Archivio di febbraio 1988

Psicoanalisi contro n. 40 – L’ombra della verità

lunedì, 1 febbraio 1988

Nel mio lungo lavoro di psicoanalista ho imparato tante cose sul campo; una di queste, ed è tra le più importanti, è la «cautela». Sebbene l’avessi sempre saputo, mi sono reso conto appieno del fatto che io devo sempre muovermi con circospezione. Ogni mia frase, ogni mio gesto, ogni mio silenzio hanno un peso, talvolta anche eccessivo, che va oltre le mie intenzioni ed io debbo tener conto di ciò. Un’altra cosa che ho imparato è che il buon analista deve sempre sapersi mettere dalla parte di chi fa analisi con lui. Questo precetto ha un valore più generale e dovrebbe essere ben presente a tutti. Neppure in una conversazione al bar ci si può sentire in diritto di ferire una persona con leggerezza, senza considerare il danno, anche psichico, che una frase avventata può causare. Quando noi parliamo, prigionieri del nostro narcisismo, ci dimentichiamo spesso della sensibilità dell’altro che è lì che ci ascolta, e ci lanciamo in affermazioni e considerazioni che sarebbe bene, invece, che tenessimo per noi stessi.
La saggia massima kantiana che ci ricorda di metterci sempre dal punto di vista dell’altro, per non rimanere prigionieri delle nostre ostinate ed ottuse convinzioni, può anche riguardare (oltre che la ricerca della verità, che ha sempre bisogno di essere perseguita mettendosi in posizione che ci permetta di scorgerne almeno un’ombra) il rispetto di tutte le particolari situazioni psichiche ed esistenziali dei nostri interlocutori. Se vogliamo essere pesanti, se vogliamo realmente aggredire, ferire, cerchiamo di farlo, almeno, con la massima consapevolezza. Per lo psicoanalista, saper entrare nel mondo emozionale dell’altro, sapersi immedesimare, significa muoversi con cautela. Fino a che non sarà infatti in grado di conoscere appieno gli effetti del proprio agire sul paziente, dovrà limitare la sua azione per evitargli danni o pericolosi disorientamenti. Quando faccio il mio lavoro di supervisore, mi accorgo, soprattutto con analisti un po’ giovani ed inesperti, che li debbo invitare alla cautela, con pe-dantesca insistenza. Mi è capitato qualche volta di aver chiarito un sogno o il comportamento di un paziente al suo analista, dandogli l’opportunità di una soluzione brillante. Ho dovuto però, dopo, fare i conti con l’esaltazione entusiasta del giovane «apprendista», ammirato dalla mia interpretazione, che gli facilitava il lavoro. Quando, per mia ingenuità, distrazione o stanchezza, non ho percepito il pericolo che questo eccessivo entusiasmo celava, è successo che costui si affrettasse a mettere in scena la piccola rappresentazione dello psicoanalista che, seduto sul suo scranno, ripete con sussiegoso orgoglio quelle mie frasi vere e terribili, compiaciuto del proprio potere e della propria intelligenza, e anche dello stupore, un po’ smarrito, del paziente, simile ad un bambino esterrefatto cui si sta raccontando una fiaba troppo paurosa. Quel giovane terapeuta si aspetta in quel momento una vittoria, l’incondizionata riconoscenza del paziente e si stupisce, invece, di quel che accade davvero. Per colpa mia, che non avevo insistito sul bisogno di procedere con cautela, che non l’avevo messo in guardia contro la sua fretta, che mi ero dimenticato di precisare i tempi con esattezza, ha fatto fiasco. Arriva così – per fortuna capita di rado – alla supervisione successiva, col racconto di un disastro combinato per la smania di far bella figura; forse anche per il desiderio di guarire subito. Ora è lì che mi guarda, intimidito dalla mia espressione di corruccio, dalle mie sopracciglia aggrottate, dal mio rimprovero: «Hai parlato troppo presto!». Generalmente, mi dice di essersene accorto anche lui.
Per fortuna mia e dei miei discepoli, io sono ossessivo, in modo quasi nevrotico, per cui mi muovo coi cosiddetti «piedi di piombo» e raramente mi sposto dal mio atteggiamento di cautela eccessiva; così non permetto loro di lavorare a contatto con i pazienti prima che siano passati lunghissimi anni di preparazione, molto faticosi, e talora anche frustranti, che però mi danno la sicurezza che difficilmente siano rimaste lacune tali da costituire pregiudizio per la sicurezza di chi si affiderà alle loro cure. Per questo sono accusato di essere sadicamente di freno al desiderio di scendere finalmente sul campo di gente che ha tanto studiato e non vede l’ora di mettere in pratica ciò che ha imparato. Per fortuna, il comune affiatamento ci consente, quasi sempre, di correre ai ripari, quando un errore d’impazienza è stato commesso, e neutralizzare sufficientemente le influenze negative di quell’errore isolato.
Se però l’analista incauto non avesse avuto una buona preparazione e avesse imparato la psicoanalisi o la psicoterapia solo sui libri, con un apprendistato troppo breve e raffazzonato, le fantasie di onnipotenza, l’esibizionismo e la fretta potrebbero fargli combinare seri disastri, e disturbare e magari anche compromettere irrimediabilmente un lavoro fino ad un certo punto condotto abbastanza bene.

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Un analista non deve mai mentire, ma deve saper guidare, con amore e in tranquillità, verso l’ombra del vero. Perché ho detto l’ombra del vero? Sembra un’immagine brutta: il vero è la luce e l’ombra è la sua mancanza; ma l’ombra della luce è una rifrazione che ricorda, anche se lontanamente, i colori da cui nasce. Quest’ombra è inconsistente ed inafferrabile; come la luce e la sua sorgente. Il vero, da cui sorge ogni luce, è irraggiungibile: sempre un poco oltre; per questo dobbiamo accontentarci dei suoi riflessi, ombre di quella luce.

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Semele, figlia di Cadmo, re di Tebe, si intratteneva in notturni incontri d’amore col grande Zeus, il quale giungeva avvolto nel suo mantello. La fanciulla provava il piacere di essere avvinta a quel corpo possente, ma non era completamente soddisfatta, perché il dio non le si mostrava nello splendore della sua nudità. Istigata da Era, la fanciulla giunse a chiedere a Zeus il privilegio di poterlo contemplare senza nessuno schermo di abiti o d’ombre, e il dio, che pur ben conosceva la forza distruttrice del suo corpo nudo, tuttavia cedette al desiderio della fanciulla, la quale alla vista di tanta bellezza e potenza sessuale, rimase incenerita. L’ipotesi che Semele sia morta di felicità è una mia romantica illazione; e più probabile, invece, che furono invidia ed inadeguatezza ad aver ragione della fanciulla: la potenza, anche sessuale, di un corpo così bello e irraggiungibile fu per lei esperienza mortale. Quella volta fu Era a trionfare sulla povera fanciulla e sul divino sposo affranto, cui non restò che cercare di salvare dal ventre della donna amata e perduta il frutto di quell’amore: il piccolo Dioniso.
Il mito può forse anche essere letto come metafora di quella verità che, pienamente rivelata, può, con la sua forza, distruggere. Sessualità e verità si unirono in un’unica forza che nessun essere umano può sopportare. Può, però, la verità essere pericolosa? Non è solo salvezza? Non è solo amore? Il mito si presta a molte considerazioni, e ci fa riflettere anche sullo smarrimento di un dio che ha avuto il torto di non prevedere fino in fondo le conseguenze della potenza della fallica verità di cui era portatore.
Io mi ribello al pensiero che l’amore possa distruggere, come un tempo mi ribellavo all’idea che scoprire la verità potesse essere pericoloso. Una vita spesa ad indagare i misteri dell’anima umana, mi ha insegnato, invece, che la verità può essere pericolosa: anche la stessa verità dell’amore, può costituire un pericolo. Forse solo perché l’essere umano vive troppo lontano dalla verità e dall’amore. Io ho imparato ad accettare con umiltà che anche il solo barbaglio del vero possa essere pericoloso ed ho voluto, per questo, guidare, con cautela, gli altri nella ricerca di un po’ di chiarezza. Vorrei ribellarmi a questa condanna che incombe sugli uomini; ma so che prima di tutto, il mio compito è quello di camminare con gli altri sulla strada della salute, che è la stessa strada della verità. Sono convinto più che mai che verità e salute coincidano: l’antico mito di Zeus e di Semele non mi convince abbastanza; sento in me, intenso, il desiderio di vedere a mia volta il dio senza il mantello.

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A questo punto mi sorge un dubbio. Abbandonate le fantasie mitologiche, che pure mi affascinano, faccio un ragionamento più tranquillo e piano, da scienziato che, con umiltà, ricerca: le verità che si vengono scoprendo nel pensiero cosciente ed inconscio di coloro che hanno intrapreso il faticoso lavoro dell’analisi sono davvero tali, o sono menzogne? Se così fosse, si troverebbe la spiegazione della loro pericolosità: la menzogna, essendo vicina al nulla, cioè al male, non può essere che dannosa. L’a-nalisi, però, non sarebbe allora che un avvolgersi continuo nelle menzogne, che allontanano dalla realtà, trasportando in mondi di sogni malati, di fantasie torbide; mondi in cui sorgono fantasmi paurosi, evocati da un alchimista delirante.
Fantasie, appunto, e non verità; incubi e non sogni! I pazienti dell’analisi sono spesso prigionieri di questi sogni ingannatori, che li opprimono e li distruggono, costringendoli alla resa o alla fuga. Così sarebbe salvo il carattere sacro e splendente della verità, ma allo stesso tempo sarebbe distrutta la mia piccola scienza. Sono turbato e disorientato.

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Anche questa volta, mi viene in aiuto la cautela. Sempre, quando mi sono mosso con cautela, la verità mi ha soccorso e, grazie ad essa, sono riuscito a condurre qualcuno fino ad Eros, cioè fino alla salute. Questa è per me la più semplice e sperimentale delle prove. Io sono uno scienziato che indaga e ricerca, il quale, nella chiarezza della verità, trova la salute. Senza questa chiarezza, prendono il sopravvento, con la menzogna, oscuri fantasmi. Tutto questo fuga decisamente ogni mio dubbio e timore: ora so che, se non ci si avvicina un po’ alla verità, i fantasmi dell’inconscio perseguitano l’uomo, rendendolo prigioniero timoroso. Quel po’ di luce che si riesce a fare è proprio come il lume che si accende nella notte, quando ci si sveglia, terrorizzati da un sogno. Poco a poco il buio svanisce dagli angoli e dal cuore, che si quieta, alla vista della stanza abituale, fra le cose di sempre, che riconosciamo e grazie alle quali ci riconosciamo. Questa, spesso, è una esperienza bellissima: dopo, dolcemente, ci si riad-dormenta; forse con la lampada accesa.

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Certi scienziati, che vogliono vedere tutto subito e rimangono fermi nella loro presunzione di verità, si illudono soltanto. Non rimangono inceneriti, infatti, perché non hanno realmente visto il corpo di Zeus, ma solo un simulacro. Restano, perciò, integri e solitari nella loro paura della fantasia, del parlare immaginifico: chiusi nei loro anemici esperimenti di laboratorio. Sono meschine parodie di Semele: castrati e castratori che riempiono pagine e pagine per descrivere mondi fittizi, fatti di troppi esperimenti per essere davvero vicini alla verità. Eppure un frammento di verità lo colgono, talvolta, anche questi scienziati ottusi e tronfi. Come mai? Ecco un secondo dubbio che mi disturba da tempo e al quale cerco una risposta soddisfacente. Le risposte, forse, potrebbero essere due: la prima è che nessun uomo e così castrato e vigliacco da non avere le sue paure, le sue fantasie e anche i suoi innamoramenti. Perciò tutti riescono almeno un po’ a cogliere il fruscìo del passo di Zeus che fugge, a intravedere un barlume di verità. L’altra risposta è che tutto il loro affannarsi finisce col permettere a qualcun altro di riconoscere nel ciarpame delle ricerche pretestuose e degli esperimenti addomesticati qualche elemento davvero utile e di usarlo per intervenire nel mondo e sull’uomo, contribuendo a migliorare la vita.
La scienza, se non è accompagnata dall’amore per la verità, per l’uomo e per il mondo, non riesce neppure ad essere tale, ma diventa sterile vaneggiamento che ha come oggetto solo se stesso o, peggio ancora, pericolose e distruttive chimere.

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Ho parlato, prima, dell’importanza di mettersi dal punto di vista dell’altro, per coglierne sensazioni ed emozioni, ed anche percepirne la situazione psichica, al fine di non compiere gesti o dire frasi inopportune, o fuori tempo e precipitose, che potrebbero danneggiare, anche seriamente, il lavoro terapeutico. È, però, altrettanto importante che, contemporaneamente, il terapeuta sia capace di mantenere la propria autonomia e di non farsi coinvolgere troppo; che non si identifichi eccessivamente con la situazione esistenziale, i problemi, le paure e le fantasie del paziente. Costui, invece, tende, per lo più inconsapevolmente, a trascinare il terapeuta nella propria orbita emozionale. Coscientemente dice a se stesso che lo vuole dalla sua parte perché ha bisogno di un alleato e non di un giudice.
Questa è un’esigenza quanto mai legittima che, però, spesso, nasconde un rifiuto dell’analisi; cioè una volontà inconscia e pervicace di non percorrere, fino in fondo, la strada che porta verso il chiarimento. Il paziente si irrigidisce davanti alla scoperta dei suoi desideri nascosti; preferirebbe rimanere fermo a ripetere ciò che già conosce, e che talvolta è solo una menzogna, anche se sorretta da giustificazioni chiare, lucide e convincenti. In questa situazione egli non tanto cerca un alleato, ma piuttosto un complice, e dice di non voler un giudice per pura e semplice viltà. Il terapeuta, invece, deve essere capace di farsi accettare anche come giudice. Molti di coloro che fanno analisi con me, per impedirmi di dare giudizi, mi dicono di sapere bene che una delle regole è quella che il terapeuta non deve giudicare; ma che desiderano tuttavia che io dia loro comunque qualche consiglio. Quasi sempre, costoro nascondono così la voglia di farsi consigliare, da un alleato compiacente, solo quelle cose che hanno voglia di fare. Questo può essere un principio magari valido in base ad altre metapsicologie, ma non lo è per la mia. Io ritengo di dover esprimere il mio parere, di dare consigli, e anche di giudicare. Starà al mio buon senso e buon gusto, alla mia esperienza e al mio affetto, far sì che tali giudizi e consigli aiutino e non castrino.
Spesso, riconoscere nel terapeuta un giudice protegge dalla violenza del giudice interno che ciascuno ha in sé e anche dai mille giudizi contraddittori che perseguitano ogni uomo da tutte le parti. Avere un giudice che sia un alleato, ma non un complice, è quanto mai utile. Certo, il terapeuta deve saper esprimere il proprio giudizio con cautela; all’inizio, infatti, il paziente è oppresso dai rimorsi, dalle fru-strazioni, dai suoi giudici, interni ed esterni, rapaci e corrosivi: un giudice in più sarebbe intollerabile, verrebbe assimilato a tutti gli altri e quindi perderebbe la sua peculiare funzione.
Guarire non significa soltanto sapersi alleggerire dai rimorsi, ma anche sapersi assumere le proprie responsabilità. E’ giusto, perciò, dispiacersi per una cattiva azione, e tutti ne abbiamo commesse. Molti pensano di potersi completamente liberare, con il lavoro analitico, da quei penosi sentimenti che un brutto gergo tecnico definisce «sensi di colpa». Invece, la consapevolezza del male commesso e il giu-sto rimorso sono indice di salute ed equilibrio. Districarsi nella foresta dei rimorsi è, indubbiamente, un compito difficile; però è indispensabile che analista e paziente ci riescano.

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Non solo i bambini e i selvaggi pensano di possedere, nel loro pensiero, tanta forza da riuscire a far accadere ciò che hanno intensamente pensato. Ogni essere umano ha questa stessa speranza che, sotto sotto, è anche un po’ una convinzione.
Tutte le persone equilibrate dicono di non credere nel potere magico del loro pensiero; però, rimorsi incomprensibili, autopunizioni ingiustificabili dopo la morte di una persona cara – o detestata – e addirittura dopo catastrofi naturali avvenute a chilometri di distanza, rivelano che quelle morti, quegli incidenti, erano stati auspicati, nella fantasia o nel sogno. Quei fatti realmente accaduti hanno, per così dire, confermato un senso di eccezionale potere da cui è conseguito l’orrore, il rimorso. Nascono crisi d’ansia, malinconie, timori di punizioni, di malattie che potrebbero colpire, proprio come gli strali di Apollo nella credenza degli antichi. Oppure tutto comincia a funzionare male e l’individuo pare intestardirsi proprio a perseguire l’insuccesso, come se una corrente invincibile lo trascinasse verso la rovina.
Forse i bambini sono meno convinti degli adulti di questa onnipotenza, perché, proprio desiderandola consapevolmente, si rendono conto di quanto poco il pensiero sia potente: ci giocano, ma osservando e ascoltando quei giochi infantili è possibile percepire tutta la loro scettica ironia. Forse i selvaggi adulti sono un po’ più convinti della potenza del loro pensiero proprio perché ne hanno fatto, in qualche modo, la base di un sistema teologico-scientifico. Chi sono e dove sono i selvaggi? Io conosco bene solo i bambini, che mi piace così tanto osservare ed ascoltare.
Gli adulti, non potendosi più permettere di giocare spudoratamente, fantasticano. La fantasia dei grandi e dei vecchi è quanto mai fervida, non da meno di quella infantile; soltanto è molto più vergognosa di sé ed inibita. Questa inibizione è dannosa perché può portare ad esplosioni deliranti, in cui tutte le fantasie represse esplodono in una volta, travolgendo chi aveva cercato di controllarle troppo. L’uomo sano non deve inibire le proprie fantasie, ma chi è caduto nel delirio deve essere aiutato a controllarle e a riassorbirne almeno in parte l’eccesso fluttuante. Quando invito un terapeuta ad agire in modo da richiamare un paziente alla realtà, io voglio semplicemente dire che bisogna di nuovo metterlo in grado di percepire gli altri e il mondo nella loro concretezza.

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Nell’uomo il rimorso è più intenso quando è stata realmente commessa una colpa, oppure quando la colpa è stata solo immaginata? Stranamente, pare essere più intenso non tanto quando si è stati causa diretta di un evento, ma quando si crede di averlo provocato, indirettamente, desiderandolo troppo. Perché in quest’ultimo caso si è aggiunta anche la soddisfazione di essersi sentiti onnipotenti e malvagi, empi e soddisfatti. Se il delitto è stato davvero commesso, se ne percepiscono meglio i limiti, le difficoltà che si sono dovute superare per portarlo ad effetto e resta sempre una piccola in-soddisfazione, dovuta alla percezione di questi limiti: è iniziata già una forma di espiazione. La sensazione di aver già, in parte, espiato, alleggerisce il peso del rimorso.
I terapeuti ben sanno quanto sia importante sollevare le persone dal peso dei rimorsi. Io però ribadisco che è altrettanto importante che l’analista non permetta a nessuno di lasciarsi cullare, avvolto dal sentimento di iperprotezione, come se si trovasse tra le braccia di una mamma indulgente, che sempre giustifica e perdona. Il perdono è un gesto di virile e armonioso coraggio, se non tende a far dimenticare e ad ottundere la coscienza, altrimenti istupidisce e rende vigliacchi, deboli, senza più voglia di guarire e dipendenti dall’analisi.
E’ importante invece per l’analista e per il paziente non scoraggiarsi mai e non darsi tregua: l’ombra luminosa della verità è sempre presente, anche se continuamente perduta e ritrovata.

40 – Febbraio ‘88

lunedì, 1 febbraio 1988

Il Grottino di Via Oslavia 54 è un ristorante sorto da poco al posto di una pizzeria a due passi da Piazza Bainsizza. Vi si accede scendendo una breve rampa di scale, resa accogliente con un rivestimento di specchi che ampliano gli spazi e moltiplicano l’effetto decorativo del verde delle piante, alcune vere altre imbalsamate. La stessa decorazione si estende al locale, un ampio seminterrato di più ambienti, ridente, col gioco cromatico del verde e del legno chiaro; un’ampia vetrata mette bene in vista la cucina. Tutto è pulito e nuovo e rivela una certa attenzione ai particolari. Il servizio è attento e gentile. Noi ci siamo arrivati una sera dopo le dieci, avendo curato di avvisare prima, con un gruppo di amici, il che ci ha permesso di aver un’idea abbastanza ampia delle possibilità della cucina, per quella consuetudine ormai invalsa, di permettere ai Farfalloni rapide incursioni nei piatti di tutti. Per quel che riguarda gli antipasti, abbiamo trovato eccellente il fritto di baccalà, crocchette ed olive ascolane, croccante, leggero e per niente unto; l’antipasto di mare è stato una vera leccornia, perché non c’era l’ombra dei soliti sottaceti e i frutti di mare, seppioline, gamberetti ecc. erano ottimi, conditi con una leggera vinaigrette e, come raramente accade, avevano anche il pregio di non essere gelidi di frigorifero; il cocktail Caraibi purtroppo era condito dalla solita e stucchevole salsina rosa, che umiliava il buon sapore dei crostacei. Tra i primi, abbiamo gustato un buon risotto al nero di seppia, al giusto punto di cottura, profumato, cremoso, senza aggiunta di panna, e ci ha divertito la proposta di arricchirlo con un po’ di ricotta fresca; le linguine alla granseola anch’esse con un sugo senza panna, sono state un piatto gradevole e ricco, anche se era forse eccessiva una punta dolce nella salsa al pomodoro; la pasta e fagioli con un buon olio crudo era sapida ed equilibrata, anche se avremmo preferito un brodo un po’ più legato. Per i secondi piatti consiglieremmo qualche attenzione in più: un salmoriglio più vivace su scampi e mazzancolle alla griglia, peraltro freschi e buoni; una maggior varietà di salse col carrello dei bolliti, dignitosi, anche se l’unica, salsa, verde, che c’è stata offerta, era impeccabile; soltanto criticabile, e la cosa ci ha stupito, abbiamo trovato il petto alla fornara con patate rinsecchito senza rimedio. Buone le insalate di contorno in cui spiccava quella valerianella che tanto amiamo, e che raramente ci viene proposta. Il carrello dei dolci offre una ampia scelta per tutti i gusti: segnaliamo i profiteroles croccanti, coperti da un buon cioccolato e la leggerissima e profumata torta di ricotta. Il proposito di questo locale è di offrire spunti di «ricerca enogastronomica», ma ci ha deluso la carta dei vini e in particolare un Mueller Thurgau totalmente insipido e troppo frizzante e il Montano rosso dell’Oltrepò pavese, un vino da tavola che potrebbe benissimo stare in lattina. Le grappe e i liquori sono molti, il conto è abbastanza sostenuto, pur senza eccesso. Tutto sommato, il nostro giudizio su questo nuovo ristorante è positivo: abbiamo voluto dare alcuni suggerimenti perché, purtroppo, soprattutto a Roma i ristoratori spesso, pur partendo bene, e il Grottino è partito bene, si lasciano irretire poi dal malcostume dell’andamento generale della ristorazione e lentamente appiattiscono le proposte che scadono in una trascuratezza di routine di cui la panna in ogni piatto costituisce l’immancabile contrassegno. Noi auguriamo a questo esercizio di fare un percorso inverso.

Fino a qualche anno fa, i luoghi giovanilistico-alternativi per intellettuali ed artisti – in atto e in potenza – erano localacci dal vetusto nome di birrerie o pizzerie, maleodoranti di sudore, capelli sporchi e fumo, dove, su tavoli lerci, scorrevano a fiumi birre cattivissime e vini bianchi ancora più inqualificabili. Nei piatti mal lavati, nauseabonde pizze, indecenti supplì e bruschette acri di olio rancido, costituivano il pasto serale di avventori distratti dal cibo e intenti a parlare di politica, cinema e liberazione sessuale. Anche se simili posti sono ancora ingiustamente fiorenti, da alcuni anni si sono fatte avanti le cosiddette «vinerie», che, sebbene spesso siano tenute da gestori incompetenti e frequentate da avventori senza palato, hanno però iniziato uno sforzo di offrire vini un po’ ricercati e piatti meglio curati, talvolta magari con eccessi di fantasia. Questo è stato un grande passo avanti. In questi ultimissimi tempi poi è esploso il delirio della raffinatezza: localini e localucci che sembrano tutti rococò, ricalcati quasi con lo stampino sui modelli del parigino Coste e dei caffè viennesi, con spreco di sedie thonet e minuscoli tavolinetti col ripiano di marmo o vetro sono sorti dappertutto. In questi locali l’unico puzzo sopravvissuto è quello del fumo, il solo che regna ancora infernale e sovrano, si parla un po’ meno di politica, molto ancora di arte e, anche troppo, di psicoanalisi. I cibi non sono ancora migliorati davvero: troppi neo-cuochi inesperti preparano qualunque cosa: da piatti naturalistici secondo la moda naturistico-salutista fino a raffinatissime proposte di tradizional-avanguardia. Tutti poi si sono scatenati nel preparare e inventare cocktail: fino a qualche tempo fa erano sempre irrimediabilmente brodaglie imbevibili, oggi invece in questo campo si possono avere gradevoli sorprese. Ad esempio il Melvyn’s di Via del Politeama 8, sulle rovine dell’ex Zanzibar, possiede un barman garbato ma un po’ triste: i suoi cocktail, non del tutto ineccepibili – ad esempio prepara il Negroni nel mixing-glass anziché nel tumbler medio e lo serve in quantità generosissime con la cannuccia – sono gradevoli ed equilibrati.
Appena dall’altra parte di Ponte Sisto, quasi in Campo de’ Fiori, prospera Le Teste Matte crèperie in Via dei Baullari 113, qui abbiamo trovato un barman di tutto rispetto: Alberto usa gli strumenti, i recipienti e gli ingredienti giusti; il dosaggio è corretto e le miscelature sono ben curate; noi ci sentiamo di consigliarne soprattutto quattro: l’Old Fashioned, il Manhattan, l’Alexander e il Black Russian: non consiglieremmo in questo locale di bere o mangiare nient’altro: le crèpes microscopiche sono gommose oppure bruciate, per di più non hanno sapore, quale che sia il loro scarno ripieno.
Nell’area di Piazza Navona, in Via dell’Orso 90, il Tulipiano si propone come posto adatto per una breve sosta per una fetta di torta o una sfiziosità dolce o salata, un tè o un bicchiere di vino o superalcoolico. La nostra esperienza non è stata esaltante: la Sacher torte era una fetta di segatura con un eccesso di vischiosa marmellata di ciliegie, la coppa Tulipiano era un gelato che non sembrava certo fatto in casa, ricoperto di fette di banana e persino il caffè crema lasciava a desiderare per l’eccesso di panna montata; si può però sempre risolvere con un whisky o una tequila o qualche altro liquore di buona marca.
Il desiderio preso per la coda in vicolo della Palomba 23, punta ad un look decisamente modernista, cui si adeguano anche gestori e clienti e al quale fa da contrasto una ricerca di arcaici sapori in cucina: le minestre contadine di cereali e verdure, servite in ciotole di coccio sono abbastanza gradevoli, a differenza dei piatti di carne malcotti, circondati da verdure semicrude; poco varia e non allettante è la carta dei vini. Tutti questi localetti sembrano in partenza essere piuttosto economici, anche se a ben considerare, il rapporto tra qualità, quantità e prezzo non va sempre in questa direzione. Le notti romane comunque si avvantaggiano del fiorire di molti di questi «posticini», aperti per lo più fino a tardissimo, sempre buoni se si tratta di proseguire, al coperto, due chiacchiere iniziate fuori!

40 – Febbraio ‘88

lunedì, 1 febbraio 1988

Fuori tutti!

Non preoccupa tanto che l’amnistia possa venire estesa a qualcuno che è ben lontano da ogni ipotesi di pen-timento e faccia del perdonismo di stato la ciambella di salvataggio per un’esistenza che, altrimenti, non avrebbe altra possibilità che spegnersi tra le mura del carcere. Questo Stato che oggi tanto si interroga sull’eventualita e l’opportunita di concedere o no il suo perdono ha, in realtà, tali e tante cose da farsi perdonare che non basterebbero dieci amnistie. Per cui l’amnistia ai terroristi diventa un problema quasi irrilevante, di fronte al numero di reclusi per i quali nessuno chiede lo stesso provvedimento e che sono vittime degli stessi errori generazionali, di analoghi fraintendimenti storici, della stessa ottusità amministrativa e giuridica! Quello che preoccupa è la boria petulante di chi difende una causa che non ha bisogno di essere difesa perché è comunque perduta: dallo Stato, dalla Giustizia e dalla Rivoluzione! Piccoli e medi intellettuali hanno fatto degli anni di piombo la loro età dell’oro: prima fungendo da piccoli viscidi istigatori: sempre giustificando il delitto in quanto comprensibile reazione alla delittuosa condizione statuale permanente, invocando la trasgressione di massa come prodotto storico dell’oscurantismo e dell’oppressione di uno Stato senza legittimità; oggi chiedendo a quello Stato di legittimare con il suo perdono i delitti, rinnegati, che quell’abbaglio e quella stortura hanno indotto a commettere. Non c’e umana
simpatia possibile per i terroristi, e la questione del perdono riguarda strettamente le coscienze di vittime ed assassini; a differenza del pentimento, sul quale sono intervenuti tanti e contraddittori elementi da renderlo una parola priva di significato. Proprio come non c’e solidarietà possibile con una politica ed una cultura che fanno del perdono una questione di opportunità e di opportunismo. Non c’e, probabilmente, un solo recluso nelle carceri del nostro paese la cui pena corrisponda ad un principio di giustizia, almeno perché le carceri del nostro paese non realizzano, neppure approssimativamente, alcun principio di giustizia. Per questo è auspicabile, come è già avvenuto, seppure non abbastanza spesso, che anche questa volta il regime burocratico si pronunci per un’amnistia, più ampia possibile: con quale diritto infatti il nostro sistema giudiziario si arroga la prerogativa di giudicare? Vadano liberi tutti, poiché quelli che oggi non sono reclusi sono almeno altrettanto colpevoli, ma, per favore, non difendiamo nessuna causa particolare e, se ieri abbiamo istigato facendo attenzione a mantenere le nostre mani pulite, non cerchiamo oggi giustificazioni che ci liberino dal rimorso di aver incoraggiato anche uno solo a sparare per conto nostro! Tutto questo discorso può sembrare paradossale; ma tende a richiamare l’attenzione di quanti vanno in questi giorni appassionandosi al tema del perdono: quelle che si prenderanno saranno decisioni di spicciola utilità politica, da cui saranno assenti del tutto considerazioni di natura superiore. La giustizia si amministra oggi anche così, senza davvero porsi il problema di cosa sia giusto secondo Giustizia.