specchi. Ogni parola è prigionie­ra di altre parole, senza le altre non sarebbe comprensibile, ma a sua vol­ta serve a spiegare le parole che la spiegano; questo vale anche per i gesti. Gli specchi non sono soltanto due: sono tre, quattro, cinque, tanti. I barbieri di un tempo lavoravano tra, due specchi. Io ero bambino e avevo paura del barbiere.

La storia è questa: avevo cinque anni e mio padre e mia madre un giorno mi dissero: « vieni con noi da un signore; poi ti faremo un bel re­galo ». Accettai di andare da quel signore. Ricordo una vecchia casa liberty di Torino; la balaustra delle scale era di ferro battuto, fantastica. Quel signore era alto e grosso e ave­va un camice bianco. Al suo fianco c’era una donna, più piccola, bian­castra anche lei. Mio padre e mia madre, vilmente, fuggirono. Quel si­gnore mi porse un ampio grembiule di gomma, dicendomi: « quando io lavo i piatti me lo metto sempre ». E veramente triste che i cosiddetti adulti considerino sempre imbecilli i bambini. Probabilmente, io trovai completamente insensato mettermi a lavare i piatti in casa di quel si­gnore. Mi sentii abbandonato e di­sperato. La piccola strega biancastra mi attanagliò con braccia vigorose, mi fecero aprire la bocca e vi introdussero un aggeggio di metallo che mi impedì di richiuderla. Il mo­stro mi si avvicinò. Io ero seduto in braccio alla strega e lui, seduto di fronte a me, estrasse orribili stru­menti di tortura. Mi infilò in bocca e in gola oggetti taglienti di acciaio. Forse sentii molto male; non lo ri­cordo più. Ricordo invece uno spruz­zo di sangue. Ricordo il mio dibatter­mi e le braccia tenaci della strega. Poi mi regalarono una montagna di gelati e tutta una attrezzatura per giocare al « venditore ». Non fu al­tro che un’asportazione di tonsille ed adenoidi, fatta senza anestesia. Da allora io ebbi paura dei barbieri; troppo simili a quel signore. I bar­bieri, come ho detto, spesso lavo­rano in mezzo a due specchi: uno di fronte e uno alle spalle, hanno il camice bianco, usano strumenti di acciaio. Le immagini fuggono e rim­balzano: paura e fascino per quella esperienza antica, per i barbieri, per i loro specchi. Tutto si mescola: par­lare e muoversi è come essere pri­gioniero tra due specchi, tra le mani di un mostro e di una strega.

Quando ero piccolo, un barbiere, mentre, terribilmente, usava la lama sulla mia testa, mi parlava dolce­mente e premeva il suo genitale eretto contro la mia mano appog­giata sul bracciolo della poltrona. Contatto piacevole e splendido: ecco che parlare e muoversi non è sol­tanto terribile, può anche essere estremamente piacevole. Forse ho fatto lo psicoanalista per ritrovare quelle sensazioni e quelle parole. Specchi contro specchi. Parole con­tro parole. Gesti contro gesti.

Non vi è un’unica teoria psicoana­litica; vi sono ipotesi diverse. Eppu­re, quasi tutte ottengono risultati. Perché?

Si dice che la psicoanalisi non sia scientifica perché ogni psicoanalista interpreta in modo diverso sintomi e sogni. Si dice, anche, che i para­metri di giudizio siano arbitrari e che ogni analisi segua principi im­ponderabili, non quantificabili.

Vorrei, a questo, proposito, fare due ordini di considerazioni. Le consi­derazioni del primo ordine si rife­riscono alle terapie cosiddette «scien­tifiche » e oggettive, per esempio: la medicina tradizionale. Basandomi su osservazioni statistiche che ades­so mi sembra inopportuno riferire in dettaglio (chiedo, però, a chi leg­ge, di fidarsi) pochissimi sono i sin­tomi di malattie organiche (appena un po’ complessi) diagnosticati in modo univoco da medici diversi. Gli stessi sintomi, anche dopo analisi di laboratorio, sono letti in modo as­sai diverso ed attribuiti a situazioni patogene diversissime fra di loro. t persino più frequente trovare d’ac­cordo fra di loro degli psicoanalisti, anche se di scuole diverse, quando si tratti di diagnosticare un rituale ossessivo o di leggere un simbolo onirico.

Anche dal punto di vista del risul­tato terapeutico, la modificazione o la scomparsa dei sintomi, non è sta­tisticamente più frequente in una terapia farmacologica, condotta da un terapeuta organicista, di quanto avvenga nella più trasognata terapia psícoanalitica. Non parliamo poi di interventi terapeutici condotti secon­do tecniche comportamentistiche: per lo più si ha, in questi casi, una trasformazione del sintomo.

Per quanto sopra, dal punto di vista oggettivo e quantizzabile, le terapie ispirantesi ai principi della psicolo­gia dinamica, non ottengono risulta­ti inferiori a quelli ottenuti con le più oggettive e metodiche tecniche terapeutiche. Può darsi che questo dipenda dal fatto che ogni tecnica, attualmente, sia ancora in mano allo spontaneismo della stregoneria.

Le considerazioni relative all’altro ordine di pensieri sono queste: il fatto che siano impossibili due tera­pie psicoanalitiche identiche sta a dimostrare, soltanto, che la terapia psicoanalitica è fatta con e per es­seri umani. Bisognerebbe esaltare l’unicità di ogni rapporto terapeu­tico.

E’ estremamente difficile capire che cosa sia la guarigione. Nella mia esperienza posso affermare, però, di non aver mai impostato un lavoro psicoanalitico che sia rimasto senza effetti, anche se, dopo tanti anni, ribadisco, non so ancora dire che cosa voglia dire: guarire. Mi rifiuto però di credere che guarire, dal punto di vista psichico, voglia dire rimbecillire l’essere umano, renden­dolo serenamente e ipocritamente inserito in una società angosciata e schizofrenica.

Equivoco è il risultato di ogni tera­pia psicoanalitica, perché equivoca è la situazione esistenziale dell’uo­mo nel mondo.

Alcune sono le parole dette, scelte tra migliaia. Alcuni sono i gesti com­piuti, scelti tra migliaia. Infinite pa­role e infiniti gesti rimangono non dette ed inespressi. Ogni psicoana­lisi è un’avventura attraverso pa­role e gesti. Il « non detto » e « non fatto » sarà sempre il « di più ». La meta raggiunta è instabile.

Si è partiti da un punto e si è arri­vati ad un altro. È importante non aver percorso una circonferenza. Può anche darsi che qualcuno dica che si percorrono, sempre e soltan­to, circonferenze. Io non credo in questo.

Io credo,anche; nell’esperienza. Espe­rienza che non si radica su esperi­menti oggettivi; ma sui bisogni e sui desideri; quelli che, oggi, abbia­mo ereditato da milioni di persone, di parole e di gesti esistiti prima di « adesso ». « Adesso » e « ora » pesa­no e si preparano a divenire pas­sato.

Ho paura del non detto, ho paura del non agito; eppure debbo sceglie­re poche parole e pochi gesti.

La psicoanalisi non è soltanto fan­tasia; è anche consapevolezza, ses­sualità, azione, lotta.

Molti sintomi fanno soffrire. Questi sintomi sono come i padroni: biso­gna abbatterli.

Non bisogna aver paura degli spec­chi.