Psicoanalisi contro n. 3 – Io ho paura della solitudine: problemi di un musicista, forse ingenuo

marzo , 1980

Io posseggo dodici suoni. Sulla tastiera del mio pianoforte dodici tasti bianchi e neri; poi si raddoppiano; ma sono sempre quelli: frequenze diverse, frutto di un calcolo matematico, ma il mio orecchio li scopre: acuti o gravi, sempre quelli.
Quando le mie mani frugano fra quei tasti, senza sforzo, grappoli di suoni nascono e si susseguono; hanno un senso, una sintassi, una grammatica.
Nella mia mente ci sono dodici suoni. Quando scrivo musica li sento concreti e presenti dentro di me. Qualche volta hanno la concretezza di un timbro particolare: un violino, un oboe, un contrabbasso… oppure sono più astratti, vibranti, tesi: sono tra il suono e l’immagine.
Quando si percepisce un’immagine, questa si distende in un tempo e con un ritmo. Quando si ascoltano suoni, questi si appropriano di uno spazio. L’orecchio percorre lo spazio musicale, come l’occhio percorre la figura dipinta o scolpita; spezza l’involucro del momento in cui il suono è presente; ricordo e attesa sono spazio, lo spazio è: ricordo e attesa.
Dentro e fuori di me sento molti suoni. Dodici sono privilegiati e, di questi dodici, particolari successioni di sette si sovrappongono come lastre di cristallo, grani di un rosario o serie di momenti colorati.
Anche per me le varie tonalità hanno un colore. Musicologi e musicisti hanno tentato di scoprire le oggettive colorazioni delle tonalità. Sforzo ingenuo e inutile; eppure io penso che non esista nessuno che non dia un colore ai suoni; perciò il musicista, che sa più o meno cosa vuol dire mi bemolle maggiore o fa minore, quando sente nell’orecchio l’accordo di mi e di fa, immediatamente, nella mente, li colora.
Per me, ad esempio, la tonalità di mi bemolle maggiore è bruno dorata, quella di fa minore sfuma dal blu all’azzurro; ben diversa da quella di fa maggiore, tutta azzurra, con una sola nota evidente ed allegra, di un giallo brillante: il si bemolle.
Anche i rapporti tra i suoni hanno un colore che cambia: ogni settima, ogni nona, ogni diminuita hanno un colore; ogni consonanza, ogni dissonanza.
Questo è un linguaggio antico, colorato e preciso.
lo sono un compositore d’oggi ed ho scelto di tendere questo linguaggio oltre se stesso. Talvolta mi si spezza tra le mani. Imperiosa nella mia mente si presenta una successione armonica: tonica – sottodominante e poi una serie di suoni ammucchiati e contraddittori. L’ultimo va alla ricerca di una sensibile come un’eco lontana che mi attrae. Mi ribello alla tonica e una serie di dodici suoni imita un altro linguaggio. Spero sempre che non sia soltanto un gesto di ribellione. Voglio che, dietro a tutto, ci sia una linea di sviluppo.
Io mi sento solitario.
Nei tempi passati il linguaggio musicale era più omogeneo.
A Versailles e sotto la Bastiglia vi erano musiche un po’ diverse; ma i moduli linguistici erano gli stessi.
La Juppiter di Mozart si radica nella stessa struttura di linguaggio di una corrente popolare del Settecento.
Perché io, adesso, debbo usare (quando sono un compositore «serio») un linguaggio diverso da quello che continuano ad usare tutti? Perché, se adesso mi proponessero di scrivere un branetto musicale per il carillon di un campanile, non saprei che linguaggio usare?
Perché la gente, quando passa per strada, fischietta (quando fischietta, naturalmente) usando una grammatica ed una sintassi che io debbo rifiutare in una sala da concerto? Freud aveva detto che la psicoanalisi ha un linguaggio particolare, per cui può essere usata soltanto con persone che siano in grado di cogliere questo linguaggio, di penetrarlo e di usarlo.
lo ho rifiutato questa aristocrazia e mi sono accorto che era un bluff di Freud. Il linguaggio è prima della psicoanalisi. Il linguaggio è quello che io ho, che tu hai.
Il linguaggio non coincide con il desiderio; ma il linguaggio può servire a costruire il desiderio. Le parole sono sempre presenti.
Anche le lettere dell’alfabeto hanno un colore; così le parole. Si è cercato di determinarlo, sforzo inutile in sé, ma utile perché divertente.
Mi sono sempre chiesto se le formule linguistiche delle immagini siano meno rigide di quelle dei suoni.
Molte persone, quando telefonano o ascoltano una conferenza, se hanno una matita in mano, formano disegni. C’è chi disegna volti di profilo, occhi, fiori; c’è chi circonda il proprio nome di svolazzi barocchi, e c’è anche chi costruisce grate sempre più fitte e intricate. Molti fanno disegni astratti, linee e macchie. Nessuno, però, soprattutto se non è un musicista, che se lo impone per dovere, canta brani atonali mentre SI fa la doccia o guida l’automobile, canta cioè al di fuori di quel linguaggio musicale appreso alle elementari e ribadito dalla televisione.
Io ho paura della banalità, ho paura di ripetermi; ma ho soprattutto paura della solitudine: so che potrebbe perdermi.

Ogni volta che scrivo musica spero di non usare più il linguaggio tradizionale e spero che ogni mia composizione imposti, ogni volta, perentoriamente, un linguaggio nuovo.
Ogni brano che scrivo è comprensibile, a fondo, solo al secondo ascolto. Io imposto una formula linguistica e poi la sviluppo. Mi chiedo sempre, però: ha senso costruire ogni volta un nuovo esperanto?
Io ho soprattutto paura della solitudine.