Psicoanalisi contro n. 3 – Sulla riva dello stagno

marzo , 1980

La psicologia mette in relazione l’o­mosessualità con il narcisismo. L’o­mosessuale sarebbe colui che ha scelto sessualmente un individuo del proprio sesso, perché ancora troppo prigioniero di un narcisistico amore di sé: nell’altro vede se stesso, o co­me vorrebbe essere o come era. Sce­glie il simile perché non ha la capa­cità di amare il diverso da sé, per­ché ha paura dell’avventura amorosa e sessuale. In fondo, l’omosessuale, come ogni narcisista, sarebbe un egoi­sta che non vuole dare e darsi; al­lora sceglie il simile perché, così, ha l’illusione di perdersi di meno e di non allontanarsi troppo dal deside­rio di sé.

Questa teoria trova concordi psico­logi, psichiatri e psicoanalisti (ov­viamente, quelli che non ritengono che l’omosessualità sia causata da una alterazione organica; neurologi­ca, ormonale o altro).

L’omosessualità è, comunque, rite­nuta da molti una malattia psichica strettamente collegata con la dege­nerazione morale. L’omosessuale sa­rebbe, come ho detto, soprattutto, un egoista: il Narciso per eccellenza. Vi sono anche altri psicologi e mo­ralisti che tentano di non scagliare anatemi sull’omosessualità e parla­no di scelta omosessuale. L’omoses­sualità sarebbe una scelta; ma se si chiede a costoro perché alcune per­sone operino questa scelta, spesso la risposta è questa: — la scelta omosessuale è una scelta narcisisti­ca —, poi aggiungono: — scelta com­prensibile; in alcune situazioni, for­se, non sarebbe stato possibile assu­mere un altro atteggiamento ses­suale. Però è compito della terapia psicologica sbloccare la chiusura narcisistica per riportare all’etero­sessualità, unica forma biologica­mente conveniente e moralmente accettabile. Se però la terapia falli­sce bisogna assumere nei confronti dell’omosessuale un atteggiamento di umana comprensione e, persino, di solidarietà.

Anche la cultura non psicoanalitica, e persino il senso comune, ritengo­no che l’omosessuale sia una persona particolarmente chiusa in se stes­sa, un individuo compiaciuto di sé, prigioniero di problemi lontani dal­la concreta serietà della vita di tutti. L’omosessuale è un frivolo che si gingilla con il proprio corpo e con il corpo delle persone simili a lui: in fondo, non è mai diventato un adulto.

La scienza psicologica, più del senso comune, riconosce agli omosessuali una certa genialità, soprattutto in campo artistico. Le spiegazioni sono quanto mai bizzarre e contradditto­rie; però si è costretti a riconoscere un dato di fatto: molte personalità di spicco della nostra cultura furo­no, e sono, omosessuali.

Il narcisismo omosessuale spinge chi ne è prigioniero a vivere una vita essenzialmente estetizzante. Così si dice, così dice la scienza, così dico­no i « ben pensanti ». L’omosessuale, innanzitutto, ama il suo corpo: lo cura di più di quanto facciano gli ete­rosessuali, lo ammira e lo esibisce. Le suore di un tempo dicevano che se ci si guarda troppo allo specchio si rischia di veder comparire il dia­volo: questo diavolo è l’omosessua­lità.

Si dice che l’omosessuale abbia gu­sti raffinati; che vada alla ricerca di cose belle, ma un po’ estenuate e decadenti. Si dice che l’omosessuale assapori la vita cercando di coglier­ne gli aspetti scintillanti e preziosi; gli si riconosce di essere acuto e pungente, ma non profondo. Lo si ritiene geniale, ma non costante; di lui si dice che crei, ma che distrug­ga continuamente. Gli omosessuali, tutto sommato, dicono i ben pen­santi — scienziati e non — hanno una sensibilità epidermica che spes­so li porta più a sentire che a capire; anche per tutte queste ragioni non gli si è mai riconosciuta capa­cità di azione politica: l’omosessua­le sarebbe colui che nasconde die­tro un paravento di seta l’angoscia della propria sterilità.

Altri ancora mettono in relazione omosessualità e impotenza. L’omosessuale sarebbe un impotente che non ha voglia e capacità di crea­re; ma di cui la vita si vendica, caricandolo di un’angoscia mortale. La condanna è l’impossibilità di amare e la sterilità. L’astuzia della specie escogiterebbe una vendetta terribile per l’omosessuale: lo farebbe vivere, continuamente oppresso da, più o meno consapevoli, pensieri di morte. L’omosessuale, si sente inutile, per­ciò il pensiero della morte lo accom­pagna e lo spinge ad una frenetica ricerca sessuale. La gaiezza degli omosessuali sarebbe permeata di an­goscia di morte.

Queste sono immagini oleografiche e banali. Debbo riconoscere che al­cune persone, sedicenti omosessuali, hanno fatto, e fanno, di tutto per renderle concrete. Il discorso è mol­to più complesso ed ampio. La no­stra cultura concepisce due tipi di omosessualità maschile: il primo è quello che ho sopra descritto, l’al­tro è il travestitismo.

L’omosessualità femminile è stata descritta dalla scienza quasi esclu­sivamente come una forma di tra­vestimento. La donna vorrebbe so­prattutto essere un maschio e ne as­sume perciò il comportamento ses­suale e l’atteggiamento psichico ti­pico; e, dal punto di vista estetico, scimmiotta pateticamente il maschio. Anche la femmina omosessuale, pe­rò sentirebbe nel rifiuto della maternità una condanna mortale. I suoi desideri sterili la fanno sentire vuo­ta e rinsecchita; allora diviene o ec­cessivamente ansiosa e depressa, o aggressiva e autoritaria; ma il vuoto intirinseco la schiaccia e la condan­na. Comunque, è sempre oppressa dal fatto di non aver saputo sceglie­re come oggetto d’amore l’altro ses­so: è pur sempre una donna che ama un’altra donna.

Condannati o compresi che siano dalla scienza e dai ben pensanti, gli omosessuali sono persone che non hanno saputo scegliere se non il si­mile. Tutte queste considerazioni so­no semplicistiche e banalizzano un problema molto più complicato. Già la psicoanalisi classica aveva affrontato il problema della sessualità in­fantile, sostenendo che l’essere uma­no nasce carico di tutte le perver­sioni sessuali. Il polimorfismo per­verso caratterizza i primi anni di vita. Due istanze interverranno a in­canalare questa anarchia pulsionale e sessuale: la prima è interna, un istintuale meccanismo evolutivo che guida i desideri, strutturandoli in fasi successive in cui alcuni saranno rimossi ed altri spinti ad articolar­si in comportamenti ed a dirigersi verso oggetti biologicamente e moralmente utili. La seconda istanza è esterna: l’educazione della famiglia e della scuola che affiancherà l’inna­to meccanismo. Se in questo com­plicato lavorio di forze e controforze qualcosa non funziona, ecco che le pulsioni perverse rompono gli argi­ni, dominano la personalità, impe­dendo un vita sessuale « normale ». È abbastanza divertente accorgersi che, secondo la psicoanalisi classica il neonato è un accanito lettore dei feuilleton scollacciati e piccanti del primo Novecento; perché pare che il polimorfismo delle sue perversioni sia composto da una collezione di piaceri sessuali torbidi, ma precisi e ordinati; tanti mini-ruoli sessuali perversi e precisi: esibizionismo, voyeurismo, sadismo, masochismo, coprofilia, etc…

Io ritengo che quelli siano, certa­mente, modi in cui, anche, il bam­bino tenta di vivere la propria ses­sualità; ma questo è uno schemati­smo creato a posteriori dall’adulto, nel tentativo di leggere il desiderio del bambino. Questo tentativo di let­tura condiziona il bambino stesso: non è il neonato che legge i giorna­letti pornografici; ma è l’adulto che legge il bambino secondo i suoi schemi.

Penso che le cosiddette perversioni siano, all’inizio della vita, molto più ricche e varie. La sessualità si costi­tuisce, secondo me, nel rapporto con l’altro: un corpo che cerca un altro corpo, che vuole e dà calore. La scel­ta originaria, secondo me, consiste nel piacere di sentirmi uno che ri­trova l’altro: non l’opacità indistinta dell’identità, ma l’appropriazione di un piacere che si attua nello scam­bio. Il piacere si realizza nella « di­rezionalità »: è dentro perché è mio, è fuori perché voglio che sia anche tuo; è dentro e fuori perché si rea­lizza nel « riconoscimento ».

L’Io si compatta attraverso il piace­re riconosciuto, non solo mio e non solo tuo. Il piacere è la voglia del piacere, che diviene piacere prima della voglia di piacere. La vita stessa coincide con il piacere; ma la vita si realizza, sempre, in un dirigersi verso, e così pure il piacere. La psicoanalisi classica aveva, per fortuna, privilegiato una perversio­ne: l’omosessualità. Diceva che la situazione originaria è quella bises­suale. Questa è stata un’affermazione estremamente importante.

Come si realizza la bisessualità? Ap­pena l’adulto cerca di immaginarla, di descriverla, pensa ad un ma­schio che si sente per metà anche femmina e ad una femmina che si sente per metà anche maschio. Quan­do Freud dice che in un rapporto, a due, eterosessuale, si è sempre al­meno in quattro, vuol dire che per il maschio c’è un altro maschio, e lui si identifica con la femmina per provare piacere con quel maschio; e per la femmina c’è una femmina e lei si identifica con il maschio per provare piacere con la femmina. Io credo, però, che prima ci sia la fan­tasia del maschio che, come ma­schio, vuole l’altro maschio e quella della femmina che, come femmina, vuole l’altra femmina; e prima an­cora, c’è il maschio che vuole l’al­tro e la femmina che vuole l’altro, poi vuole sé e l’altro, e poi, volen­do anche sé, gode di sé maschio che gode con una femmina e di sé fem­mina che gode con un maschio, e di sé maschio che gode con un altro maschio, e di sé femmina che gode con un’altra femmina.

Le situazioni sono fluide e moltepli­ci. Il maschio ha il suo modo di sen­tirsi maschio e di sentire l’altro ma­schio e di sentire la femmina; la fem­mina ha il suo modo di sentirsi fem­mina, di sentire l’altra femmina e di sentire il maschio. La bisessuali­tà è, allora, androginia? Non lo so. L’androginia è la commistione di due concetti sessuali, ancor prima che di due organizzazioni fisiologi­che ed anatomiche. Oggi, se non si possiede qualche idea delle caratte­ristiche del maschio e della femmi­na, è impossibile godere sia dell’ete­rosessualità che dell’omosessualità, perché il nostro piacere va soprat­tutto alla ricerca di caratteristiche sessuali riconoscibili.

Io sostengo che la vita è sempre un teatro; quindi anche la sessualità. Purtroppo, autori, registi e capoco­mici hanno imposto all’essere uma­no un copione schematico e mono­tono con pochi personaggi, irrigiditi in corazze buffonesche e con due protagonisti, quasi paralizzati nei costumi del maschio e della femmi­na. I travestiti hanno tentato di spezzare questa schiavitù scambian­do il costume, senza accorgersi, pe­rò, che era ancor peggio: perché la rigidità rimaneva ed i movimenti ri­sultavano ancor più impediti da un costume sempre troppo stretto o troppo largo.

Nella ricerca del piacere l’essere umano trova la sua concretezza nel mondo. Questa ricerca ha sempre una direzione. Si realizza nel « pro­getto-piacere »: l’altro da me non è soltanto l’altro spaziale, è anche l’al­tro temporale. Il piacere si proietta nel futuro perché vuole ancora. Non è possibile vivere una relazione chiu­sa nell’astrazione del presente. Il mio piacere si dirige, ascolta e cerca in innumerevoli tentativi. Io e l’al­tro — spaziotemporalizzati — ten­tiamo di realizzare il nostro piacere che è la nostra esistenza.

Lo spazio è anche, sempre, il mio spazio; come il tempo è anche sem­pre il mio tempo.

Kant diceva che il tempo e lo spa­zio non contengono l’esperienza, ma sono condizione dell’esperienza pos­sibile.

Sono condizioni mie e dell’altro. Però, talvolta, l’altro si ritrae: sta costruendo un suo spazio, espande i suoi desideri in un suo tempo. Vi può essere, quindi, un disorienta­mento: all’improvviso una parte è scoperta, si sente freddo. La sensa­zione di freddo esprime, bene se­condo me, la frustrazione del desi­derio. Quando la relazione non ap­paga, l’altro aggredisce con il freddo. Possono venirmi addosso il silenzio, il rifiuto, la fuga, l’aggressione… al­lora io nego l’altro: Narciso si con­sola nello stagno.

Non è possibile trovare il punto del­l’inizio, sia nello spazio sia nel tem­po. La mente umana vuole appigli stabili; la stabilità, però, non è una sua caratteristica. La persona, nella sua interezza, si costruisce trovan­do: trovando sé e l’altro. L’Io è an­che, subito, un corpo.

L’origine, secondo me, non è da si­tuarsi in un momento di chiusura. L’inizio della vita (quando?) è da porsi in un momento di quasi sim­biosi. Ho usato due termini « qua­si » e « simbiosi »; molto probabil­mente chi legge avrà fissato la sua attenzione sul termine « simbiosi », considerando il « quasi » un chiari­mento non del tutto essenziale. Vor­rei invece che tutti e due i termini avessero la stessa importanza: la simbiosi tende all’identità, il quasi pone una tensione dialettica. L’ini­zio di una nuova vita è nell’altro, in uno stato di tensione. La ricerca dell’altro, ho detto, è costitutiva; ma ricerca è tensione: essere e non es­sere, volerlo e fuggirlo, ma fuggirlo perché prima lo si è voluto. La chiu­sura assoluta è un’astrazione: per­ciò il narcisismo primario non è una possibilità umana.

Il narcisismo è un meccanismo di difesa; senza le difese la vita non procederebbe. La difesa narcisistica può sempre essere messa in atto. Persone estremamente disponibili, da sempre, giunte in un momento particolare della loro esistenza, so­praffatte da una situazione incontrol­labile e frustrante, alzano, improvvi­samente, tutt’attorno, una massiccia barriera narcisistica. Si rifiutano di continuare a percepire molto di ciò che sta loro intorno; perché molto è l’intollerabile. Ma, qualche volta, il mondo, con astuzia, insinua in me il disprezzo di me: dove fuggire al­lora? Nego il mondo e cerco di in­ventare un altro me: sarà contento il mondo adesso? Il mondo, ancora, condanna. Allora Narciso si accoc­cola sulle rive dello stagno e parla con la propria immagine. Narciso è Narciso finché tenta di baciare la propria immagine; se cade nell’acqua e annega, è una disgrazia, o una punizione: Narciso era prima. Ades­so è un fiore, ed io non conosco i meccanismi di difesa dei fiori: Non c’è bisogno di ipotizzare una primaria situazione narcisistica per giustificare le successive fughe nel narcisismo. La difesa è una possibi­lità della vita, che sorge con essa.

L’Io non si difende soltanto fuggen­do e negando; può anche tentare la disperata messa in atto di un’ap­propriazione: l’Io può, con un gesto violento, tentare di appropriarsi del­l’altro che sfugge.

Se l’altro continua ad essere ostile, a frustrare ed a ritrarsi, allora può venire aggredito con violenza; que­sta prensione dura spesso appaga. Se l’altro soffre, l’altro è in relazio­ne; eccolo presente nella sua soffe­renza. L’altro c’è; poi, forse, l’Io vuole anche punirlo: il giudice è sem­pre in relazione con il giudicato, con il punito. Se è vero che l’Io si costituisce nella relazione, quando l’altro a cui esso si rapporta si ritrae, non solo teme di perdere l’altro, ma sente di perdere se stesso.

L’Io ha quindi bisogno di trovare e percepire anche se stesso. Ecco al­lora l’aggressione rivolta verso il sé, per sentire di esserci. Un bambino, cosiddetto autistico, batteva violen­temente la testa contro il muro: sul­la parete grigia una macchia di san­gue; quel bambino cercava di ritrovare se stesso attraverso quella sof­ferenza. è più doloroso della sofferenza fisica sentire l’Io che sfugge; sentire noi separati da noi da un dia­framma. Spesso, vi è chi mi dice: — ho l’impressione di vivere in un sogno: il mondo lo percepisco come attraverso un cristallo. Però, anche i miei gesti li sento ovattati ed estra­nei, io mi sento anche lontano da me —. Il cristallo, qualche volta, non divide soltanto l’Io dal mondo, ma anche l’Io da se stesso: è terribile non sentire e non sentirsi. Sembra una contraddizione, eppure è così; qualche volta è intensissima la sen­sazione di non sentire a sufficienza. Il sadismo e il masochismo sono, quindi, un’altra forma di difesa dal­la relazione insoddisfacente. Poi, l’Io usa ancora il sadismo e il masochi­smo per altri scopi; ma l’origine, se­condo me, è quella che ho detto. L’omosessualità è anche, spesso, mes­sa in relazione con il sadomasochi­smo. L’omosessuale è un insoddisfat­to, si dice, quindi scarica la sua insoddisfazione godendo delle soffe­renze altrui. L’omosessuale è quello che sevizia i bambini dopo averli adescati, è sempre un bruto in po­tenza. Si dice ancora che sia oppres­so dal senso di colpa per questa sua sessualità anomala; perciò non può vivere una sessualità felice. Cer­ca la sofferenza perché ha bisogno di essere punito per il piacere che prova. Desidera essere sottomesso e calpestato. Altre volte, non perdona all’altro del suo stesso sesso di sti­molargli il desiderio e allora lo pu­nisce per questo; scarica su di lui la sua libidine, ma vuole anche ve­derlo soffrire, mentre vi si identifica… I giochi sado-masochistici di cui ho, sopra, parlato, non sono soltanto in­venzione del moralismo dei ben pen­santi e degli psicologi; talvolta, l’o­mosessualità viene vissuta anche in questo modo. L’errore consiste, pe­rò, nel pensare che la sessualità etero­sessuale sia essenzialmente sadoma­sochistica, come, per un altro verso è, secondo me, mistificante ritenere l’omosessualità essenzialmente nar­cisistica.

Sado-masochismo e narcisismo sono meccanismi difensivi dalla frustra­zione; possono essere presenti in qualunque relazione. Possono essere usati strumentalmente per non vive­re direttamente la pulsione omoses­suale, ma anche per non vivere qua­lunque altro desiderio che spaventi.

L’educazione consiste sempre nel porre divieti ad alcuni desideri. I desideri, forse, sono infiniti. L’educazione però, costringe, anche, a de­siderare alcuni desideri piuttosto che altri.

Io non credo che sia possibile non educare; come non credo sia possi­bile accettare e vivere tutti i desi­deri.

La vita è un progetto, quindi è an­che una scelta (se sia una scelta me­tafisicamente libera non mi interes­sa appurarlo). È importante, perciò, orientarsi nella scelta dei nostri pro­getti desideranti. Io penso che sia pedagogicamente utile insegnare all’uomo a non avere paura di alcuni desideri. La paura è ineliminabile; ma è possibile spostarla.

Psicoanalisi e politica, unite, dovreb­bero avere questo scopo.

Ci hanno insegnato ad avere paura del desiderio rivolto verso il nostro stesso sesso. Quando il mondo con­danna un nostro desiderio, renden­doci difficile una relazione, noi atti­viamo i primi meccanismi difensivi che abbiamo imparato. Qualche vol­ta, poi, siamo così deboli da non es­sere in grado di ribellarci al nostro copione. Autore, regista, capocomi­co, vogliono che l’omosessuale sia così. Allora, l’omosessuale cerca di essere come lo vogliono e, così fa­cendo, soddisfa due esigenze fonda­mentali: prima, il bisogno di trova­re una collocazione nella rappresen­tazione generale — se debbo essere omosessuale, voglio esserlo, almeno, come tutti dicono che si debba es­serlo —; seconda, l’esigenza di sod­disfare il proprio piacere di voler essere omosessuale — io voglio es­sere omosessuale; se recito bene la parte dell’omosessuale, sono real­mente omosessuale.

È importantissimo affermare che l’essere umano, pur avendo paura dell’omosessualità, e quindi, in buo­na parte rifiutandola, ne ha, ancor più, un fortissimo desiderio profon­do. Si è messo, anche troppo, l’ac­cento sulla paura e sul rifiuto del­l’omosessualità; però io so che tutti vogliamo essere omosessuali; perché sappiamo, anche, che l’omosessualità è bella. È bella come è bella la vita, nonostante le contraddizioni e i di­sorientamenti.

Entusiasmante dell’omosessualità è il sentirsi capace di amare una per­sona che è simile a me, ma che è altro da me.

La nostra società ha tentato di con­vincere anche gli omosessuali che è indispensabile, sempre, amare l’al­tro sesso.

Spesso al maschio omosessuale fa paura, proprio come all’eterosessuale, l’idea di amare l’altro maschio; allora lo costringe a vestirsi da don­na o si traveste egli stesso. La don­na ha paura di amare l’altra donna, allora qualcuna si sforza di fare il maschio.

Il travestitismo è la più profonda difesa dall’omosessualità. I travesti­ti, con questo loro gesto, negano nel modo più profondo l’omosessualità. Ma, allora, l’omosessualità, se por­tata alle estreme conseguenze, sareb­be il narcisismo assoluto? Se l’omosessualità più rifiutata è l’amore per il simile, il più simile a me stesso non sono forse io stesso?

Io sostengo, invece, che il narcisi­smo, insieme con il travestimento è l’altra, più astuta, forma di difesa dall’omosessualità. Molto spesso, nel rapporto eterosessuale, il piacere passa attraverso l’altro, o l’altra, ma non vi si ferma; ritorna sul sé. Molti accoppiamenti eterosessuali sono l’e­saltazione narcisistica dell’omoses­sualità. Poiché abbiamo introiettato che si è massimamente maschi quan­do ci si unisce con una femmina e si è massimamente femmine quando ci si unisce con un maschio, noi usiamo il momento del rapporto eterosessuale per sentirci massima­mente maschi o massimamente fem­mine e godere sessualmente della no­stra mascolinità o della nostra fem­minilità. In un delirio narcisistico io osservo me nei cosiddetti tipici at­teggiamenti del mio sesso, mi com­piaccio e ne godo. In quel momento godo solo di me, maschio fino in fondo, femmina fino in fondo, omo­sessuale, ma non omosessuale. L’altro che mi fa paura, e che desi­dero ancor più di me stesso, è l’al­tro del mio stesso sesso, perché è altro più di quello dell’altro sesso. È quello che mi è simile, ma che può farmi prendere coscienza del fatto che io non sono l’unico ad es­sere così. Mi può costringere a sen­tire che non sono il solo. L’altro è sempre il simile e il dissimile allo stesso tempo. La corrente sessuale che si dirige verso l’altro me lo fa percepire, però, come altro. Non aver paura di scoprire che il simile è altro da me, significa non aver paura del rapporto.

Tutti gli altri sono tutti gli altri. Allora il maschio sente la somiglianza-diversità dell’altro maschio e anche della femmina; la femmina sente a sua volta la somiglianza-diversità del­l’altra femmina e anche del maschio. I ruoli sono tanti, ma, forse, la meta è una sola: strutturare il mio Io nel­la relazione piacevole con l’altro, sentendo l’altro come simile-dissimile da me. Narciso non ha più bisogno dello stagno.