Psicoanalisi contro n. 3 – Eroe artigiano

marzo , 1980

Alcuni manuali di storia della filo­sofia dicono che Socrate sia lo sco­pritore del « concetto ». Questa af­fermazione equivale a dire che Ga­lileo Galileo sia lo scopritore del sole.

Secondo me, non c’è nessuna differenza, tra il concetto e la parola. Io, oltre a non credere che Galileo Galilei abbia scoperto il so­le, non credo neppure che Socrate abbia scoperto la parola. La parola è sempre esistita, o almeno esisteva prima di Socrate, non solo come mezzo per comunicare con noi stessi e con gli altri e per intervenire sul reale; anche„ come termine privilegiato, suono, segnale-simbolo che accoglie in sè altri segnali simbolo. La parola così è comunemente chiamata: concetto, anche se è soltanto questione di prospettiva. Qualunque elemento linguistico iso­labile può essere un concetto; lo possono essere anche una congiun­zione, un avverbio, una interpun­zione. È comodo, però, affermare che sono concetti soltanto quelli e­sprimibili attraverso il linguaggio verbale. È comodo ritenere concet­ti una « quinta giusta » o l’« ammic­camento» solo quando divengono termini che acquistano una corpo­sità verbale.

Qui si aprirebbe il problema, credo irrisolvibile, che tenta di definire che cosa sia verbale e non verbale in un qualunque gesto da e nell’uo­mo. Il concetto, quindi, è per me una parola, anzi, una parola privile­giata, perché in quel momento mi faceva comodo privilegiarla. Un concetto è una parola, ma è anche una definizione e la definizione è fatta di parole. In un dizionario della lingua italiana ho trovato che « edicola » è una costruzione a for­ma di « garitta »; un pizzico di pa­gine più in là, il medesimo librone mi comunicava che la « garitta » è una costruzione a forma di edicola. L’ingenuità di Lacan sta nell’aver usato uno specchio solo, afferman­do che mi riconosco e mi costrui­sco quando mi vedo nello specchio; se fosse stato coerente avrebbe messo due specchi riflettenti eternamen­te: niente.

Esistono ‘gli amici e i nemici della parola. C’è chi afferma che la paro­la è tutto: gabbia, prigione, sostan­za, liberazione. Per il cristianesimo Cristo è il « logos » la parola-concet­to-sostanza. Talvolta mi viene il so­spetto che S. Agostino e Origene siano dei lacaniani ante-litteram, o meglio: che Lacan sia una reincar­nazione dei primi padri della chiesa. Ma anche gli antichi padri possiedono un unico specchio, anche se lo chiamavano Cielo ed Assoluto: non sono le dimensioni che conta­no. I nemici della parola vanno alla ricerca del corpo; come se la parola non fosse corpo! Invece coloro che hanno paura del corpo privilegiano la parola; come se il corpo non aves­se un linguaggio. Rimane, comunque, il gioco degli specchi. Quando ero piccolo amavo fare il gioco della « gi­bigianna ». Prendevo uno specchio, captavo un raggio di sole e lo sca­gliavo negli occhi di chi passava da quelle parti: la persona rimaneva ab­bacinata, costruiva sul suo volto un’espressione che mi divertiva mol­tissimo; mi sentivo padrone del so­le. Il « logos » illumina. Il problema è irrisolto: è il sóle o è un bambino Che gioca alla gibigianna? Gli spec­chi dovrebbero essere due; ma se sono realmente due, l’Io ci Si Perde. La parola diviene la sua tomba.

Ho detto che il concetto è una paro­la privilegiata. Privilegiata, adesso, ora, perché mi fa comodo. Noi vi­viamo nella precarietà. La parola è precaria come precaria è la ricerca della parola. Non basta dire che Cri­sto è il « logos ». La parola continua ad essere uno specchio che guarda uno specchio. È indispensabile in­frangere il dominio della parola: però si lotta contro le parole con le parole.

Aristotele nel Protrepticon lo aveva detto: per contestare la filosofia è indispensabile la filosofia. Ed io sog­giungo: per vincere, la parola è necessaria la parola. Se la parola è il logos, la parola afferma la sua tirannia, tirannia dogmatica che ri­chiama ad altro da sé: in una defi­nizione costrittiva, o, più corretta­mente, creativa. La parola crea; ma che cosa crea? Cose o parole?

Se la parola è il « logos », la parola è una sola; ma se è una sola non è una parola. L’edicola continua, mal­grado tutto, ad essere una « costru­zione » a forma di garitta e la garit­ta, imperterrita, si ostina ad essere una costruzione a forma di edicola. I termini, le parole, debbono sem­pre essere almeno due. Un’edicola che guarda la garitta e und garitta che si specchia in una edicola. Fra queste due parole rimbalza la paro­la « costruzione », ed allora o rim­balza all’infinito o diviene « realizza­zione di un complesso funzionale, mediante appositi elementi ordinata­mente disposti, uniti, collegati ». Continuiamo a girare le pagine del dizionario della lingua italiana e an­diamo alla ricerca di come viene definita la « realizzazione »: « tradu­zione in effetto di quanto costitui­sce un desiderio o di quanto è de­stinato ad una attuazione concre­ta ». La parola perno, questa volta, è « desiderio ». Mi viene però il so­spetto che l’espressione « realizza­zione », quando era inserita nella frase che tentava di definire la « co­struzione », esprimesse qualcosa che non era poi definito quando si affron­tava proprio la definizione della pa­rola « realizzazione ». Oppure il ter­mine « costruzione » si- specchia in quello di « realizzazione » e vicever­sa ed entrambi rimandano a « desi­derio » che diventa a sua volta: « sen­timento di ricerca appassionata o di attesa del possesso, del compimento o dell’attuazione di quanto è senti­to confacente alle proprie esigenze o ai propri gusti ». La « realizzazio­ne » si specchia nel « desiderio », il « desiderio » nella realizzazione: in comune abbiamo l’« attuazione ». Po­tremmo andare all’infinito o forse dovremmo agganciarci ad una paro­la che non sia una parola.

La parola quindi nega se stessa, ten­de ad altro da sé; ma quell’altro da sé è pur sempre una parola. È indi­spensabile un dio, quindi, il « lo­gos », per porre la prima parola, che si autoponga ed abbia una forza creatrice; creatrice di altro da sé? Ma l’altro da sé è di nuovo una pa­rola, un altro « logos » creatore! La parola gioca con se stessa, ruba i raggi del sole sperando di dominarlo; ma il sole è la stessa attorno alla quale gravita il sistema di cui fa par­te la Terra e che costituisce per questa l’essenziale fonte di energia e quindi di vita »; e che cosa è la stella? « astro dotato di luce propria perché costituito di materia incan­scente », e che cosa è un astro? « qua­lunque corpo della sfera celeste, so­le, luna, stelle, pianeti, pianetini ». Ed ecco il sole che prima era una stella e adesso sembra essere qual­cosa di diverso, e le stelle e il sole hanno la loro presenza incompren­sibile ma luminosa; il sole è una stella, la stella è un astro, gli astri sono stelle che talvolta sono anche il sole.

Ma quando sono il sole? Il gioco de­gli specchi continua.

Un concetto che, come abbiamo vi­sto, non è altro che una parola fun­zionalmente privilegiata; può essere osservato sotto due punti di vista fondamentali. Il primo è quello per mezzo del quale si fa la storia del concetto, si va alla ricerca di quando la prima volta quella parola- concetto sia comparsa; quanti signi­ficati abbia acquistato, che peso ab­bia avuto e quando abbia assunto il suo significato più pregnante e chiaro.

Il secondo punto di vista è quello per cui la parola-concetto viene isolata, analizzata, osservata, e se ne tenta una definizione organica e comprensibile. Sotto tutti e due gli aspet­ti si attua una ricerca: ricerca per capire e per orientarsi.

Nessuno va alla ricerca della ricerca. Tutti cercano qualcosa che va oltre la ricerca. Io so che cosa cerco? Forse, se lo sapessi, non lo cercherei più, o meglio, non avrei più interesse nel cercarlo: è il discorso degli an­tichi sofisti; valido ancora perché nessuno è stato in grado di sostituir­lo. Quando invece si dice che la ri­cerca spesso non è altro che deside­rio della ricerca si vuol dire in realtà esattamente l’opposto. Nella frase: « la ricerca non è altro che il desi­derio della ricerca » la parola « ricer­ca » viene usata con due significati diversi. La prima volta si dice « ri­cerca » intendo la ricerca come tale, cioè come « attività avente come fine un ritrovamento »; poi nell’espres­sione « è desiderio della ricerca » si tenta di affermare che la ricerca tende ad esaurirsi in se stessa; in realtà la seconda volta il termine « ricer­ca» nasconde un desiderio che non è mai desiderio della ricerca, ma è la ricerca che è un’attività desiderante; desiderante un desiderio inespresso, forse inesprimibile, La vita è tutta una ricerca come è tutta una attesa; ma se pure io aspetto Godot, Godot è qualcosa di diverso dall’at­tesa. Godot è anche un mio sogno, un padre buono, una vagina calda, -una tavoletta di cioccolato.

Ho in mente il termine « psicoana­lisi » o forse anche, più corretta­mente « psicologia dinamica » e vor­rei tentare di chiarire alcuni aspetti di questo concetto. Penso che ormai sia lezioso e frivolo perdere troppo tempo per chiarire che la « psicolo­gia dinamica » è il tutto e la « psi­coanalisi » è una parte. Ormai la teoria e la tecnica freudiane che si dovrebbero chiamare « psicoana­lisi » sono diventate sinonimo del tutto. Perciò con poco rigore filolo­gico io interscambierò i due segnali. Adesso perciò mi chiedo che cosa è la psicoanalisi o, se preferiamo, la psicologia dinamica. Per seguire lun­go la storia l’affermarsi e l’evolversi di un concetto è indispensabile co­noscerne in modo adeguato la strut­tura; però, per acquistarne una co­noscenza sufficiente è necessario ri­percorrerne l’evoluzione storica. Evi­dentemente, è una difficoltà senza soluzione. Accetterò quindi di usare un concetto, fin da subito, ambiguo ed impreciso, che, proprio per que­sto suo peccato di origine, anche alla fine del discorso, rimarrà am­biguo ed impreciso.

Perché la psicoanalisi è sorta alla fine dell’Ottocento? È persino trop­po facile trovare nella cultura euro­pea a cavallo dei due secoli elemen­ti che ne favoriscono il sorgere e lo sviluppo. Nietzsche e Webern, il se­cessionismo e l’inquietudine ango­sciosa che preparerà la prima guerra mondiale, sono elementi di un’epo­ca che è facile accordare con i fon­damentali concetti della psicoanalisi. Nietzsche vuole sovvertire i valori della borghesia cristiana per creare un super-uomo amorale ed ideale: un essere libero, soddisfatto e pa­drone dei propri istinti. Però l’uomo Nietzsche un giorno, a Torino, ab­braccia un cavallo frustato dal padrone e la sua volontà di potenza si smarrisce in un ospedale psichia­trico.

Webern abbatte gli ultimi residui di un’armonia ormai contraddittoria, ma presente ed avvolgente. Costrui­sce brevi composizioni musicali, ap­parentemente arbitrarie, ma in real­tà logiche e conseguenziali, proprio come i sogni, e da queste non arri­verà più ad uscire se non con il suicidio.

Lo stesso secessionismo, che costrui­sce cancellate iperboliche ed ester­refatti palazzi allucinati, pare voglia scavare in lati oscuri e misteriosi della psiche. Mentre tutta l’epoca, intanto, tenta di rimuovere, con un massiccio gesto nevrotico, enormi tensioni e conflitti. La « belle épo­que » di alcuni copre sfruttamento, rabbia e rassegnazione di tantissimi altri. La prima guerra mondiale è assurda, ma inevitabile come un’e­splosione psicotica. La psicoanalisi sembra accordarsi pienamente con tutto questo. Eppure, stranamente, la psicoanalisi, con poche variazioni, si trova accordata con qualunque epoca della storia occidentale. Sa­rebbe stata Pienamente in accordo con l’epoca barocca, con il capovol­gimento dei cieli operato da Coper­nico e Galilei, come pure con le si­nuose e fantastiche immaginazioni manieristiche. Pensiamo, inoltre, al­la pittura caravaggesca: su sfondi densi e oscuri come l’inconscio, una imprevedibile luce illumina, esaspe­randoli, pochi elementi: nell’oscuri­tà può esserci qualunque cosa. Op­pure alla pittura fiamminga: minu­ziose ricostruzioni di scene e am­bienti borghesi, in cui il realismo im­provvisamente si infrange contro gesti e corpi esasperati, sensuali e brutti: equivoci come il desiderio. Potrei ancora descrivere i roghi per le streghe, i sontuosi riti cattolici, il razionalismo inquieto di Borromini e la sfuggente sensualità di Rameau. Dopo tutto questo, il terreno per la psicoanalisi sembrerebbe pronto, anzi, ci si potrebbe chiedere: ma perché non c’è la psicoanalisi? Se ci spostiamo nel secolo d’oro di Atene e di tutta la Grecia, non pos­siamo credere che, senza consape­volezza, l’arte e la filosofia potessero giocare con tanta precisione con

Narciso e con Edipo. E pensiamo ancora al Partenone variopinto e coerente come un sogno interpreta­to. Intanto Platone raccontava di un vecchio, brutto ed affascinante, che, usando le parole, aveva inventato una tecnica per far ricordare e, at­traverso Eros, raggiungere la verità perduta. Ma questo vecchio è uno scienziato inquietante che, forse, non crede nella sua scienza e finge di essere contento di morire., come fin­gono di esserlo i cigni sacri ad Apollo. Anche qui: è un’imperdonabile scorrettezza, da parte dei Greci, non aver inventato la psicoanalisi.

La psicoanalisi è perciò coerente con l’epoca in cui è sorta; ma si armo­nizza benissimo con molte altre si­tuazioni storiche. Vi sono indubbia­mente parecchie ragioni per cui la psicoanalisi doveva sorgere proprio tra l’Ottocento e il Novecento; sono ragioni però, secondo me, assai me­no isolabili ed evidenziabili di quelle che hanno contribuito alla compar­sa di altri fenomeni culturali.

E’ arrivato il momento, adesso, in cui debbo cercare di abbozzare una risposta alla domanda che mi ero posto più sopra: che cosa è la psi­coanalisi? Potrei rispondere che la psicoanalisi è una filosofia, ‘Che ha una sua visione del mondo e del­l’uomo; potrei anche dire, però, che è una particolare branca della scien­za psicologica, con una sua tecnica terapeutica. Sarebbe anche possibi­le intrecciare i due concetti e dire che: è una tecnica terapeutica che si fonda su una filosofia; oppure che è una filosofia fornita di una tecnica Psicoterapeutica. Ma esistono filoso­fie che non siano psicoterapie?

Quest’ ultima domanda mi è sfuggi­ta; potrei cancellarla, ma non vo­glio. Per il momento, rimanga lì, come domanda.

Non si riesce mai a costruire discor­si unidirezionali• è indispensabile es­serne consapevoli: ogni discorso è anche, sempre, la castrazione di al­tri discorsi. Rimanga quella doman­da come memoria di tutti i discorsi che si sarebbero dovuti fare a que­sto punto; ma che non sono stato in grado di esprimere.

Proviamoci ancora a precisare la risposta alla domanda principale: ho detto che la psicanalisi è una parti­colare filosofia ed una particolare tecnica terapeutica: che cosa si an­nida dietro il termine particolare? Si annida l’inconscio.

Ciò che, secondo me, caratterizza la psicoanalisi è una contraddizione originaria: la consapevolezza dell’in­Conscio. La Psicologia dinamica non ha inventato l’inconscio, ha tentato di parlarne, ha tentato di usarlo e lo ha, quindi, strumentalizzato. Le prime teorie psicoanalitiche han­no sovrapposto ontogenesi e filoge­nesi, affermando che l’evoluzione psi­chica di ogni essere umano ripercor­re le tappe dello sviluppo psichico della specie: tesi ingegnosa, ma sem­plicistica. Se l’inconscio esiste, esi­ste da sempre, o, meglio, esiste da un sempre che è sempre per noi, il sempre che ci interessa. Ripeto, quindi; che la psicoanalisi è carat­terizzata dall’importanza data all’in­coscio. È profondamente scorretto dire che la psicoanalisi abbia sco­perto l’inconscio; è meglio ripetere, a mio avviso, la contraddittoria af­fermazione di prima: la psicoanalisi ha tentato di rendere conscio l’in­conscio.

La realtà dell’inconscio, però, è sem­pre stata presente. L’inconscio è come il sole: visibile e manifesto, ma doloroso a guardarsi e anche pe­ricoloso. L’inconscio, consapevol­mente scoperto, come una ferita do­lente e nuda, nell’epoca barocca; impudicamente scoperto nell’antichità classica, è stato sempre più peri­coloso che ignoto.

Prima, quando ho sinteticamente schizzato le caratteristiche dell’ePo­ca in cui è sorta la psicoanalisi, ho detto le solite cose. Così solite che rischiano di essere stupide. Ho det­to che, nell’epoca inquieta della fol­lia di Nietzsche e delle angosce sot­terranee che prepareranno la guer­ra, la psicoanalisi sorge come esi­genza di chiarire questa follia e que­ste angosce: osservazione non scor­retta, ma sempliciotta. Non vorrei che si potesse pensare che, secondo me, la psicoanalisi sorge in un mo­mento di esaltazione della sponta­neità e dei sogni, come un aspetto di questa esaltazione.

Uno dei primi testi fondamentali del­la psicoanalisi parla sì dei sogni„ in­fatti; ma con il titolo: « Die traum­deutung iiber den traum »: « L’in­terpretazione dei sogni », 1899. È un geniale tentativo non di esaltare la fantasiosa e libera poeticità del pen­siero notturno, ma di esprimere la positivistica esigenza di razionaliz­zare l’irrazionale, affermando che an­che il sogno è controllabile dalla scienza. Questo è il tentativo consa­pevole: per fortuna lo scienziato dei sogni ha una ricchezza interiore in­sospettabile e, nonostante il puerile e splendido capitolo settimo, l’incon­scio si ribella al suo tiranno co­stringendolo a parlare della intermi­nabilità della analisi: se l’analisi è interminabile l’inconscio avrà sem­pre la possibilità di sfuggirle.

Nel momento in cui scrivo, in una grande piazza vicino alla mia casa stanno urlando dei manifestanti. Ar­riva fin qui il ritmo degli slogan che però mi rimangono incomprensibili. Mi mette un po’ a disagio accorger­mi di aver assunto un atteggiamento di neutralità: attorno a me i miei mobili carichi di passato e i miei li­bri, strumenti del mio potere e del mio privilegio. Quegli slogan inintel­liggibili poterebbero essere espres­sione di qualunque tendenza politi­ca. Io, qui, con la paura e il piacere di non potermi coinvolgere, quegli altri, là, urlanti. Troppo banale dire: « ecco le processioni del nostro tempo che, nella città del papa, hanno sostituito quelle dei preti e dei cri­stiani ». Tanti inconsci con tante mo­tivazioni. Un rituale, dei ritmi, un’e­motività, alcuni esorcismi: ho pau­ra, voglio interpretare. Adesso, forse, mi è chiaro perché è sorta la psicoa­nalisi: è sorta per dominare la paura dell’inconscio.

Il meccanismo della psicoanalisi si radica, quindi, nell’atteggiamento os­sessivo della scienza positivistica del tardo Ottocento, per cui nulla deve sfuggire al controllo della ragione umana. Se alcuni decenni prima Au­guste Comte, ex ricoverato psichia­trico, controllava la sua paura del­l’inconscio affermando che la psico­logia non era mai stata una scienza, la psicoanalisi afferma che la psico­logia è la scienza prima; come la teo­logia aristotelica, perché studia l’es­sere primo: non più dio ma uomo. Il meccanismo coatto della scienza è quello di coprire con il suo con­trollo tutta la realtà. Oggi, la scienza si è resa conto che la realtà non è stabile, ma si costruisce con gli stru­menti stessi che la controllano. Se cambiano gli strumenti, non mutia­mo soltanto il modo di intervenire sul reale, creiamo anche un altro reale. E, se il complesso dei bisogni, nel suo mutare, forma nuove esi­genze e quindi una nuova realtà, sor­ge il bisogno di nuovi strumenti scientifici per cogliere la nuova si­tuazione che si è venuta formando. Parallelamente, però, i nuovi stru­menti contribuiscono a formare una nuova realtà, e così via.

Uno strumento scientifico fa parte del complesso dei bisogni ed è quin­di utile, ma superabile, come tutti bisogni. Soltanto il desiderio, nel nostro sempre, è un bisogno che non verrà mai meno. Ecco che sem­pre e mai si sono incontrati. Perciò debbo dire che anche questo mai è il nostro mai.

Tutte le complesse ragioni che han­no fatto sì che, proprio in quell’e­poca, la scienza divenisse così osses­siva, tanto da voler controllare an­che l’inconscio, non sono facili da esporre. La storia della scienza e la storia della cultura ci hanno dato alcune indicazioni che, a mio parere, sono, però, insufficienti. La storia è sempre soltanto una narrazione, una favola, un teatro.

Dovrei, ora tentare di definire la psi­coanalisi in se stessa. Oggi la psico­logia dinamica è un tutto, articolato ma organico, e mi è impossibile, qui, analizzare e confrontare le varie cor­renti.

La psicoanalisi è, soprattutto, pre­sente. È presente nelle ricerche psi­cologiche, nelle analisi sociali, nei romanzi e nei film e viene pure usa­ta, talvolta, per interpretare avveni­menti clamorosi: delitti, per lo più, moda e spettacolo. Si chiede sempre il parere dello psicoanalista e lo psi­coanalista dà il suo parere su tutto. La sùa presenza è comoda e scomo­da allo stesso tempo.

La psicoanalisi è sorta come difesa dall’inconscio e si radica nei biso­gni dell’inconscio. La più grossa di­fesa della psicoanalisi è, quindi, la psicoanalisi stessa. Io penso che vi­vere voglia sempre dire, anche, di­fendersi. Se la nostra psiche non si difendesse, anche, sempre, verrebbe distrutta. Difendersi vuol dire; pe­rò, anche, scegliere, non soltanto fug­gire o soltanto aggredire. Fuga e ag­gressione sono sì due meccanismi difensivi tipici; ma la psiche riesce a metterne in atto moltissimi altri: la pseudo-fuga della negazione, per esempio; e poi che l’adesione e l’ac­cettazione possono essere meccanismi di difesa: si potrebbe dire che io accetto questo per fuggire da quell’altro.

La coscienza serve soltanto in picco­lissima parte ad orientarci nel mon­do: secondo me, la coscienza è sorta soprattutto come meccanismo di di­fesa utile a schermare l’inconscio. Quando, seduto sul mio seggiolone, accarezzando con voluttà ed amore i riccioli di legno dei braccioli, ascol­to le persone che mi stanno par­lando durante il « nostro » lavoro analitico, si disegna nella mia men­te una strana figura, immagino due linee che si snodano parallelamente: la prima è più nitida, distinta e sot­tile, ed è composta dalle frasi che la persona al mio fianco sta dicen­do; l’altra è più densa ed intricata, vorrei dire confusa, e rappresenta i discorsi inconsci che il mio orecchio, allenato, percepisce continuamente. È come ascoltare una composizione contrappuntistica a due voci. Un contrappunto un po’ bizzarro per­ché la seconda voce, quella incon­scia, è composta da una miriade di altre voci, che formano un insieme più complesso del più complesso contrappunto fiammingo.

La coscienza continua a voler fuggi­re, a difendersi per sopravvivere. Due sono, come ho detto, i modi ti­pici di difesa: la fuga (in tutte le sue varianti) e le aggressioni. Sco­prire la psicoanalisi è stato il più astuto tentativo escogitato dalla mente umana di difendersi dalla psi­coanalisi. Ci si potrebbe chiedere: ma come è stato possibile volersi difendere dalla psicoanalisi quando la psicoanalisi non esisteva?

Mi pare di aver già detto che non solo l’inconscio è sempre esistito, ma che sono sempre esistite anche si­tuazioni quasi-psicoanalitiche. Per­ciò, nel momento in cui la nuova fisica tentava di re-interpretare la struttura della materia, il bisogno di sistematizzare il rapporto con i no­stri desideri inconsci divenne im­pellente. Allora l’inconscio, costrin­se la cultura ad inventare la psicoa­nalisi; potrei anche dire, però, che la nostra cultura si difese dall’in­conscio inventando, allora, la psicoa­nalisi.

Una situazione di questo genere può succedere anche alla persona singo­la. Talvolta ci si butta nell’analisi per la gran paura che se ne ha. Vi è una forma nevrotica per cui il con­flitto interno, paura e desiderio di scoprire il desiderio, si manifesta con il sintomo di un bisogno coatto di psicoanalisi. Allora si comprano montagne di libri di psicoanalisi, si frequentano tutti i seminari di psicoanalisi della città, si parla conti­nuamente di psicoanalisi, •si vede tutto sotto la luce psicoanalitica. Quando, superata l’ultima resistenza, viene iniziato un rapporto terapeu­tico, le difese non sono per nulla abbattute, anzi, a quel punto, si sta sfidando direttamente la psicoanali­si. I rituali vengono tutti ossessiva­mente rigettati, ma un rapido sguar­do di sfida scagliato sullo psicoana­lista è più significativo di tutte le negazioni. Eppure anche questo è psicoanalisi.

La psicoanalisi è realmente un pe­ricolo. Molte persone hanno iniziato un rapporto terapeutico quasi per gioco e vi si sono trovati immischia­ti. In fondo, molte delle accuse alla psicoanalisi sono giuste.

Ho detto che la psicoanalisi è sorta come difesa dall’inconscio, eppure l’inconscio c’è sempre stato, ed è sempre stato un po’ conscio. La co­scienza è anche stata sempre un po’ inconscia. Il Preconscio è una stupi­daggine. L’inconscio non è delimita- bile, neppure la coscienza. sono due condizioni psichiche nettamente di­stinte. La filosofia e la psicologia del passato hanno distinto soggetto da oggetto per scaraventare le esigenge e le paure inconsce nell’oggetto: l’al­tro da noi, amico, nemico, amante, albero, tazza.

L’altro da noi è l’oggetto, si diceva, a cui si contrappone un soggetto. Poi si continuava: il soggetto cono­sce l’oggetto, il soggetto è il cono­scente, l’oggetto il conosciuto; ma non si conosceranno mai tutti gli oggetti. In questo mai risiedeva l’in­conscio.

La distinzione tra « soggetto » ed « oggetto » ha fatto il suo tempo. Per me, la distinzione più corretta è quella « conscio »-« inconscio », e l’energia è data dal desiderio. Senza questa tensione dialettica la vita psichica sarebbe incomprensibile. Può darsi che, un giorno, si porranno altre distinzioni, oppure si raggiun­gerà l’estasi mistica in un nirvana indistinto. Oggi dobbiamo vivere la nostra schizofrenia: conscio ed in­conscio.

Ritorna il discorso dello specchio. Molte persone mi hanno raccontato che amavano guardarsi a lungo nel­lo specchio; che da bambini si am­miravano, si esibivano, che talvolta baciavano la loro immagine riflessa: cosciente non era che il freddo con­tatto con il vetro. L’occhio di chi si guarda nello specchio diviene spec­chio e via così… Altre persone mi raccontano che si trovano a disagio davanti ad uno specchio, distolgono lo sguardo perfino quando si vedono riflesse nel cristallo di una vetrina di negozio. Consapevole è soltanto quel gesto di diniego; ma è consa­pevole come il gesto di un attore: perché fuggi la tua immagine? Avevo, e forse ho, un amico che, quando mi sente parlare di psicoa­nalisi deve allontanarsi da me. Non protesta, non mi aggredisce, si allon­tana con discrezione. Ha i capelli lunghissimi, un tempo scriveva mol­to bene;” -adesso non lo so, eppure so che qualche volta mi ha ascoltato. Poi un giorno gli venne il terrore di morire di infarto; mi chiese aiuto ed io stetti ad ascoltare, non dissi nul­la. Sono convinto di sapere quale sia la causa inconscia di quella sua fo­bia; però, anche se mi chiedesse di rivelargliela, commetterei la violenza di rifiutarmi. Perché, non lo so. Mi sono detto che non voglio saperlo: è la stessa cosa. Ho paura che per lui sarebbe una spiegazione banale. Però io so che la psicoanalisi non sta in quella spiegazione.

Io sono un « maestro » di psicoana­lisi. Ho usato il termine di « mae­stro » e non quello di « psicoanali­sta didatta » perché l’espressione « maestro » condensa in sé due si­gnificati per me essenziali. Il mae­stro è una figura carismatica, strana e scomoda, ed io questo vorrei es­sere. Maestro è però anche l’antico mastro artigiano che insegna all’ap­prendista la propria tecnica, attra­verso un rapporto diretto, manuale, ed affettivo. Il maestro è un eroe-ar­tigiano. Io vorrei essere l’uno e l’al­tro; anche se ho paura di essere sia l’uno che l’altro. t difficile essere un eroe, ma è ancor più difficile essere un artigiano.

Nel mio lavoro di eroe-artigiano dico e faccio molte cose. Non so quali siano le più importanti. Un’affermazione che ripeto spesso e che, forse, ritengo quindi importante, è que­sta: « chi fa lo psicoanalista dovreb­be rifiutarsi di interpretare. Io cerco di impedire ai miei allievi di usare la parola interpretazione. Quando uno psicoanalista racconta un suo « caso » e dice: « allora gli ho dato quest’interpretazione… » io mi sento a disagio. Mi disgusta vedere la ric­chezza delle situazioni esistenziali di una persona ingabbiata e castrata in una frase che la interpreta. Eppure, anch’io nel mio lavoro do le inter­pretazioni. Non vorrei che, però, fosse soltanto il termine a farmi paura; spero che l’insofferenza per la parola possa anche voler dire qualcosa di più.

Gli psiconalisti più sono narcisisti e stupidi e più usano l’espressione: gli ho interpretato… ». Per queste persone interpretare vuol dire analizza­re. Anche se l’interpretazione, da un punto di vista tecnico, è corretta, snatura il lavoro analitico, quando è calata dall’alto, come una giaculato­ria o uno slogan. Può anche darsi che il « paziente » la sappia usare a suo vantaggio, arricchendo il pro­prio lavorio psichico; però questo non è molto importante ai fini del discorso che sto facendo.

Quello che adesso voglio affermare è che la consapevolezza raggiunta nell’analisi è dovuta solo in parte alle frasi dette dallo psicoanalista. Allora: l’analisi è sempre autoana­lisi? Io penso di no. Io credo che la psicoanalisi si realizzi soltanto at­traverso un rapporto con un’altra persona.

Ho visto pochissime persone rag­giungere risultati attraverso l’autoa­nalisi. Per lo più (non voglio assolu­tizzare), colui che si è autoanalizza­to non ha fatto altro che ‘rafforzare le proprie difese narcisistiche, ed è diventato incapace di ascoltare, non solo gli altri, ma anche se stesso: parla e non pensa; le parole gli si intrecciano dentro, esplodono e muoiono come involucri rinsecchiti.

L’auto-analisi, come ho detto, è pe­ricolosa perché rischia di imprigio­nare colui che si sta auto-analizzando in una gabbia di parole, dando­gli una sicurezza apparente e ridu­cendo la sua disponibilità a mettersi in discussione davvero.

Mi sta venendo in mente un altro pensiero: forse l’auto-analisi è im­possibile.

Io credo che l’essere umano sia co­stitutivamente programmato per la relazione con l’altro. Vivere vuol di­re progettare, cioè dirigersi verso qualcosa che fa parte di noi, pur senza essere noi. L’auto-analisi, co­me relazione conoscitiva dell’io con l’io, non sarebbe altro che la più radicale delle situazioni di chiusura narcisistica. Io penso, però, che il narcisismo assoluto sia un’astrazio­ne. Il narcisismo è un meccanismo di difesa, conseguenza di un’espe­rienza dolorosa di relazione.

L’auto-analisi è, quindi, frutto della paura del rapporto, in questo caso, del rapporto analitico. Allora si sce­glie uno psicoanalista fantasma; o meglio: tanti psicoanalisti docili e accondiscendenti. Allora ci si appog­gia ai libri od a brandelli di frasi sentite.

Ecco, però, che l’altro continua ad essere presente, anche se tentiamo di negarlo: la chiusura assoluta è impossibile. Quando si sceglie come analista il proprio io, gli strumenti che il nostro « io-analista » usa per comprendere il nostro « io-analizza­to », non sono creazioni dell’io• sono pensieri e parole imparati nei dialo­ghi e nei contatti con gli altri.

Essere o pensare in una situazione di assoluta autarchia psichica è, co­me ho detto, di fatto, impossibile; però l’io potrebbe desiderare di tro­varsi in questa situazione. Secondo me, questo è un desiderio estrema­mente pericoloso, perché produce un atteggiamento psichico che può co­stituire la più brutale e violenta del­le scelte, anche se è una scelta im­possibile.

Per un altro verso, però, l’auto-ana­lisi è indispensabile, tanto che ogni buon rapporto psicoanalitico deve essere anche e sempre un’auto-ana­lisi.

Bisogna stare continuamente all’er­ta per cercare di capire se il nostro auto-analizzarci è un tentativo violento di escludere gli altri dai no­stri pensieri, oppure è invece un va­lido desiderio di conoscere noi stes­si, usando anche le nostre forze. Pau­ra e desiderio dell’altro costituiscono ogni comportamento umano.

Nessuno vuole soffrire: neppure il masochista. La scelta non è mai la sofferenza. La sofferenza è una scel­ta impossibile: scegliere di vivere escludendo il rapporto con l’altro da me e scegliere la sofferenza sono le due scelte impossibili. Vi sono state ideologie, gruppi sociali e sin­goli individui che hanno tentato di esaltare queste scelte. In realtà, l’e­saltazione della chiusura in se stessi e della sofferenza è stata usata per raggiungere altri scopi.

Tutto ciò che diciamo ha, sempre, almeno due significati: ovviamente anche quello che sto dicendo io ades­so. Adesso che sto parlando di que­ste due scelte impossibili, sono con­sapevole anche del fatto che io vo­glio che siano impossibili, perché ho troppa paura del mio delirio di on­nipotenza, che distrugge gli altri; ed ho troppa paura della sofferenza, presenza possibile in ogni istante del­la mia vita. Ma, se ne ho così paura, ne ho anche desiderio: e allora? Per fortuna, io sono io: mi sono al­zato da poco, ho suonato il piano­forte; questa notte ho sognato di far l’amore, o forse di parlare, con molte persone. Io non sono atto pu­ro; pensiero pensante se stesso. E allora? Che significato ha, a questo punto, avere raccontato quello che mi sento addosso in una mattina di novembre?

Vuol dire che: io sono io; con le mie paure e i miei desideri, di cui, però, non voglio essere soltanto pri­gioniero. Pur se io ho le mie paure e i miei desideri, non per questo deb­bo rinunciare ad esprimere opinioni che vadano oltre le mie sensazioni personali. Ripeto perciò: esistono scelte impossibili.

Torno, ora, a parlare più propria­mente di psicoanalisi. Ho detto che la psicoanalisi consiste in un lavoro fatto, da almeno due persone, in un tentativo comune di orientarsi nel cumulo di bisogni e di desideri che costituisce l’esistenza umana. Biso­gni e desideri che, per la maggior parte, sono inconsci. L’inconscio e costituito da tutto ciò che, in qual­che modo, e per qualche ragione, la nostra esistenza tenta di allontanare da sé.

L’inconscio è il rimosso. Il meccani­smo di rimozione è quel meccanismo di difesa che ci permette di soprav­vivere. Se tutti i nostri bisogni, tutti i nostri desideri, e tutte le nostre esperienze, fossero sempre presen­ti, ci disperderemmo in una miriade di rivoli che si inaridirebbero pre­sto. Rimuovere non vuol dire, neces­sariamente: rifiutare. La rimozione è un meccanismo profondamente vi­tale. t vitale, però, anche darsi da fare per non essere tirannicamente assogettati dalla rimozione.

Sfuggire alla tirannide della rimo­zione vuol dire scoprirne i meccani­smi e scontrarsi con molti desideri e pensieri nascosti. Io penso a que­sto e non a quell’altro, io ricordo questo e non quell’altro, io ho ri­mosso questo e non quell’altro, non certo per libera scelta. Le mie paure non sono soltanto mie, i miei desi­deri non sono soltanto miei. Io vivo in una società che tenta di farmi vi­vere le sue paure e i suoi desideri. E impossibile non educare. Quando un bambino viene al mondo, ancor prima: nel ventre materno; ancor prima: nella psiche di coloro che so­no nati prima di lui, egli è, sempre, in qualche modo, educato. Una ma­dre mi diceva: « un giorno mio figlio mi domandò: — mamma, perché mi guardi con quegli occhi? — capii al­lora che con gli occhi mandavo un messaggio che, forse, non volevo mandare. Cercai allora di guardare altrove, e mio figlio, angosciato mi domandò: — Mamma, perché non mi guardi più? ».

Il rimosso è quindi costituito an­che da ciò che l’educazione ci co­stringe a rimuovere. Tutto ciò che è rimosso ha la stessa energia vitale di quello che è presente alla coscien­za. Il rimosso non è il dimenticato. Il rimosso è ciò che ha un tipo di presenza diversa dalla presenza di ciò che noi chiamiamo cosciente; ma non è meno presente. Non solo: gli altri si nascondono a noi; con un gioco sessuale e persecutorio, che vi­ve di una infinita quantità di perse­cuzioni. Chi non ha avuto, qualche volta, entrando in una stanza de­serta, l’impressione che ci fosse qualcuno? Chi non si è mai sentito inseguito in una strada deserta? Spesso i nostri amori allontanati ri­tornano come persecutori, oppure i persecutori si trasformano in aman­ti appassionati.

È impossibile liberarsi dal gioco de­gli specchi. Ogni parola è prigionie­ra di altre parole, senza le altre non sarebbe comprensibile, ma a sua vol­ta serve a spiegare le parole che la spiegano; questo vale anche per i gesti. Gli specchi non sono soltanto due: sono tre, quattro, cinque, tanti. I barbieri di un tempo lavoravano tra, due specchi. Io ero bambino e avevo paura del barbiere.

La storia è questa: avevo cinque anni e mio padre e mia madre un giorno mi dissero: « vieni con noi da un signore; poi ti faremo un bel re­galo ». Accettai di andare da quel signore. Ricordo una vecchia casa liberty di Torino; la balaustra delle scale era di ferro battuto, fantastica. Quel signore era alto e grosso e ave­va un camice bianco. Al suo fianco c’era una donna, più piccola, bian­castra anche lei. Mio padre e mia madre, vilmente, fuggirono. Quel si­gnore mi porse un ampio grembiule di gomma, dicendomi: « quando io lavo i piatti me lo metto sempre ». E veramente triste che i cosiddetti adulti considerino sempre imbecilli i bambini. Probabilmente, io trovai completamente insensato mettermi a lavare i piatti in casa di quel si­gnore. Mi sentii abbandonato e di­sperato. La piccola strega biancastra mi attanagliò con braccia vigorose, mi fecero aprire la bocca e vi introdussero un aggeggio di metallo che mi impedì di richiuderla. Il mo­stro mi si avvicinò. Io ero seduto in braccio alla strega e lui, seduto di fronte a me, estrasse orribili stru­menti di tortura. Mi infilò in bocca e in gola oggetti taglienti di acciaio. Forse sentii molto male; non lo ri­cordo più. Ricordo invece uno spruz­zo di sangue. Ricordo il mio dibatter­mi e le braccia tenaci della strega. Poi mi regalarono una montagna di gelati e tutta una attrezzatura per giocare al « venditore ». Non fu al­tro che un’asportazione di tonsille ed adenoidi, fatta senza anestesia. Da allora io ebbi paura dei barbieri; troppo simili a quel signore. I bar­bieri, come ho detto, spesso lavo­rano in mezzo a due specchi: uno di fronte e uno alle spalle, hanno il camice bianco, usano strumenti di acciaio. Le immagini fuggono e rim­balzano: paura e fascino per quella esperienza antica, per i barbieri, per i loro specchi. Tutto si mescola: par­lare e muoversi è come essere pri­gioniero tra due specchi, tra le mani di un mostro e di una strega.

Quando ero piccolo, un barbiere, mentre, terribilmente, usava la lama sulla mia testa, mi parlava dolce­mente e premeva il suo genitale eretto contro la mia mano appog­giata sul bracciolo della poltrona. Contatto piacevole e splendido: ecco che parlare e muoversi non è sol­tanto terribile, può anche essere estremamente piacevole. Forse ho fatto lo psicoanalista per ritrovare quelle sensazioni e quelle parole. Specchi contro specchi. Parole con­tro parole. Gesti contro gesti.

Non vi è un’unica teoria psicoana­litica; vi sono ipotesi diverse. Eppu­re, quasi tutte ottengono risultati. Perché?

Si dice che la psicoanalisi non sia scientifica perché ogni psicoanalista interpreta in modo diverso sintomi e sogni. Si dice, anche, che i para­metri di giudizio siano arbitrari e che ogni analisi segua principi im­ponderabili, non quantificabili.

Vorrei, a questo, proposito, fare due ordini di considerazioni. Le consi­derazioni del primo ordine si rife­riscono alle terapie cosiddette «scien­tifiche » e oggettive, per esempio: la medicina tradizionale. Basandomi su osservazioni statistiche che ades­so mi sembra inopportuno riferire in dettaglio (chiedo, però, a chi leg­ge, di fidarsi) pochissimi sono i sin­tomi di malattie organiche (appena un po’ complessi) diagnosticati in modo univoco da medici diversi. Gli stessi sintomi, anche dopo analisi di laboratorio, sono letti in modo as­sai diverso ed attribuiti a situazioni patogene diversissime fra di loro. t persino più frequente trovare d’ac­cordo fra di loro degli psicoanalisti, anche se di scuole diverse, quando si tratti di diagnosticare un rituale ossessivo o di leggere un simbolo onirico.

Anche dal punto di vista del risul­tato terapeutico, la modificazione o la scomparsa dei sintomi, non è sta­tisticamente più frequente in una terapia farmacologica, condotta da un terapeuta organicista, di quanto avvenga nella più trasognata terapia psícoanalitica. Non parliamo poi di interventi terapeutici condotti secon­do tecniche comportamentistiche: per lo più si ha, in questi casi, una trasformazione del sintomo.

Per quanto sopra, dal punto di vista oggettivo e quantizzabile, le terapie ispirantesi ai principi della psicolo­gia dinamica, non ottengono risulta­ti inferiori a quelli ottenuti con le più oggettive e metodiche tecniche terapeutiche. Può darsi che questo dipenda dal fatto che ogni tecnica, attualmente, sia ancora in mano allo spontaneismo della stregoneria.

Le considerazioni relative all’altro ordine di pensieri sono queste: il fatto che siano impossibili due tera­pie psicoanalitiche identiche sta a dimostrare, soltanto, che la terapia psicoanalitica è fatta con e per es­seri umani. Bisognerebbe esaltare l’unicità di ogni rapporto terapeu­tico.

E’ estremamente difficile capire che cosa sia la guarigione. Nella mia esperienza posso affermare, però, di non aver mai impostato un lavoro psicoanalitico che sia rimasto senza effetti, anche se, dopo tanti anni, ribadisco, non so ancora dire che cosa voglia dire: guarire. Mi rifiuto però di credere che guarire, dal punto di vista psichico, voglia dire rimbecillire l’essere umano, renden­dolo serenamente e ipocritamente inserito in una società angosciata e schizofrenica.

Equivoco è il risultato di ogni tera­pia psicoanalitica, perché equivoca è la situazione esistenziale dell’uo­mo nel mondo.

Alcune sono le parole dette, scelte tra migliaia. Alcuni sono i gesti com­piuti, scelti tra migliaia. Infinite pa­role e infiniti gesti rimangono non dette ed inespressi. Ogni psicoana­lisi è un’avventura attraverso pa­role e gesti. Il « non detto » e « non fatto » sarà sempre il « di più ». La meta raggiunta è instabile.

Si è partiti da un punto e si è arri­vati ad un altro. È importante non aver percorso una circonferenza. Può anche darsi che qualcuno dica che si percorrono, sempre e soltan­to, circonferenze. Io non credo in questo.

Io credo,anche; nell’esperienza. Espe­rienza che non si radica su esperi­menti oggettivi; ma sui bisogni e sui desideri; quelli che, oggi, abbia­mo ereditato da milioni di persone, di parole e di gesti esistiti prima di « adesso ». « Adesso » e « ora » pesa­no e si preparano a divenire pas­sato.

Ho paura del non detto, ho paura del non agito; eppure debbo sceglie­re poche parole e pochi gesti.

La psicoanalisi non è soltanto fan­tasia; è anche consapevolezza, ses­sualità, azione, lotta.

Molti sintomi fanno soffrire. Questi sintomi sono come i padroni: biso­gna abbatterli.

Non bisogna aver paura degli spec­chi.