40 – Febbraio ‘88

febbraio , 1988

Il Grottino di Via Oslavia 54 è un ristorante sorto da poco al posto di una pizzeria a due passi da Piazza Bainsizza. Vi si accede scendendo una breve rampa di scale, resa accogliente con un rivestimento di specchi che ampliano gli spazi e moltiplicano l’effetto decorativo del verde delle piante, alcune vere altre imbalsamate. La stessa decorazione si estende al locale, un ampio seminterrato di più ambienti, ridente, col gioco cromatico del verde e del legno chiaro; un’ampia vetrata mette bene in vista la cucina. Tutto è pulito e nuovo e rivela una certa attenzione ai particolari. Il servizio è attento e gentile. Noi ci siamo arrivati una sera dopo le dieci, avendo curato di avvisare prima, con un gruppo di amici, il che ci ha permesso di aver un’idea abbastanza ampia delle possibilità della cucina, per quella consuetudine ormai invalsa, di permettere ai Farfalloni rapide incursioni nei piatti di tutti. Per quel che riguarda gli antipasti, abbiamo trovato eccellente il fritto di baccalà, crocchette ed olive ascolane, croccante, leggero e per niente unto; l’antipasto di mare è stato una vera leccornia, perché non c’era l’ombra dei soliti sottaceti e i frutti di mare, seppioline, gamberetti ecc. erano ottimi, conditi con una leggera vinaigrette e, come raramente accade, avevano anche il pregio di non essere gelidi di frigorifero; il cocktail Caraibi purtroppo era condito dalla solita e stucchevole salsina rosa, che umiliava il buon sapore dei crostacei. Tra i primi, abbiamo gustato un buon risotto al nero di seppia, al giusto punto di cottura, profumato, cremoso, senza aggiunta di panna, e ci ha divertito la proposta di arricchirlo con un po’ di ricotta fresca; le linguine alla granseola anch’esse con un sugo senza panna, sono state un piatto gradevole e ricco, anche se era forse eccessiva una punta dolce nella salsa al pomodoro; la pasta e fagioli con un buon olio crudo era sapida ed equilibrata, anche se avremmo preferito un brodo un po’ più legato. Per i secondi piatti consiglieremmo qualche attenzione in più: un salmoriglio più vivace su scampi e mazzancolle alla griglia, peraltro freschi e buoni; una maggior varietà di salse col carrello dei bolliti, dignitosi, anche se l’unica, salsa, verde, che c’è stata offerta, era impeccabile; soltanto criticabile, e la cosa ci ha stupito, abbiamo trovato il petto alla fornara con patate rinsecchito senza rimedio. Buone le insalate di contorno in cui spiccava quella valerianella che tanto amiamo, e che raramente ci viene proposta. Il carrello dei dolci offre una ampia scelta per tutti i gusti: segnaliamo i profiteroles croccanti, coperti da un buon cioccolato e la leggerissima e profumata torta di ricotta. Il proposito di questo locale è di offrire spunti di «ricerca enogastronomica», ma ci ha deluso la carta dei vini e in particolare un Mueller Thurgau totalmente insipido e troppo frizzante e il Montano rosso dell’Oltrepò pavese, un vino da tavola che potrebbe benissimo stare in lattina. Le grappe e i liquori sono molti, il conto è abbastanza sostenuto, pur senza eccesso. Tutto sommato, il nostro giudizio su questo nuovo ristorante è positivo: abbiamo voluto dare alcuni suggerimenti perché, purtroppo, soprattutto a Roma i ristoratori spesso, pur partendo bene, e il Grottino è partito bene, si lasciano irretire poi dal malcostume dell’andamento generale della ristorazione e lentamente appiattiscono le proposte che scadono in una trascuratezza di routine di cui la panna in ogni piatto costituisce l’immancabile contrassegno. Noi auguriamo a questo esercizio di fare un percorso inverso.

Fino a qualche anno fa, i luoghi giovanilistico-alternativi per intellettuali ed artisti – in atto e in potenza – erano localacci dal vetusto nome di birrerie o pizzerie, maleodoranti di sudore, capelli sporchi e fumo, dove, su tavoli lerci, scorrevano a fiumi birre cattivissime e vini bianchi ancora più inqualificabili. Nei piatti mal lavati, nauseabonde pizze, indecenti supplì e bruschette acri di olio rancido, costituivano il pasto serale di avventori distratti dal cibo e intenti a parlare di politica, cinema e liberazione sessuale. Anche se simili posti sono ancora ingiustamente fiorenti, da alcuni anni si sono fatte avanti le cosiddette «vinerie», che, sebbene spesso siano tenute da gestori incompetenti e frequentate da avventori senza palato, hanno però iniziato uno sforzo di offrire vini un po’ ricercati e piatti meglio curati, talvolta magari con eccessi di fantasia. Questo è stato un grande passo avanti. In questi ultimissimi tempi poi è esploso il delirio della raffinatezza: localini e localucci che sembrano tutti rococò, ricalcati quasi con lo stampino sui modelli del parigino Coste e dei caffè viennesi, con spreco di sedie thonet e minuscoli tavolinetti col ripiano di marmo o vetro sono sorti dappertutto. In questi locali l’unico puzzo sopravvissuto è quello del fumo, il solo che regna ancora infernale e sovrano, si parla un po’ meno di politica, molto ancora di arte e, anche troppo, di psicoanalisi. I cibi non sono ancora migliorati davvero: troppi neo-cuochi inesperti preparano qualunque cosa: da piatti naturalistici secondo la moda naturistico-salutista fino a raffinatissime proposte di tradizional-avanguardia. Tutti poi si sono scatenati nel preparare e inventare cocktail: fino a qualche tempo fa erano sempre irrimediabilmente brodaglie imbevibili, oggi invece in questo campo si possono avere gradevoli sorprese. Ad esempio il Melvyn’s di Via del Politeama 8, sulle rovine dell’ex Zanzibar, possiede un barman garbato ma un po’ triste: i suoi cocktail, non del tutto ineccepibili – ad esempio prepara il Negroni nel mixing-glass anziché nel tumbler medio e lo serve in quantità generosissime con la cannuccia – sono gradevoli ed equilibrati.
Appena dall’altra parte di Ponte Sisto, quasi in Campo de’ Fiori, prospera Le Teste Matte crèperie in Via dei Baullari 113, qui abbiamo trovato un barman di tutto rispetto: Alberto usa gli strumenti, i recipienti e gli ingredienti giusti; il dosaggio è corretto e le miscelature sono ben curate; noi ci sentiamo di consigliarne soprattutto quattro: l’Old Fashioned, il Manhattan, l’Alexander e il Black Russian: non consiglieremmo in questo locale di bere o mangiare nient’altro: le crèpes microscopiche sono gommose oppure bruciate, per di più non hanno sapore, quale che sia il loro scarno ripieno.
Nell’area di Piazza Navona, in Via dell’Orso 90, il Tulipiano si propone come posto adatto per una breve sosta per una fetta di torta o una sfiziosità dolce o salata, un tè o un bicchiere di vino o superalcoolico. La nostra esperienza non è stata esaltante: la Sacher torte era una fetta di segatura con un eccesso di vischiosa marmellata di ciliegie, la coppa Tulipiano era un gelato che non sembrava certo fatto in casa, ricoperto di fette di banana e persino il caffè crema lasciava a desiderare per l’eccesso di panna montata; si può però sempre risolvere con un whisky o una tequila o qualche altro liquore di buona marca.
Il desiderio preso per la coda in vicolo della Palomba 23, punta ad un look decisamente modernista, cui si adeguano anche gestori e clienti e al quale fa da contrasto una ricerca di arcaici sapori in cucina: le minestre contadine di cereali e verdure, servite in ciotole di coccio sono abbastanza gradevoli, a differenza dei piatti di carne malcotti, circondati da verdure semicrude; poco varia e non allettante è la carta dei vini. Tutti questi localetti sembrano in partenza essere piuttosto economici, anche se a ben considerare, il rapporto tra qualità, quantità e prezzo non va sempre in questa direzione. Le notti romane comunque si avvantaggiano del fiorire di molti di questi «posticini», aperti per lo più fino a tardissimo, sempre buoni se si tratta di proseguire, al coperto, due chiacchiere iniziate fuori!