Psicoanalisi contro n. 40 – L’ombra della verità

febbraio , 1988

Nel mio lungo lavoro di psicoanalista ho imparato tante cose sul campo; una di queste, ed è tra le più importanti, è la «cautela». Sebbene l’avessi sempre saputo, mi sono reso conto appieno del fatto che io devo sempre muovermi con circospezione. Ogni mia frase, ogni mio gesto, ogni mio silenzio hanno un peso, talvolta anche eccessivo, che va oltre le mie intenzioni ed io debbo tener conto di ciò. Un’altra cosa che ho imparato è che il buon analista deve sempre sapersi mettere dalla parte di chi fa analisi con lui. Questo precetto ha un valore più generale e dovrebbe essere ben presente a tutti. Neppure in una conversazione al bar ci si può sentire in diritto di ferire una persona con leggerezza, senza considerare il danno, anche psichico, che una frase avventata può causare. Quando noi parliamo, prigionieri del nostro narcisismo, ci dimentichiamo spesso della sensibilità dell’altro che è lì che ci ascolta, e ci lanciamo in affermazioni e considerazioni che sarebbe bene, invece, che tenessimo per noi stessi.
La saggia massima kantiana che ci ricorda di metterci sempre dal punto di vista dell’altro, per non rimanere prigionieri delle nostre ostinate ed ottuse convinzioni, può anche riguardare (oltre che la ricerca della verità, che ha sempre bisogno di essere perseguita mettendosi in posizione che ci permetta di scorgerne almeno un’ombra) il rispetto di tutte le particolari situazioni psichiche ed esistenziali dei nostri interlocutori. Se vogliamo essere pesanti, se vogliamo realmente aggredire, ferire, cerchiamo di farlo, almeno, con la massima consapevolezza. Per lo psicoanalista, saper entrare nel mondo emozionale dell’altro, sapersi immedesimare, significa muoversi con cautela. Fino a che non sarà infatti in grado di conoscere appieno gli effetti del proprio agire sul paziente, dovrà limitare la sua azione per evitargli danni o pericolosi disorientamenti. Quando faccio il mio lavoro di supervisore, mi accorgo, soprattutto con analisti un po’ giovani ed inesperti, che li debbo invitare alla cautela, con pe-dantesca insistenza. Mi è capitato qualche volta di aver chiarito un sogno o il comportamento di un paziente al suo analista, dandogli l’opportunità di una soluzione brillante. Ho dovuto però, dopo, fare i conti con l’esaltazione entusiasta del giovane «apprendista», ammirato dalla mia interpretazione, che gli facilitava il lavoro. Quando, per mia ingenuità, distrazione o stanchezza, non ho percepito il pericolo che questo eccessivo entusiasmo celava, è successo che costui si affrettasse a mettere in scena la piccola rappresentazione dello psicoanalista che, seduto sul suo scranno, ripete con sussiegoso orgoglio quelle mie frasi vere e terribili, compiaciuto del proprio potere e della propria intelligenza, e anche dello stupore, un po’ smarrito, del paziente, simile ad un bambino esterrefatto cui si sta raccontando una fiaba troppo paurosa. Quel giovane terapeuta si aspetta in quel momento una vittoria, l’incondizionata riconoscenza del paziente e si stupisce, invece, di quel che accade davvero. Per colpa mia, che non avevo insistito sul bisogno di procedere con cautela, che non l’avevo messo in guardia contro la sua fretta, che mi ero dimenticato di precisare i tempi con esattezza, ha fatto fiasco. Arriva così – per fortuna capita di rado – alla supervisione successiva, col racconto di un disastro combinato per la smania di far bella figura; forse anche per il desiderio di guarire subito. Ora è lì che mi guarda, intimidito dalla mia espressione di corruccio, dalle mie sopracciglia aggrottate, dal mio rimprovero: «Hai parlato troppo presto!». Generalmente, mi dice di essersene accorto anche lui.
Per fortuna mia e dei miei discepoli, io sono ossessivo, in modo quasi nevrotico, per cui mi muovo coi cosiddetti «piedi di piombo» e raramente mi sposto dal mio atteggiamento di cautela eccessiva; così non permetto loro di lavorare a contatto con i pazienti prima che siano passati lunghissimi anni di preparazione, molto faticosi, e talora anche frustranti, che però mi danno la sicurezza che difficilmente siano rimaste lacune tali da costituire pregiudizio per la sicurezza di chi si affiderà alle loro cure. Per questo sono accusato di essere sadicamente di freno al desiderio di scendere finalmente sul campo di gente che ha tanto studiato e non vede l’ora di mettere in pratica ciò che ha imparato. Per fortuna, il comune affiatamento ci consente, quasi sempre, di correre ai ripari, quando un errore d’impazienza è stato commesso, e neutralizzare sufficientemente le influenze negative di quell’errore isolato.
Se però l’analista incauto non avesse avuto una buona preparazione e avesse imparato la psicoanalisi o la psicoterapia solo sui libri, con un apprendistato troppo breve e raffazzonato, le fantasie di onnipotenza, l’esibizionismo e la fretta potrebbero fargli combinare seri disastri, e disturbare e magari anche compromettere irrimediabilmente un lavoro fino ad un certo punto condotto abbastanza bene.

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Un analista non deve mai mentire, ma deve saper guidare, con amore e in tranquillità, verso l’ombra del vero. Perché ho detto l’ombra del vero? Sembra un’immagine brutta: il vero è la luce e l’ombra è la sua mancanza; ma l’ombra della luce è una rifrazione che ricorda, anche se lontanamente, i colori da cui nasce. Quest’ombra è inconsistente ed inafferrabile; come la luce e la sua sorgente. Il vero, da cui sorge ogni luce, è irraggiungibile: sempre un poco oltre; per questo dobbiamo accontentarci dei suoi riflessi, ombre di quella luce.

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Semele, figlia di Cadmo, re di Tebe, si intratteneva in notturni incontri d’amore col grande Zeus, il quale giungeva avvolto nel suo mantello. La fanciulla provava il piacere di essere avvinta a quel corpo possente, ma non era completamente soddisfatta, perché il dio non le si mostrava nello splendore della sua nudità. Istigata da Era, la fanciulla giunse a chiedere a Zeus il privilegio di poterlo contemplare senza nessuno schermo di abiti o d’ombre, e il dio, che pur ben conosceva la forza distruttrice del suo corpo nudo, tuttavia cedette al desiderio della fanciulla, la quale alla vista di tanta bellezza e potenza sessuale, rimase incenerita. L’ipotesi che Semele sia morta di felicità è una mia romantica illazione; e più probabile, invece, che furono invidia ed inadeguatezza ad aver ragione della fanciulla: la potenza, anche sessuale, di un corpo così bello e irraggiungibile fu per lei esperienza mortale. Quella volta fu Era a trionfare sulla povera fanciulla e sul divino sposo affranto, cui non restò che cercare di salvare dal ventre della donna amata e perduta il frutto di quell’amore: il piccolo Dioniso.
Il mito può forse anche essere letto come metafora di quella verità che, pienamente rivelata, può, con la sua forza, distruggere. Sessualità e verità si unirono in un’unica forza che nessun essere umano può sopportare. Può, però, la verità essere pericolosa? Non è solo salvezza? Non è solo amore? Il mito si presta a molte considerazioni, e ci fa riflettere anche sullo smarrimento di un dio che ha avuto il torto di non prevedere fino in fondo le conseguenze della potenza della fallica verità di cui era portatore.
Io mi ribello al pensiero che l’amore possa distruggere, come un tempo mi ribellavo all’idea che scoprire la verità potesse essere pericoloso. Una vita spesa ad indagare i misteri dell’anima umana, mi ha insegnato, invece, che la verità può essere pericolosa: anche la stessa verità dell’amore, può costituire un pericolo. Forse solo perché l’essere umano vive troppo lontano dalla verità e dall’amore. Io ho imparato ad accettare con umiltà che anche il solo barbaglio del vero possa essere pericoloso ed ho voluto, per questo, guidare, con cautela, gli altri nella ricerca di un po’ di chiarezza. Vorrei ribellarmi a questa condanna che incombe sugli uomini; ma so che prima di tutto, il mio compito è quello di camminare con gli altri sulla strada della salute, che è la stessa strada della verità. Sono convinto più che mai che verità e salute coincidano: l’antico mito di Zeus e di Semele non mi convince abbastanza; sento in me, intenso, il desiderio di vedere a mia volta il dio senza il mantello.

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A questo punto mi sorge un dubbio. Abbandonate le fantasie mitologiche, che pure mi affascinano, faccio un ragionamento più tranquillo e piano, da scienziato che, con umiltà, ricerca: le verità che si vengono scoprendo nel pensiero cosciente ed inconscio di coloro che hanno intrapreso il faticoso lavoro dell’analisi sono davvero tali, o sono menzogne? Se così fosse, si troverebbe la spiegazione della loro pericolosità: la menzogna, essendo vicina al nulla, cioè al male, non può essere che dannosa. L’a-nalisi, però, non sarebbe allora che un avvolgersi continuo nelle menzogne, che allontanano dalla realtà, trasportando in mondi di sogni malati, di fantasie torbide; mondi in cui sorgono fantasmi paurosi, evocati da un alchimista delirante.
Fantasie, appunto, e non verità; incubi e non sogni! I pazienti dell’analisi sono spesso prigionieri di questi sogni ingannatori, che li opprimono e li distruggono, costringendoli alla resa o alla fuga. Così sarebbe salvo il carattere sacro e splendente della verità, ma allo stesso tempo sarebbe distrutta la mia piccola scienza. Sono turbato e disorientato.

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Anche questa volta, mi viene in aiuto la cautela. Sempre, quando mi sono mosso con cautela, la verità mi ha soccorso e, grazie ad essa, sono riuscito a condurre qualcuno fino ad Eros, cioè fino alla salute. Questa è per me la più semplice e sperimentale delle prove. Io sono uno scienziato che indaga e ricerca, il quale, nella chiarezza della verità, trova la salute. Senza questa chiarezza, prendono il sopravvento, con la menzogna, oscuri fantasmi. Tutto questo fuga decisamente ogni mio dubbio e timore: ora so che, se non ci si avvicina un po’ alla verità, i fantasmi dell’inconscio perseguitano l’uomo, rendendolo prigioniero timoroso. Quel po’ di luce che si riesce a fare è proprio come il lume che si accende nella notte, quando ci si sveglia, terrorizzati da un sogno. Poco a poco il buio svanisce dagli angoli e dal cuore, che si quieta, alla vista della stanza abituale, fra le cose di sempre, che riconosciamo e grazie alle quali ci riconosciamo. Questa, spesso, è una esperienza bellissima: dopo, dolcemente, ci si riad-dormenta; forse con la lampada accesa.

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Certi scienziati, che vogliono vedere tutto subito e rimangono fermi nella loro presunzione di verità, si illudono soltanto. Non rimangono inceneriti, infatti, perché non hanno realmente visto il corpo di Zeus, ma solo un simulacro. Restano, perciò, integri e solitari nella loro paura della fantasia, del parlare immaginifico: chiusi nei loro anemici esperimenti di laboratorio. Sono meschine parodie di Semele: castrati e castratori che riempiono pagine e pagine per descrivere mondi fittizi, fatti di troppi esperimenti per essere davvero vicini alla verità. Eppure un frammento di verità lo colgono, talvolta, anche questi scienziati ottusi e tronfi. Come mai? Ecco un secondo dubbio che mi disturba da tempo e al quale cerco una risposta soddisfacente. Le risposte, forse, potrebbero essere due: la prima è che nessun uomo e così castrato e vigliacco da non avere le sue paure, le sue fantasie e anche i suoi innamoramenti. Perciò tutti riescono almeno un po’ a cogliere il fruscìo del passo di Zeus che fugge, a intravedere un barlume di verità. L’altra risposta è che tutto il loro affannarsi finisce col permettere a qualcun altro di riconoscere nel ciarpame delle ricerche pretestuose e degli esperimenti addomesticati qualche elemento davvero utile e di usarlo per intervenire nel mondo e sull’uomo, contribuendo a migliorare la vita.
La scienza, se non è accompagnata dall’amore per la verità, per l’uomo e per il mondo, non riesce neppure ad essere tale, ma diventa sterile vaneggiamento che ha come oggetto solo se stesso o, peggio ancora, pericolose e distruttive chimere.

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Ho parlato, prima, dell’importanza di mettersi dal punto di vista dell’altro, per coglierne sensazioni ed emozioni, ed anche percepirne la situazione psichica, al fine di non compiere gesti o dire frasi inopportune, o fuori tempo e precipitose, che potrebbero danneggiare, anche seriamente, il lavoro terapeutico. È, però, altrettanto importante che, contemporaneamente, il terapeuta sia capace di mantenere la propria autonomia e di non farsi coinvolgere troppo; che non si identifichi eccessivamente con la situazione esistenziale, i problemi, le paure e le fantasie del paziente. Costui, invece, tende, per lo più inconsapevolmente, a trascinare il terapeuta nella propria orbita emozionale. Coscientemente dice a se stesso che lo vuole dalla sua parte perché ha bisogno di un alleato e non di un giudice.
Questa è un’esigenza quanto mai legittima che, però, spesso, nasconde un rifiuto dell’analisi; cioè una volontà inconscia e pervicace di non percorrere, fino in fondo, la strada che porta verso il chiarimento. Il paziente si irrigidisce davanti alla scoperta dei suoi desideri nascosti; preferirebbe rimanere fermo a ripetere ciò che già conosce, e che talvolta è solo una menzogna, anche se sorretta da giustificazioni chiare, lucide e convincenti. In questa situazione egli non tanto cerca un alleato, ma piuttosto un complice, e dice di non voler un giudice per pura e semplice viltà. Il terapeuta, invece, deve essere capace di farsi accettare anche come giudice. Molti di coloro che fanno analisi con me, per impedirmi di dare giudizi, mi dicono di sapere bene che una delle regole è quella che il terapeuta non deve giudicare; ma che desiderano tuttavia che io dia loro comunque qualche consiglio. Quasi sempre, costoro nascondono così la voglia di farsi consigliare, da un alleato compiacente, solo quelle cose che hanno voglia di fare. Questo può essere un principio magari valido in base ad altre metapsicologie, ma non lo è per la mia. Io ritengo di dover esprimere il mio parere, di dare consigli, e anche di giudicare. Starà al mio buon senso e buon gusto, alla mia esperienza e al mio affetto, far sì che tali giudizi e consigli aiutino e non castrino.
Spesso, riconoscere nel terapeuta un giudice protegge dalla violenza del giudice interno che ciascuno ha in sé e anche dai mille giudizi contraddittori che perseguitano ogni uomo da tutte le parti. Avere un giudice che sia un alleato, ma non un complice, è quanto mai utile. Certo, il terapeuta deve saper esprimere il proprio giudizio con cautela; all’inizio, infatti, il paziente è oppresso dai rimorsi, dalle fru-strazioni, dai suoi giudici, interni ed esterni, rapaci e corrosivi: un giudice in più sarebbe intollerabile, verrebbe assimilato a tutti gli altri e quindi perderebbe la sua peculiare funzione.
Guarire non significa soltanto sapersi alleggerire dai rimorsi, ma anche sapersi assumere le proprie responsabilità. E’ giusto, perciò, dispiacersi per una cattiva azione, e tutti ne abbiamo commesse. Molti pensano di potersi completamente liberare, con il lavoro analitico, da quei penosi sentimenti che un brutto gergo tecnico definisce «sensi di colpa». Invece, la consapevolezza del male commesso e il giu-sto rimorso sono indice di salute ed equilibrio. Districarsi nella foresta dei rimorsi è, indubbiamente, un compito difficile; però è indispensabile che analista e paziente ci riescano.

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Non solo i bambini e i selvaggi pensano di possedere, nel loro pensiero, tanta forza da riuscire a far accadere ciò che hanno intensamente pensato. Ogni essere umano ha questa stessa speranza che, sotto sotto, è anche un po’ una convinzione.
Tutte le persone equilibrate dicono di non credere nel potere magico del loro pensiero; però, rimorsi incomprensibili, autopunizioni ingiustificabili dopo la morte di una persona cara – o detestata – e addirittura dopo catastrofi naturali avvenute a chilometri di distanza, rivelano che quelle morti, quegli incidenti, erano stati auspicati, nella fantasia o nel sogno. Quei fatti realmente accaduti hanno, per così dire, confermato un senso di eccezionale potere da cui è conseguito l’orrore, il rimorso. Nascono crisi d’ansia, malinconie, timori di punizioni, di malattie che potrebbero colpire, proprio come gli strali di Apollo nella credenza degli antichi. Oppure tutto comincia a funzionare male e l’individuo pare intestardirsi proprio a perseguire l’insuccesso, come se una corrente invincibile lo trascinasse verso la rovina.
Forse i bambini sono meno convinti degli adulti di questa onnipotenza, perché, proprio desiderandola consapevolmente, si rendono conto di quanto poco il pensiero sia potente: ci giocano, ma osservando e ascoltando quei giochi infantili è possibile percepire tutta la loro scettica ironia. Forse i selvaggi adulti sono un po’ più convinti della potenza del loro pensiero proprio perché ne hanno fatto, in qualche modo, la base di un sistema teologico-scientifico. Chi sono e dove sono i selvaggi? Io conosco bene solo i bambini, che mi piace così tanto osservare ed ascoltare.
Gli adulti, non potendosi più permettere di giocare spudoratamente, fantasticano. La fantasia dei grandi e dei vecchi è quanto mai fervida, non da meno di quella infantile; soltanto è molto più vergognosa di sé ed inibita. Questa inibizione è dannosa perché può portare ad esplosioni deliranti, in cui tutte le fantasie represse esplodono in una volta, travolgendo chi aveva cercato di controllarle troppo. L’uomo sano non deve inibire le proprie fantasie, ma chi è caduto nel delirio deve essere aiutato a controllarle e a riassorbirne almeno in parte l’eccesso fluttuante. Quando invito un terapeuta ad agire in modo da richiamare un paziente alla realtà, io voglio semplicemente dire che bisogna di nuovo metterlo in grado di percepire gli altri e il mondo nella loro concretezza.

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Nell’uomo il rimorso è più intenso quando è stata realmente commessa una colpa, oppure quando la colpa è stata solo immaginata? Stranamente, pare essere più intenso non tanto quando si è stati causa diretta di un evento, ma quando si crede di averlo provocato, indirettamente, desiderandolo troppo. Perché in quest’ultimo caso si è aggiunta anche la soddisfazione di essersi sentiti onnipotenti e malvagi, empi e soddisfatti. Se il delitto è stato davvero commesso, se ne percepiscono meglio i limiti, le difficoltà che si sono dovute superare per portarlo ad effetto e resta sempre una piccola in-soddisfazione, dovuta alla percezione di questi limiti: è iniziata già una forma di espiazione. La sensazione di aver già, in parte, espiato, alleggerisce il peso del rimorso.
I terapeuti ben sanno quanto sia importante sollevare le persone dal peso dei rimorsi. Io però ribadisco che è altrettanto importante che l’analista non permetta a nessuno di lasciarsi cullare, avvolto dal sentimento di iperprotezione, come se si trovasse tra le braccia di una mamma indulgente, che sempre giustifica e perdona. Il perdono è un gesto di virile e armonioso coraggio, se non tende a far dimenticare e ad ottundere la coscienza, altrimenti istupidisce e rende vigliacchi, deboli, senza più voglia di guarire e dipendenti dall’analisi.
E’ importante invece per l’analista e per il paziente non scoraggiarsi mai e non darsi tregua: l’ombra luminosa della verità è sempre presente, anche se continuamente perduta e ritrovata.