Alcuni manuali di storia della filosofia dicono che Socrate sia lo scopritore del « concetto ». Questa affermazione equivale a dire che Galileo Galileo sia lo scopritore del sole.
Secondo me, non c’è nessuna differenza, tra il concetto e la parola. Io, oltre a non credere che Galileo Galilei abbia scoperto il sole, non credo neppure che Socrate abbia scoperto la parola. La parola è sempre esistita, o almeno esisteva prima di Socrate, non solo come mezzo per comunicare con noi stessi e con gli altri e per intervenire sul reale; anche„ come termine privilegiato, suono, segnale-simbolo che accoglie in sè altri segnali simbolo. La parola così è comunemente chiamata: concetto, anche se è soltanto questione di prospettiva. Qualunque elemento linguistico isolabile può essere un concetto; lo possono essere anche una congiunzione, un avverbio, una interpunzione. È comodo, però, affermare che sono concetti soltanto quelli esprimibili attraverso il linguaggio verbale. È comodo ritenere concetti una « quinta giusta » o l’« ammiccamento» solo quando divengono termini che acquistano una corposità verbale.
Qui si aprirebbe il problema, credo irrisolvibile, che tenta di definire che cosa sia verbale e non verbale in un qualunque gesto da e nell’uomo. Il concetto, quindi, è per me una parola, anzi, una parola privilegiata, perché in quel momento mi faceva comodo privilegiarla. Un concetto è una parola, ma è anche una definizione e la definizione è fatta di parole. In un dizionario della lingua italiana ho trovato che « edicola » è una costruzione a forma di « garitta »; un pizzico di pagine più in là, il medesimo librone mi comunicava che la « garitta » è una costruzione a forma di edicola. L’ingenuità di Lacan sta nell’aver usato uno specchio solo, affermando che mi riconosco e mi costruisco quando mi vedo nello specchio; se fosse stato coerente avrebbe messo due specchi riflettenti eternamente: niente.
Esistono ‘gli amici e i nemici della parola. C’è chi afferma che la parola è tutto: gabbia, prigione, sostanza, liberazione. Per il cristianesimo Cristo è il « logos » la parola-concetto-sostanza. Talvolta mi viene il sospetto che S. Agostino e Origene siano dei lacaniani ante-litteram, o meglio: che Lacan sia una reincarnazione dei primi padri della chiesa. Ma anche gli antichi padri possiedono un unico specchio, anche se lo chiamavano Cielo ed Assoluto: non sono le dimensioni che contano. I nemici della parola vanno alla ricerca del corpo; come se la parola non fosse corpo! Invece coloro che hanno paura del corpo privilegiano la parola; come se il corpo non avesse un linguaggio. Rimane, comunque, il gioco degli specchi. Quando ero piccolo amavo fare il gioco della « gibigianna ». Prendevo uno specchio, captavo un raggio di sole e lo scagliavo negli occhi di chi passava da quelle parti: la persona rimaneva abbacinata, costruiva sul suo volto un’espressione che mi divertiva moltissimo; mi sentivo padrone del sole. Il « logos » illumina. Il problema è irrisolto: è il sóle o è un bambino Che gioca alla gibigianna? Gli specchi dovrebbero essere due; ma se sono realmente due, l’Io ci Si Perde. La parola diviene la sua tomba.
Ho detto che il concetto è una parola privilegiata. Privilegiata, adesso, ora, perché mi fa comodo. Noi viviamo nella precarietà. La parola è precaria come precaria è la ricerca della parola. Non basta dire che Cristo è il « logos ». La parola continua ad essere uno sp–ecchio che guarda uno specchio. È indispensabile infrangere il dominio della parola: però si lotta contro le parole con le parole.
Aristotele nel Protrepticon lo aveva detto: per contestare la filosofia è indispensabile la filosofia. Ed io soggiungo: per vincere, la parola è necessaria la parola. Se la parola è il logos, la parola afferma la sua tirannia, tirannia dogmatica che richiama ad altro da sé: in una definizione costrittiva, o, più correttamente, creativa. La parola crea; ma che cosa crea? Cose o parole?
Se la parola è il « logos », la parola è una sola; ma se è una sola non è una parola. L’edicola continua, malgrado tutto, ad essere una « costruzione » a forma di garitta e la garitta, imperterrita, si ostina ad essere una costruzione a forma di edicola. I termini, le parole, debbono sempre essere almeno due. Un’edicola che guarda la garitta e und garitta che si specchia in una edicola. Fra queste due parole rimbalza la parola « costruzione », ed allora o rimbalza all’infinito o diviene « realizzazione di un complesso funzionale, mediante appositi elementi ordinatamente disposti, uniti, collegati ». Continuiamo a girare le pagine del dizionario della lingua italiana e andiamo alla ricerca di come viene definita la « realizzazione »: « traduzione in effetto di quanto costituisce un desiderio o di quanto è destinato ad una attuazione concreta ». La parola perno, questa volta, è « desiderio ». Mi viene però il sospetto che l’espressione « realizzazione », quando era inserita nella frase che tentava di definire la « costruzione », esprimesse qualcosa che non era poi definito quando si affrontava proprio la definizione della parola « realizzazione ». Oppure il termine « costruzione » si- specchia in quello di « realizzazione » e viceversa ed entrambi rimandano a « desiderio » che diventa a sua volta: « sentimento di ricerca appassionata o di attesa del possesso, del compimento o dell’attuazione di quanto è sentito confacente alle proprie esigenze o ai propri gusti ». La « realizzazione » si specchia nel « desiderio », il « desiderio » nella realizzazione: in comune abbiamo l’« attuazione ». Potremmo andare all’infinito o forse dovremmo agganciarci ad una parola che non sia una parola.
La parola quindi nega se stessa, tende ad altro da sé; ma quell’altro da sé è pur sempre una parola. È indispensabile un dio, quindi, il « logos », per porre la prima parola, che si autoponga ed abbia una forza creatrice; creatrice di altro da sé? Ma l’altro da sé è di nuovo una parola, un altro « logos » creatore! La parola gioca con se stessa, ruba i raggi del sole sperando di dominarlo; ma il sole è la stessa attorno alla quale gravita il sistema di cui fa parte la Terra e che costituisce per questa l’essenziale fonte di energia e quindi di vita »; e che cosa è la stella? « astro dotato di luce propria perché costituito di materia incanscente », e che cosa è un astro? « qualunque corpo della sfera celeste, sole, luna, stelle, pianeti, pianetini ». Ed ecco il sole che prima era una stella e adesso sembra essere qualcosa di diverso, e le stelle e il sole hanno la loro presenza incomprensibile ma luminosa; il sole è una stella, la stella è un astro, gli astri sono stelle che talvolta sono anche il sole.
Ma quando sono il sole? Il gioco degli specchi continua.
Un concetto che, come abbiamo visto, non è altro che una parola funzionalmente privilegiata; può essere osservato sotto due punti di vista fondamentali. Il primo è quello per mezzo del quale si fa la storia del concetto, si va alla ricerca di quando la prima volta quella parola- concetto sia comparsa; quanti significati abbia acquistato, che peso abbia avuto e quando abbia assunto il suo significato più pregnante e chiaro.
Il secondo punto di vista è quello per cui la parola-concetto viene isolata, analizzata, osservata, e se ne tenta una definizione organica e comprensibile. Sotto tutti e due gli aspetti si attua una ricerca: ricerca per capire e per orientarsi.
Nessuno va alla ricerca della ricerca. Tutti cercano qualcosa che va oltre la ricerca. Io so che cosa cerco? Forse, se lo sapessi, non lo cercherei più, o meglio, non avrei più interesse nel cercarlo: è il discorso degli antichi sofisti; valido ancora perché nessuno è stato in grado di sostituirlo. Quando invece si dice che la ricerca spesso non è altro che desiderio della ricerca si vuol dire in realtà esattamente l’opposto. Nella frase: « la ricerca non è altro che il desiderio della ricerca » la parola « ricerca » viene usata con due significati diversi. La prima volta si dice « ricerca » intendo la ricerca come tale, cioè come « attività avente come fine un ritrovamento »; poi nell’espressione « è desiderio della ricerca » si tenta di affermare che la ricerca tende ad esaurirsi in se stessa; in realtà la seconda volta il termine « ricerca» nasconde un desiderio che non è mai desiderio della ricerca, ma è la ricerca che è un’attività desiderante; desiderante un desiderio inespresso, forse inesprimibile, La vita è tutta una ricerca come è tutta una attesa; ma se pure io aspetto Godot, Godot è qualcosa di diverso dall’attesa. Godot è anche un mio sogno, un padre buono, una vagina calda, -una tavoletta di cioccolato.
Ho in mente il termine « psicoanalisi » o forse anche, più correttamente « psicologia dinamica » e vorrei tentare di chiarire alcuni aspetti di questo concetto. Penso che ormai sia lezioso e frivolo perdere troppo tempo per chiarire che la « psicologia dinamica » è il tutto e la « psicoanalisi » è una parte. Ormai la teoria e la tecnica freudiane che si dovrebbero chiamare « psicoanalisi » sono diventate sinonimo del tutto. Perciò con poco rigore filologico io interscambierò i due segnali. Adesso perciò mi chiedo che cosa è la psicoanalisi o, se preferiamo, la psicologia dinamica. Per seguire lungo la storia l’affermarsi e l’evolversi di un concetto è indispensabile conoscerne in modo adeguato la struttura; però, per acquistarne una conoscenza sufficiente è necessario ripercorrerne l’evoluzione storica. Evidentemente, è una difficoltà senza soluzione. Accetterò quindi di usare un concetto, fin da subito, ambiguo ed impreciso, che, proprio per questo suo peccato di origine, anche alla fine del discorso, rimarrà ambiguo ed impreciso.
Perché la psicoanalisi è sorta alla fine dell’Ottocento? È persino troppo facile trovare nella cultura europea a cavallo dei due secoli elementi che ne favoriscono il sorgere e lo sviluppo. Nietzsche e Webern, il secessionismo e l’inquietudine angosciosa che preparerà la prima guerra mondiale, sono elementi di un’epoca che è facile accordare con i fondamentali concetti della psicoanalisi. Nietzsche vuole sovvertire i valori della borghesia cristiana per creare un super-uomo amorale ed ideale: un essere libero, soddisfatto e padrone dei propri istinti. Però l’uomo Nietzsche un giorno, a Torino, abbraccia un cavallo frustato dal padrone e la sua volontà di potenza si smarrisce in un ospedale psichiatrico.
Webern abbatte gli ultimi residui di un’armonia ormai contraddittoria, ma presente ed avvolgente. Costruisce brevi composizioni musicali, apparentemente arbitrarie, ma in realtà logiche e conseguenziali, proprio come i sogni, e da queste non arriverà più ad uscire se non con il suicidio.
Lo stesso secessionismo, che costruisce cancellate iperboliche ed esterrefatti palazzi allucinati, pare voglia scavare in lati oscuri e misteriosi della psiche. Mentre tutta l’epoca, intanto, tenta di rimuovere, con un massiccio gesto nevrotico, enormi tensioni e conflitti. La « belle époque » di alcuni copre sfruttamento, rabbia e rassegnazione di tantissimi altri. La prima guerra mondiale è assurda, ma inevitabile come un’esplosione psicotica. La psicoanalisi sembra accordarsi pienamente con tutto questo. Eppure, stranamente, la psicoanalisi, con poche variazioni, si trova accordata con qualunque epoca della storia occidentale. Sarebbe stata Pienamente in accordo con l’epoca barocca, con il capovolgimento dei cieli operato da Copernico e Galilei, come pure con le sinuose e fantastiche immaginazioni manieristiche. Pensiamo, inoltre, alla pittura caravaggesca: su sfondi densi e oscuri come l’inconscio, una imprevedibile luce illumina, esasperandoli, pochi elementi: nell’oscurità può esserci qualunque cosa. Oppure alla pittura fiamminga: minuziose ricostruzioni di scene e ambienti borghesi, in cui il realismo improvvisamente si infrange contro gesti e corpi esasperati, sensuali e brutti: equivoci come il desiderio. Potrei ancora descrivere i roghi per le streghe, i sontuosi riti cattolici, il razionalismo inquieto di Borromini e la sfuggente sensualità di Rameau. Dopo tutto questo, il terreno per la psicoanalisi sembrerebbe pronto, anzi, ci si potrebbe chiedere: ma perché non c’è la psicoanalisi? Se ci spostiamo nel secolo d’oro di Atene e di tutta la Grecia, non possiamo credere che, senza consapevolezza, l’arte e la filosofia potessero giocare con tanta precisione con
Narciso e con Edipo. E pensiamo ancora al Partenone variopinto e coerente come un sogno interpretato. Intanto Platone raccontava di un vecchio, brutto ed affascinante, che, usando le parole, aveva inventato una tecnica per far ricordare e, attraverso Eros, raggiungere la verità perduta. Ma questo vecchio è uno scienziato inquietante che, forse, non crede nella sua scienza e finge di essere contento di morire., come fingono di esserlo i cigni sacri ad Apollo. Anche qui: è un’imperdonabile scorrettezza, da parte dei Greci, non aver inventato la psicoanalisi.
La psicoanalisi è perciò coerente con l’epoca in cui è sorta; ma si armonizza benissimo con molte altre situazioni storiche. Vi sono indubbiamente parecchie ragioni per cui la psicoanalisi doveva sorgere proprio tra l’Ottocento e il Novecento; sono ragioni però, secondo me, assai meno isolabili ed evidenziabili di quelle che hanno contribuito alla comparsa di altri fenomeni culturali.
E’ arrivato il momento, adesso, in cui debbo cercare di abbozzare una risposta alla domanda che mi ero posto più sopra: che cosa è la psicoanalisi? Potrei rispondere che la psicoanalisi è una filosofia, ‘Che ha una sua visione del mondo e dell’uomo; potrei anche dire, però, che è una particolare branca della scienza psicologica, con una sua tecnica terapeutica. Sarebbe anche possibile intrecciare i due concetti e dire che: è una tecnica terapeutica che si fonda su una filosofia; oppure che è una filosofia fornita di una tecnica Psicoterapeutica. Ma esistono filosofie che non siano psicoterapie?
Quest’ ultima domanda mi è sfuggita; potrei cancellarla, ma non voglio. Per il momento, rimanga lì, come domanda.
Non si riesce mai a costruire discorsi unidirezionali• è indispensabile esserne consapevoli: ogni discorso è anche, sempre, la castrazione di altri discorsi. Rimanga quella domanda come memoria di tutti i discorsi che si sarebbero dovuti fare a questo punto; ma che non sono stato in grado di esprimere.
Proviamoci ancora a precisare la risposta alla domanda principale: ho detto che la psicanalisi è una particolare filosofia ed una particolare tecnica terapeutica: che cosa si annida dietro il termine particolare? Si annida l’inconscio.
Ciò che, secondo me, caratterizza la psicoanalisi è una contraddizione originaria: la consapevolezza dell’inConscio. La Psicologia dinamica non ha inventato l’inconscio, ha tentato di parlarne, ha tentato di usarlo e lo ha, quindi, strumentalizzato. Le prime teorie psicoanalitiche hanno sovrapposto ontogenesi e filogenesi, affermando che l’evoluzione psichica di ogni essere umano ripercorre le tappe dello sviluppo psichico della specie: tesi ingegnosa, ma semplicistica. Se l’inconscio esiste, esiste da sempre, o, meglio, esiste da un sempre che è sempre per noi, il sempre che ci interessa. Ripeto, quindi; che la psicoanalisi è caratterizzata dall’importanza data all’incoscio. È profondamente scorretto dire che la psicoanalisi abbia scoperto l’inconscio; è meglio ripetere, a mio avviso, la contraddittoria affermazione di prima: la psicoanalisi ha tentato di rendere conscio l’inconscio.
La realtà dell’inconscio, però, è sempre stata presente. L’inconscio è come il sole: visibile e manifesto, ma doloroso a guardarsi e anche pericoloso. L’inconscio, consapevolmente scoperto, come una ferita dolente e nuda, nell’epoca barocca; impudicamente scoperto nell’antichità classica, è stato sempre più pericoloso che ignoto.
Prima, quando ho sinteticamente schizzato le caratteristiche dell’ePoca in cui è sorta la psicoanalisi, ho detto le solite cose. Così solite che rischiano di essere stupide. Ho detto che, nell’epoca inquieta della follia di Nietzsche e delle angosce sotterranee che prepareranno la guerra, la psicoanalisi sorge come esigenza di chiarire questa follia e queste angosce: osservazione non scorretta, ma sempliciotta. Non vorrei che si potesse pensare che, secondo me, la psicoanalisi sorge in un momento di esaltazione della spontaneità e dei sogni, come un aspetto di questa esaltazione.
Uno dei primi testi fondamentali della psicoanalisi parla sì dei sogni„ infatti; ma con il titolo: « Die traumdeutung iiber den traum »: « L’interpretazione dei sogni », 1899. È un geniale tentativo non di esaltare la fantasiosa e libera poeticità del pensiero notturno, ma di esprimere la positivistica esigenza di razionalizzare l’irrazionale, affermando che anche il sogno è controllabile dalla scienza. Questo è il tentativo consapevole: per fortuna lo scienziato dei sogni ha una ricchezza interiore insospettabile e, nonostante il puerile e splendido capitolo settimo, l’inconscio si ribella al suo tiranno costringendolo a parlare della interminabilità della analisi: se l’analisi è interminabile l’inconscio avrà sempre la possibilità di sfuggirle.
Nel momento in cui scrivo, in una grande piazza vicino alla mia casa stanno urlando dei manifestanti. Arriva fin qui il ritmo degli slogan che però mi rimangono incomprensibili. Mi mette un po’ a disagio accorgermi di aver assunto un atteggiamento di neutralità: attorno a me i miei mobili carichi di passato e i miei libri, strumenti del mio potere e del mio privilegio. Quegli slogan inintelliggibili poterebbero essere espressione di qualunque tendenza politica. Io, qui, con la paura e il piacere di non potermi coinvolgere, quegli altri, là, urlanti. Troppo banale dire: « ecco le processioni del nostro tempo che, nella città del papa, hanno sostituito quelle dei preti e dei cristiani ». Tanti inconsci con tante motivazioni. Un rituale, dei ritmi, un’emotività, alcuni esorcismi: ho paura, voglio interpretare. Adesso, forse, mi è chiaro perché è sorta la psicoanalisi: è sorta per dominare la paura dell’inconscio.
Il meccanismo della psicoanalisi si radica, quindi, nell’atteggiamento ossessivo della scienza positivistica del tardo Ottocento, per cui nulla deve sfuggire al controllo della ragione umana. Se alcuni decenni prima Auguste Comte, ex ricoverato psichiatrico, controllava la sua paura dell’inconscio affermando che la psicologia non era mai stata una scienza, la psicoanalisi afferma che la psicologia è la scienza prima; come la teologia aristotelica, perché studia l’essere primo: non più dio ma uomo. Il meccanismo coatto della scienza è quello di coprire con il suo controllo tutta la realtà. Oggi, la scienza si è resa conto che la realtà non è stabile, ma si costruisce con gli strumenti stessi che la controllano. Se cambiano gli strumenti, non mutiamo soltanto il modo di intervenire sul reale, creiamo anche un altro reale. E, se il complesso dei bisogni, nel suo mutare, forma nuove esigenze e quindi una nuova realtà, sorge il bisogno di nuovi strumenti scientifici per cogliere la nuova situazione che si è venuta formando. Parallelamente, però, i nuovi strumenti contribuiscono a formare una nuova realtà, e così via.
Uno strumento scientifico fa parte del complesso dei bisogni ed è quindi utile, ma superabile, come tutti bisogni. Soltanto il desiderio, nel nostro sempre, è un bisogno che non verrà mai meno. Ecco che sempre e mai si sono incontrati. Perciò debbo dire che anche questo mai è il nostro mai.
Tutte le complesse ragioni che hanno fatto sì che, proprio in quell’epoca, la scienza divenisse così ossessiva, tanto da voler controllare anche l’inconscio, non sono facili da esporre. La storia della scienza e la storia della cultura ci hanno dato alcune indicazioni che, a mio parere, sono, però, insufficienti. La storia è sempre soltanto una narrazione, una favola, un teatro.
Dovrei, ora tentare di definire la psicoanalisi in se stessa. Oggi la psicologia dinamica è un tutto, articolato ma organico, e mi è impossibile, qui, analizzare e confrontare le varie correnti.
La psicoanalisi è, soprattutto, presente. È presente nelle ricerche psicologiche, nelle analisi sociali, nei romanzi e nei film e viene pure usata, talvolta, per interpretare avvenimenti clamorosi: delitti, per lo più, moda e spettacolo. Si chiede sempre il parere dello psicoanalista e lo psicoanalista dà il suo parere su tutto. La sùa presenza è comoda e scomoda allo stesso tempo.
La psicoanalisi è sorta come difesa dall’inconscio e si radica nei bisogni dell’inconscio. La più grossa difesa della psicoanalisi è, quindi, la psicoanalisi stessa. Io penso che vivere voglia sempre dire, anche, difendersi. Se la nostra psiche non si difendesse, anche, sempre, verrebbe distrutta. Difendersi vuol dire; però, anche, scegliere, non soltanto fuggire o soltanto aggredire. Fuga e aggressione sono sì due meccanismi difensivi tipici; ma la psiche riesce a metterne in atto moltissimi altri: la pseudo-fuga della negazione, per esempio; e poi che l’adesione e l’accettazione possono essere meccanismi di difesa: si potrebbe dire che io accetto questo per fuggire da quell’altro.
La coscienza serve soltanto in piccolissima parte ad orientarci nel mondo: secondo me, la coscienza è sorta soprattutto come meccanismo di difesa utile a schermare l’inconscio. Quando, seduto sul mio seggiolone, accarezzando con voluttà ed amore i riccioli di legno dei braccioli, ascolto le persone che mi stanno parlando durante il « nostro » lavoro analitico, si disegna nella mia mente una strana figura, immagino due linee che si snodano parallelamente: la prima è più nitida, distinta e sottile, ed è composta dalle frasi che la persona al mio fianco sta dicendo; l’altra è più densa ed intricata, vorrei dire confusa, e rappresenta i discorsi inconsci che il mio orecchio, allenato, percepisce continuamente. È come ascoltare una composizione contrappuntistica a due voci. Un contrappunto un po’ bizzarro perché la seconda voce, quella inconscia, è composta da una miriade di altre voci, che formano un insieme più complesso del più complesso contrappunto fiammingo.
La coscienza continua a voler fuggire, a difendersi per sopravvivere. Due sono, come ho detto, i modi tipici di difesa: la fuga (in tutte le sue varianti) e le aggressioni. Scoprire la psicoanalisi è stato il più astuto tentativo escogitato dalla mente umana di difendersi dalla psicoanalisi. Ci si potrebbe chiedere: ma come è stato possibile volersi difendere dalla psicoanalisi quando la psicoanalisi non esisteva?
Mi pare di aver già detto che non solo l’inconscio è sempre esistito, ma che sono sempre esistite anche situazioni quasi-psicoanalitiche. Perciò, nel momento in cui la nuova fisica tentava di re-interpretare la struttura della materia, il bisogno di sistematizzare il rapporto con i nostri desideri inconsci divenne impellente. Allora l’inconscio, costrinse la cultura ad inventare la psicoanalisi; potrei anche dire, però, che la nostra cultura si difese dall’inconscio inventando, allora, la psicoanalisi.
Una situazione di questo genere può succedere anche alla persona singola. Talvolta ci si butta nell’analisi per la gran paura che se ne ha. Vi è una forma nevrotica per cui il conflitto interno, paura e desiderio di scoprire il desiderio, si manifesta con il sintomo di un bisogno coatto di psicoanalisi. Allora si comprano montagne di libri di psicoanalisi, si frequentano tutti i seminari di psicoanalisi della città, si parla continuamente di psicoanalisi, •si vede tutto sotto la luce psicoanalitica. Quando, superata l’ultima resistenza, viene iniziato un rapporto terapeutico, le difese non sono per nulla abbattute, anzi, a quel punto, si sta sfidando direttamente la psicoanalisi. I rituali vengono tutti ossessivamente rigettati, ma un rapido sguardo di sfida scagliato sullo psicoanalista è più significativo di tutte le negazioni. Eppure anche questo è psicoanalisi.
La psicoanalisi è realmente un pericolo. Molte persone hanno iniziato un rapporto terapeutico quasi per gioco e vi si sono trovati immischiati. In fondo, molte delle accuse alla psicoanalisi sono giuste.
Ho detto che la psicoanalisi è sorta come difesa dall’inconscio, eppure l’inconscio c’è sempre stato, ed è sempre stato un po’ conscio. La coscienza è anche stata sempre un po’ inconscia. Il Preconscio è una stupidaggine. L’inconscio non è delimita- bile, neppure la coscienza. sono due condizioni psichiche nettamente distinte. La filosofia e la psicologia del passato hanno distinto soggetto da oggetto per scaraventare le esigenge e le paure inconsce nell’oggetto: l’altro da noi, amico, nemico, amante, albero, tazza.
L’altro da noi è l’oggetto, si diceva, a cui si contrappone un soggetto. Poi si continuava: il soggetto conosce l’oggetto, il soggetto è il conoscente, l’oggetto il conosciuto; ma non si conosceranno mai tutti gli oggetti. In questo mai risiedeva l’inconscio.
La distinzione tra « soggetto » ed « oggetto » ha fatto il suo tempo. Per me, la distinzione più corretta è quella « conscio »-« inconscio », e l’energia è data dal desiderio. Senza questa tensione dialettica la vita psichica sarebbe incomprensibile. Può darsi che, un giorno, si porranno altre distinzioni, oppure si raggiungerà l’estasi mistica in un nirvana indistinto. Oggi dobbiamo vivere la nostra schizofrenia: conscio ed inconscio.
Ritorna il discorso dello specchio. Molte persone mi hanno raccontato che amavano guardarsi a lungo nello specchio; che da bambini si ammiravano, si esibivano, che talvolta baciavano la loro immagine riflessa: cosciente non era che il freddo contatto con il vetro. L’occhio di chi si guarda nello specchio diviene specchio e via così… Altre persone mi raccontano che si trovano a disagio davanti ad uno specchio, distolgono lo sguardo perfino quando si vedono riflesse nel cristallo di una vetrina di negozio. Consapevole è soltanto quel gesto di diniego; ma è consapevole come il gesto di un attore: perché fuggi la tua immagine? Avevo, e forse ho, un amico che, quando mi sente parlare di psicoanalisi deve allontanarsi da me. Non protesta, non mi aggredisce, si allontana con discrezione. Ha i capelli lunghissimi, un tempo scriveva molto bene;” -adesso non lo so, eppure so che qualche volta mi ha ascoltato. Poi un giorno gli venne il terrore di morire di infarto; mi chiese aiuto ed io stetti ad ascoltare, non dissi nulla. Sono convinto di sapere quale sia la causa inconscia di quella sua fobia; però, anche se mi chiedesse di rivelargliela, commetterei la violenza di rifiutarmi. Perché, non lo so. Mi sono detto che non voglio saperlo: è la stessa cosa. Ho paura che per lui sarebbe una spiegazione banale. Però io so che la psicoanalisi non sta in quella spiegazione.
Io sono un « maestro » di psicoanalisi. Ho usato il termine di « maestro » e non quello di « psicoanalista didatta » perché l’espressione « maestro » condensa in sé due significati per me essenziali. Il maestro è una figura carismatica, strana e scomoda, ed io questo vorrei essere. Maestro è però anche l’antico mastro artigiano che insegna all’apprendista la propria tecnica, attraverso un rapporto diretto, manuale, ed affettivo. Il maestro è un eroe-artigiano. Io vorrei essere l’uno e l’altro; anche se ho paura di essere sia l’uno che l’altro. t difficile essere un eroe, ma è ancor più difficile essere un artigiano.
Nel mio lavoro di eroe-artigiano dico e faccio molte cose. Non so quali siano le più importanti. Un’affermazione che ripeto spesso e che, forse, ritengo quindi importante, è questa: « chi fa lo psicoanalista dovrebbe rifiutarsi di interpretare. Io cerco di impedire ai miei allievi di usare la parola interpretazione. Quando uno psicoanalista racconta un suo « caso » e dice: « allora gli ho dato quest’interpretazione… » io mi sento a disagio. Mi disgusta vedere la ricchezza delle situazioni esistenziali di una persona ingabbiata e castrata in una frase che la interpreta. Eppure, anch’io nel mio lavoro do le interpretazioni. Non vorrei che, però, fosse soltanto il termine a farmi paura; spero che l’insofferenza per la parola possa anche voler dire qualcosa di più.
Gli psiconalisti più sono narcisisti e stupidi e più usano l’espressione: gli ho interpretato… ». Per queste persone interpretare vuol dire analizzare. Anche se l’interpretazione, da un punto di vista tecnico, è corretta, snatura il lavoro analitico, quando è calata dall’alto, come una giaculatoria o uno slogan. Può anche darsi che il « paziente » la sappia usare a suo vantaggio, arricchendo il proprio lavorio psichico; però questo non è molto importante ai fini del discorso che sto facendo.
Quello che adesso voglio affermare è che la consapevolezza raggiunta nell’analisi è dovuta solo in parte alle frasi dette dallo psicoanalista. Allora: l’analisi è sempre autoanalisi? Io penso di no. Io credo che la psicoanalisi si realizzi soltanto attraverso un rapporto con un’altra persona.
Ho visto pochissime persone raggiungere risultati attraverso l’autoanalisi. Per lo più (non voglio assolutizzare), colui che si è autoanalizzato non ha fatto altro che ‘rafforzare le proprie difese narcisistiche, ed è diventato incapace di ascoltare, non solo gli altri, ma anche se stesso: parla e non pensa; le parole gli si intrecciano dentro, esplodono e muoiono come involucri rinsecchiti.
L’auto-analisi, come ho detto, è pericolosa perché rischia di imprigionare colui che si sta auto-analizzando in una gabbia di parole, dandogli una sicurezza apparente e riducendo la sua disponibilità a mettersi in discussione davvero.
Mi sta venendo in mente un altro pensiero: forse l’auto-analisi è impossibile.
Io credo che l’essere umano sia costitutivamente programmato per la relazione con l’altro. Vivere vuol dire progettare, cioè dirigersi verso qualcosa che fa parte di noi, pur senza essere noi. L’auto-analisi, come relazione conoscitiva dell’io con l’io, non sarebbe altro che la più radicale delle situazioni di chiusura narcisistica. Io penso, però, che il narcisismo assoluto sia un’astrazione. Il narcisismo è un meccanismo di difesa, conseguenza di un’esperienza dolorosa di relazione.
L’auto-analisi è, quindi, frutto della paura del rapporto, in questo caso, del rapporto analitico. Allora si sceglie uno psicoanalista fantasma; o meglio: tanti psicoanalisti docili e accondiscendenti. Allora ci si appoggia ai libri od a brandelli di frasi sentite.
Ecco, però, che l’altro continua ad essere presente, anche se tentiamo di negarlo: la chiusura assoluta è impossibile. Quando si sceglie come analista il proprio io, gli strumenti che il nostro « io-analista » usa per comprendere il nostro « io-analizzato », non sono creazioni dell’io• sono pensieri e parole imparati nei dialoghi e nei contatti con gli altri.
Essere o pensare in una situazione di assoluta autarchia psichica è, come ho detto, di fatto, impossibile; però l’io potrebbe desiderare di trovarsi in questa situazione. Secondo me, questo è un desiderio estremamente pericoloso, perché produce un atteggiamento psichico che può costituire la più brutale e violenta delle scelte, anche se è una scelta impossibile.
Per un altro verso, però, l’auto-analisi è indispensabile, tanto che ogni buon rapporto psicoanalitico deve essere anche e sempre un’auto-analisi.
Bisogna stare continuamente all’erta per cercare di capire se il nostro auto-analizzarci è un tentativo violento di escludere gli altri dai nostri pensieri, oppure è invece un valido desiderio di conoscere noi stessi, usando anche le nostre forze. Paura e desiderio dell’altro costituiscono ogni comportamento umano.
Nessuno vuole soffrire: neppure il masochista. La scelta non è mai la sofferenza. La sofferenza è una scelta impossibile: scegliere di vivere escludendo il rapporto con l’altro da me e scegliere la sofferenza sono le due scelte impossibili. Vi sono state ideologie, gruppi sociali e singoli individui che hanno tentato di esaltare queste scelte. In realtà, l’esaltazione della chiusura in se stessi e della sofferenza è stata usata per raggiungere altri scopi.
Tutto ciò che diciamo ha, sempre, almeno due significati: ovviamente anche quello che sto dicendo io adesso. Adesso che sto parlando di queste due scelte impossibili, sono consapevole anche del fatto che io voglio che siano impossibili, perché ho troppa paura del mio delirio di onnipotenza, che distrugge gli altri; ed ho troppa paura della sofferenza, presenza possibile in ogni istante della mia vita. Ma, se ne ho così paura, ne ho anche desiderio: e allora? Per fortuna, io sono io: mi sono alzato da poco, ho suonato il pianoforte; questa notte ho sognato di far l’amore, o forse di parlare, con molte persone. Io non sono atto puro; pensiero pensante se stesso. E allora? Che significato ha, a questo punto, avere raccontato quello che mi sento addosso in una mattina di novembre?
Vuol dire che: io sono io; con le mie paure e i miei desideri, di cui, però, non voglio essere soltanto prigioniero. Pur se io ho le mie paure e i miei desideri, non per questo debbo rinunciare ad esprimere opinioni che vadano oltre le mie sensazioni personali. Ripeto perciò: esistono scelte impossibili.
Torno, ora, a parlare più propriamente di psicoanalisi. Ho detto che la psicoanalisi consiste in un lavoro fatto, da almeno due persone, in un tentativo comune di orientarsi nel cumulo di bisogni e di desideri che costituisce l’esistenza umana. Bisogni e desideri che, per la maggior parte, sono inconsci. L’inconscio e costituito da tutto ciò che, in qualche modo, e per qualche ragione, la nostra esistenza tenta di allontanare da sé.
L’inconscio è il rimosso. Il meccanismo di rimozione è quel meccanismo di difesa che ci permette di sopravvivere. Se tutti i nostri bisogni, tutti i nostri desideri, e tutte le nostre esperienze, fossero sempre presenti, ci disperderemmo in una miriade di rivoli che si inaridirebbero presto. Rimuovere non vuol dire, necessariamente: rifiutare. La rimozione è un meccanismo profondamente vitale. t vitale, però, anche darsi da fare per non essere tirannicamente assogettati dalla rimozione.
Sfuggire alla tirannide della rimozione vuol dire scoprirne i meccanismi e scontrarsi con molti desideri e pensieri nascosti. Io penso a questo e non a quell’altro, io ricordo questo e non quell’altro, io ho rimosso questo e non quell’altro, non certo per libera scelta. Le mie paure non sono soltanto mie, i miei desideri non sono soltanto miei. Io vivo in una società che tenta di farmi vivere le sue paure e i suoi desideri. E impossibile non educare. Quando un bambino viene al mondo, ancor prima: nel ventre materno; ancor prima: nella psiche di coloro che sono nati prima di lui, egli è, sempre, in qualche modo, educato. Una madre mi diceva: « un giorno mio figlio mi domandò: — mamma, perché mi guardi con quegli occhi? — capii allora che con gli occhi mandavo un messaggio che, forse, non volevo mandare. Cercai allora di guardare altrove, e mio figlio, angosciato mi domandò: — Mamma, perché non mi guardi più? ».
Il rimosso è quindi costituito anche da ciò che l’educazione ci costringe a rimuovere. Tutto ciò che è rimosso ha la stessa energia vitale di quello che è presente alla coscienza. Il rimosso non è il dimenticato. Il rimosso è ciò che ha un tipo di presenza diversa dalla presenza di ciò che noi chiamiamo cosciente; ma non è meno presente. Non solo: gli altri si nascondono a noi; con un gioco sessuale e persecutorio, che vive di una infinita quantità di persecuzioni. Chi non ha avuto, qualche volta, entrando in una stanza deserta, l’impressione che ci fosse qualcuno? Chi non si è mai sentito inseguito in una strada deserta? Spesso i nostri amori allontanati ritornano come persecutori, oppure i persecutori si trasformano in amanti appassionati.
È impossibile liberarsi dal gioco degli specchi. Ogni parola è prigioniera di altre parole, senza le altre non sarebbe comprensibile, ma a sua volta serve a spiegare le parole che la spiegano; questo vale anche per i gesti. Gli specchi non sono soltanto due: sono tre, quattro, cinque, tanti. I barbieri di un tempo lavoravano tra, due specchi. Io ero bambino e avevo paura del barbiere.
La storia è questa: avevo cinque anni e mio padre e mia madre un giorno mi dissero: « vieni con noi da un signore; poi ti faremo un bel regalo ». Accettai di andare da quel signore. Ricordo una vecchia casa liberty di Torino; la balaustra delle scale era di ferro battuto, fantastica. Quel signore era alto e grosso e aveva un camice bianco. Al suo fianco c’era una donna, più piccola, biancastra anche lei. Mio padre e mia madre, vilmente, fuggirono. Quel signore mi porse un ampio grembiule di gomma, dicendomi: « quando io lavo i piatti me lo metto sempre ». E veramente triste che i cosiddetti adulti considerino sempre imbecilli i bambini. Probabilmente, io trovai completamente insensato mettermi a lavare i piatti in casa di quel signore. Mi sentii abbandonato e disperato. La piccola strega biancastra mi attanagliò con braccia vigorose, mi fecero aprire la bocca e vi introdussero un aggeggio di metallo che mi impedì di richiuderla. Il mostro mi si avvicinò. Io ero seduto in braccio alla strega e lui, seduto di fronte a me, estrasse orribili strumenti di tortura. Mi infilò in bocca e in gola oggetti taglienti di acciaio. Forse sentii molto male; non lo ricordo più. Ricordo invece uno spruzzo di sangue. Ricordo il mio dibattermi e le braccia tenaci della strega. Poi mi regalarono una montagna di gelati e tutta una attrezzatura per giocare al « venditore ». Non fu altro che un’asportazione di tonsille ed adenoidi, fatta senza anestesia. Da allora io ebbi paura dei barbieri; troppo simili a quel signore. I barbieri, come ho detto, spesso lavorano in mezzo a due specchi: uno di fronte e uno alle spalle, hanno il camice bianco, usano strumenti di acciaio. Le immagini fuggono e rimbalzano: paura e fascino per quella esperienza antica, per i barbieri, per i loro specchi. Tutto si mescola: parlare e muoversi è come essere prigioniero tra due specchi, tra le mani di un mostro e di una strega.
Quando ero piccolo, un barbiere, mentre, terribilmente, usava la lama sulla mia testa, mi parlava dolcemente e premeva il suo genitale eretto contro la mia mano appoggiata sul bracciolo della poltrona. Contatto piacevole e splendido: ecco che parlare e muoversi non è soltanto terribile, può anche essere estremamente piacevole. Forse ho fatto lo psicoanalista per ritrovare quelle sensazioni e quelle parole. Specchi contro specchi. Parole contro parole. Gesti contro gesti.
Non vi è un’unica teoria psicoanalitica; vi sono ipotesi diverse. Eppure, quasi tutte ottengono risultati. Perché?
Si dice che la psicoanalisi non sia scientifica perché ogni psicoanalista interpreta in modo diverso sintomi e sogni. Si dice, anche, che i parametri di giudizio siano arbitrari e che ogni analisi segua principi imponderabili, non quantificabili.
Vorrei, a questo, proposito, fare due ordini di considerazioni. Le considerazioni del primo ordine si riferiscono alle terapie cosiddette «scientifiche » e oggettive, per esempio: la medicina tradizionale. Basandomi su osservazioni statistiche che adesso mi sembra inopportuno riferire in dettaglio (chiedo, però, a chi legge, di fidarsi) pochissimi sono i sintomi di malattie organiche (appena un po’ complessi) diagnosticati in modo univoco da medici diversi. Gli stessi sintomi, anche dopo analisi di laboratorio, sono letti in modo assai diverso ed attribuiti a situazioni patogene diversissime fra di loro. t persino più frequente trovare d’accordo fra di loro degli psicoanalisti, anche se di scuole diverse, quando si tratti di diagnosticare un rituale ossessivo o di leggere un simbolo onirico.
Anche dal punto di vista del risultato terapeutico, la modificazione o la scomparsa dei sintomi, non è statisticamente più frequente in una terapia farmacologica, condotta da un terapeuta organicista, di quanto avvenga nella più trasognata terapia psícoanalitica. Non parliamo poi di interventi terapeutici condotti secondo tecniche comportamentistiche: per lo più si ha, in questi casi, una trasformazione del sintomo.
Per quanto sopra, dal punto di vista oggettivo e quantizzabile, le terapie ispirantesi ai principi della psicologia dinamica, non ottengono risultati inferiori a quelli ottenuti con le più oggettive e metodiche tecniche terapeutiche. Può darsi che questo dipenda dal fatto che ogni tecnica, attualmente, sia ancora in mano allo spontaneismo della stregoneria.
Le considerazioni relative all’altro ordine di pensieri sono queste: il fatto che siano impossibili due terapie psicoanalitiche identiche sta a dimostrare, soltanto, che la terapia psicoanalitica è fatta con e per esseri umani. Bisognerebbe esaltare l’unicità di ogni rapporto terapeutico.
E’ estremamente difficile capire che cosa sia la guarigione. Nella mia esperienza posso affermare, però, di non aver mai impostato un lavoro psicoanalitico che sia rimasto senza effetti, anche se, dopo tanti anni, ribadisco, non so ancora dire che cosa voglia dire: guarire. Mi rifiuto però di credere che guarire, dal punto di vista psichico, voglia dire rimbecillire l’essere umano, rendendolo serenamente e ipocritamente inserito in una società angosciata e schizofrenica.
Equivoco è il risultato di ogni terapia psicoanalitica, perché equivoca è la situazione esistenziale dell’uomo nel mondo.
Alcune sono le parole dette, scelte tra migliaia. Alcuni sono i gesti compiuti, scelti tra migliaia. Infinite parole e infiniti gesti rimangono non dette ed inespressi. Ogni psicoanalisi è un’avventura attraverso parole e gesti. Il « non detto » e « non fatto » sarà sempre il « di più ». La meta raggiunta è instabile.
Si è partiti da un punto e si è arrivati ad un altro. È importante non aver percorso una circonferenza. Può anche darsi che qualcuno dica che si percorrono, sempre e soltanto, circonferenze. Io non credo in questo.
Io credo,anche; nell’esperienza. Esperienza che non si radica su esperimenti oggettivi; ma sui bisogni e sui desideri; quelli che, oggi, abbiamo ereditato da milioni di persone, di parole e di gesti esistiti prima di « adesso ». « Adesso » e « ora » pesano e si preparano a divenire passato.
Ho paura del non detto, ho paura del non agito; eppure debbo scegliere poche parole e pochi gesti.
La psicoanalisi non è soltanto fantasia; è anche consapevolezza, sessualità, azione, lotta.
Molti sintomi fanno soffrire. Questi sintomi sono come i padroni: bisogna abbatterli.
Non bisogna aver paura degli specchi.