Archivio di dicembre 1996

Psicoanalisi contro n. 16 – Il teatro della psicoanalisi

domenica, 15 dicembre 1996

La psicoanalisi fa di ogni seduta una recita. L’analizzato interpreta molti personaggi; vive antiche emozioni e chiede all’analista di diventare complice in questo suo gioco; allora, quest’ultimo diventa: padre, figlio, fratello, madre ed anche la signora incontrata, ieri sera, al ristorante. Poi, l’analista diventa, anche se stesso: con la sua storia e il suo corpo.
L’analista osserva ed interpreta. L’interpretazione dello psicoanalista non è, però, soltanto, il puro e semplice chiarire ciò che è oscuro; egli interpreta, anche, in senso teatrale, cioè recita.

L’analista non è soltanto lo schermo su cui vengono proiettati i fantasmi dell’analizzato, egli è, realmente, tutti quei personaggi che gli vengono buttati addosso; in più tutti quei personaggi che sorgono dalla sua storia personale.
Osservare vuol dire cercare di capire, vuol dire calarsi nel mezzo di una scena drammatica. Se l’analizzato gli butta addosso le maschere del padre, l’analista si sente padre, si muove come un padre e come suo padre.
Le fantasie si incontrano e si sovrappongono: la recita inizia.
L’analizzato, in quel momento, è figlio; ricorda quando era figlio, contemporaneamente si identifica con il proprio figlio.
I suoi gesti ripetono, un po’, gli antichi gesti, un po’ i gesti del bimbo che a casa lo aspetta. Pensa a suo padre come ad un uomo grande e buono: grande e cattivo.
Pensa ad un fallo: potente e desiderato, intravisto un giorno uscire dai pantaloni sbottonati del padre, mentre schizzava un violento getto di urina dall’odore acre.
La stessa scena si è ripetuta, ieri. Ma ora è lui il padre sorpreso, più o meno involontariamente, col pene nudo, dal figlio.
La vecchia e nuova storia vengono raccontate, contemporaneamente: il padre e il figlio si confondono. Lì, di fronte all’analista, un padre esibizionista e un figlio curioso vivono il loro desiderio.
Allora gli occhi dell’analizzato fanno scorrere lo sguardo intorno alla stanza; poi, si posano tra le gambe aperte dell’analista, scrutano il rigonfiamento dei pantaloni; la mente soppesa, la mano vorrebbe dirigersi verso quella coscia, salire lentamente ad infilarsi tra le pieghe dell’inguine e sentire la tenerezza dei testicoli, il morbido turgore del pene.

Se l’analista è donna, il gioco è possibile ugualmente: l’analizzato guarda quelle gambe che si chiudono con imbarazzo; tra quelle gambe spunta un fallo e, dietro quel fallo, una vulva, pronta per altre rappresentazioni.
Lo spettacolo continua: l’analizzato si pone sul volto tante maschere, come gli antichi attori. Durante il lavoro dell’analista, le maschere cadono a terra, come involucri vuoti e secchi.
L’analista, come un antico attore, cambia le maschere che gli vengono messe addosso; sente, però, che, dietro a queste maschere, c’è lui stesso con le proprie maschere: quelle che vengono dalla sua storia.
Nel breve tempo di una seduta analitica e nel limitato spazio di una stanza, la rappresentazione della psicoanalisi inizia, si sviluppa e si interrompe.
Ogni giorno, i rumori della strada salgono a disturbare e a commentare la recita.
La psicoanalisi antica ha ridotto l’analisi a transfert e la sua essenza al lavoro su di questo, cioè alle proiezioni dell’analizzato sull’analista; ma la recita è molto più ricca, non saperlo e non tenerne conto castra, irrimediabilmente, l’analisi.
Indubbiamente, è un grande merito della psicoanalisi freudiana aver definito il concetto di transfert e averlo ritenuto fondamentale per il lavoro analitico. Anche il transfert inteso in modo tradizionale è teatro; ma è un teatro ridotto e riduttivo.
Analizzare la cosiddetta nevrosi di transfert, cioè l’attuazione delle emozioni e reazioni infantili di fronte alle figure del lontano passato, proiettate sull’analista, riduce il teatro della psicoanalisi ad una riflessione critica sul teatro della vita; sempre, però, un po’ al di fuori di questa.
Lo psicoanalista classico sta allo psicoanalista pieno come il critico teatrale sta all’uomo di teatro ed allo spettatore. Lo psicoanalista classico e il critico teatrale sono dei tecnici con poca tecnica, perché la loro tecnica è solo tecnica, e spesso è anche una tecnica povera di cultura.

Non ho quasi mai visto uno psicoanalista (tengo a sottolineare il quasi) realmente colto e che conducesse un’analisi senza perdere aspetti fondamentali della psicoanalisi. Ciò è frutto, indubbiamente, d’ignoranza, cioè di cattiva preparazione; ma è anche frutto di una frigidità originaria che teme tutto ciò che non è controllabile da una tecnica miserevolmente semplice.
Non ho quasi mai letto (tengo a sottolineare il quasi), su di un quotidiano una critica di uno spettacolo teatrale realmente completa. Troppo spesso si sente che il critico non è un uomo di teatro e, quindi, non è neppure spettatore. Il suo commento teatrale è dovuto ad una incapacità personale di capire la ricchezza della vita e, quindi, del teatro.
Riconosco, però, che ho letto assai più critiche teatrali pertinenti e coinvolgenti, frutto di una reale competenza, di quanto abbia visto terapie psiconalitiche classiche condotte con sufficiente correttezza ed adeguata preparazione del terapeuta. Ciò deriva dal fatto che la psicoanalisi classica stessa impone limiti culturali alla sua tecnica ed ai suoi tecnici. Un rituale, così schematizzato ed impoverito, schematizza ed impoverisce il lavoro terapeutico e mette a repentaglio l’efficacia del risultato.
Come si può guarire un essere umano che ha un disorientamento nel rapportarsi a se stesso e agli altri, se il lavoro terapeutico ha così paura del rapporto reale e della vita reale? Non rischia di produrre una guarigione fittizia, cioè irreale?
Lo psicoanalista deve, soprattutto, sentirsi pienamente coinvolto, pue se sufficientemente distaccato. Il paziente deve sentire che si sta confrontando con una persona, e non soltanto con una sua proiezione.
Questo deve poterlo percepire fin da subito. Lo psicoanalista deve possedere una salda metapsicologia, conquistata a prezzo di studio faticoso e di lavoro interno, allegro e doloroso insieme; deve possedere una tecnica, acquisita soprattutto praticamente. L’analista deve sempre essere un po’ insicuro, deve, sempre, sapere di stare, un po’, improvvisando. Soltanto così il paziente sarà, per lui, una persona anche da ascoltare e da rispettare nelle sue opinioni.
Lo psicoanalista non deve richiedere soltanto all’analizzato l’impegno; deve chiedere a se stesso la disponibilità ad imparare qualcosa dal paziente. Con questi presupposti, la cura è, realmente, una cura; se questi presupposti non vi sono, la cura è una manipolazione violenta ed una sopraffazione. Senza Eros, il transfert sarebbe impossibile; sarebbe come leggere un brutto copione estraneo e lontano, sarebbe come dover imparare a memoria un testo scritto da altri e per altri.
La recita dell’analisi, se non scopre Eros, è una fatica non solo frustrante, ma inutile. L’analista deve recitare sia i personaggi che gli vengono assegnati durante l’analisi, sia i suoi personaggi. L’analizzato interpreta i ruoli che l’analisi gli fa assumere e anche quelli che l’analista gli butta addosso.
Entrambi debbono recitare anche il loro presente, soltanto così il loro lavoro non sarà una salottiera ricerca del tempo perduto. Il teatro dell’analisi non riproduce la vita: è la vita.
Le maschere che abbiamo indosso non soltanto ci nascondono, anche ci manifestano e ci presentano agli altri. Queste maschere le portiamo in giro ogni giorno e, insieme con gli altri, le costruiamo.
Gli altri indossano le loro maschere, ma anche quelle che noi mettiamo loro addosso: la persona che incontro, per me, è anche mio padre, mio fratello, mia madre, l’amico amato, il confessore temuto.
Succede che una persona appena incontrata, che ci ha guardato con occhi gentili, ci risulti immediatamente antipatica; perché? Perché quello sguardo così gentile, è lo sguardo di un altro; è troppo simile a quello di un amico che ci ha traditi. Altre volte in un incontro fortuito, un tale ci è, subito, simpatico ci piace il suo modo di muovere le mani; mani simili a quelle di un altro: mani tanto amate.
Con quella persona saremo in contatto per breve tempo. In quel breve tempo reciterà i suoi personaggi e noi le imporremo i nostri. Le nostre imposizioni non le saranno del tutto indifferenti; senza volerlo e senza saperlo, sarà, un poco, come noi la vorremo.
La recita della vita è quanto mai complessa, ma inevitabile.
In tutti gli incontri, Eros è presente seppure continuamente contraddetto.
Sadomasochismo e narcisismo lo distruggono e lo fanno fuggire; ma, senza Eros, la vita non sarebbe possibile.
Eros èuna conquista: Eros è la conquista della psicoanalisi. Le difese si alzano rigide, anche, e forse, soprattutto, nel rapporto analitico; ma Eros deve essere una presenza costante e deve essere la conquista finale.

LA CONCLUSIONE DELL’ANALISI
Nessun rapporto psicoanalitico può essere, con assennatezza, considerato concluso. La psicoanalisi, una volta iniziata, la si può soltanto interrompere.
Più il rapporto analitico è stato terapeuticamente valido, più la conclusione non può essere che un’interruzione.
L’interruzione, ad un certo punto, è utile e sana; ma è un’ interruzione: quando il rapporto analitico non è più un rapporto nevrotico, è un rapporto che deve essere spezzato, anche se può evolvere in un altro tipo di rapporto.
La vita deve continuare con altri incontri, con altri desideri da realizzare. Se si è raggiunta la

guarigione attraverso Eros e in Eros, cioè se non si ha più paura di noi stessi, dei nostri fantasmi, degli altri e dei loro fantasmi, ma soprattutto se non si ha più paura del nostro e dell’altrui corpo, è giusto che l’analisi si interrompa.
Il lavoro dello psicoanalista è un lavoro di presa di coscienza. È un lavoro, rigorosamente, scientifico. La psiconalisi va alla ricerca della verità. La verità si scopre nell’interpretazione.
La guarigione attraverso la psicoanalisi non è un’illusione. è difficile dire quando si è guariti,è più facile sapere quando si è ammalati. La psicoanalisi guarisce attraverso la conoscenza, ma la conoscenza non è un’arida acquisizione di dati: la conoscenza vive nella interpretazione. L’interpretazione si attua nei modi che ho descritto. Il primo consiste nel rendere chiaro ciò che era oscuro. Il secondo consiste nel recitare tantissimi personaggi. In ultima analisi i due significati coincidono, perché, comunque sia, l’interpretazione è sempre una rappresentazione. La psicoanalisi guarisce perché non è la parodia della vita, è un momento della vita. Si sviluppa come ogni vita.
L’interpretazione abbatte le difese patologiche, ed Eros, che è la salute, viene riconquistato.
La psicoanalisi è un momento di teatralità particolarmente intenso in cui il teatro e il lavoro sul teatro divengono mezzo di guarigione.

UN ALTRO TEATRO
Vi è un altro momento in cui il teatro in senso stretto diviene una realtà presente per l’uomo: è il momento del sogno. Si dice che i sogni cerchino di realizzare desideri più nascosti: questo è vero.
Si dice, ancora, che il sogno prenda e manipoli i pensieri inconsci e li presenti travestiti, simbolizzati e condensati, per permettere loro, proditoriamente, di esprimersi: anche questo è vero.
Uno dei desideri più profondi del sogno è quello di recitare; ancor più: è quello di mettere in scena una rappresentazione teatrale.
In sogno, ognuno di noi diventa completamente uomo di teatro: autore del testo, regista, interprete. Quando si racconta un sogno, si è disposti ad assumersi le responsabilità dei gesti e delle parole che direttamente compiamo e diciamo; le azioni degli altri le attribuiamo agli altri. Invece, se il sogno è interamente una nostra produzione, noi diciamo e facciamo dire, agiamo e facciamo agire. Quando il sogno raggiunga la pienezza della sua realizzazione è impossibile a dirsi. Per lo più, si riflette sul sogno, quando è ormai un ricordo. In quel momento la rappresentazione viene raccontata e, forse, definitivamente strutturata.
Nel momento in cui si sogna, il gioco teatrale è 10 estremamente ingegnoso. Tutto è predisposto con astuzia e sapienza. Ogni notte gli avvenimenti del giorno appena trascorso e gli avvenimenti di una vita remota rivivono in noi: i miti del nostro passato trovano la loro rappresentazione e proprio come i miti danno un senso alla nostra vita: ecco perché il teatro della psicoanalisi ha così bisogno del teatro dei sogni.

IL TEATRO DEL TEATRO
L’uomo vive la propria vita-teatro inconsapevolmente: recita, ma non sa di recitare, preferisce non essere consapevole, soltanto qualche volta se ne rende conto. Se può, distoglie il pensiero, un po’ infastidito da questa verità.
L’uomo preferisce recitare senza sapere di recitare. Ecco perché ha isolato un momento della sua vita per concedersi il lusso di fare, consapevolmente, teatro Ogni cultura ha le sue rappresentazioni esplicite: danze, azioni mimate, vere e proprie storie rappresentate; ed anche i riti sono un aspetto di questo teatro esplicito.
Le maschere tragiche e le maschere rituali hanno esattamente lo stesso significato e la stessa funzione: ambedue posseggono il carattere della fascinazione e tendono a suggerire un personaggio e ad esasperarne alcune caratteristiche.
La maschera tragica esibisce, la maschera rituale suggerisce; ambedue tentano di controllare i sentimenti e le forze della natura, appropriandosene. Storia e natura debbono essere controllate; per essere controllate debbono essere rappresentate: la maschera tragica e la maschera rituale rendono possibile questa appropriazione. Non esiste una cultura senza un teatro. Le forme e i generi di teatro sono molteplici, non tutti ci sono comprensibili, almeno immediatamente. L’occidente pensa che la sua idea di teatro sia sorta in Grecia. È impossibile situare nel tempo, anche solo approssimativamente, la nascita delle prime rappresentazioni teatrali; come per i riti sacri, se ne può, sempre, intuire la presenza.
Le epoche più arcaiche conoscevano canti corali e danze eseguiti per un pubblico di spettatori e l’elemento rituale e religioso ne costituiva una caratteristica essenziale.
Rito e teatro sorgono dalla medesima esigenza di rappresentare: ogni rito racconta e rappresenta ed ogni scena di uno spettacolo si realizza attraverso gesti rituali.
Per comunicare bisogna rappresentare ciò che si vuole comunicare: il rito e il teatro comunicano e mettono in comune.
Fin dalla preistoria ellenica l’architettura teatrale, nel suo variare, evidenzia interessanti parallelismi con gli schemi architettonici della cultura greca successiva.

La lunga e stretta sala coperta del terzo millennio a.C. portata alla luce a Poliochni, sull’isola di Lemno, il cui uso rimane incerto, rappresenta una delle più antiche sistemazioni di uno spazio teatrale genericamente inteso.
Simile a questa è l’area teatrale del palazzo di Festo a Creta, della fine del terzo millennio: qui ci troviamo a cielo aperto, caratteristica che sarà poi costante del mondo antico e i significati strutturali sono più leggibili, anche nei rifacimenti successivi. Nel secondo palazzo di Cnosso la costruzione di uno spazio destinato a rappresentazioni di vario genere si presenta ancora più articolata e comprensibile nei suoi elementi.
A Creta come altrove, però, la rappresentazione non si lasciava imprigionare in un’unica struttura teatrale; ad esempio, gli spettacoli acrobatici con i tori non potevano svolgersi nel teatro di corte, ma abbisognavano di arene ampie e di luoghi riparati per gli spettatori.
La cultura minoica era così raffinata che possiamo suppone che ogni aspetto della spettacolarità fosse elaborato, tanto da giungere, anche, al virtuosismo. Nell’antica Grecia si è realizzato il momento più alto del teatro occidentale.
La tragedia classica, che vive, più o meno, entro l’arco di un secolo, è l’espressione di una teatralità già consapevole che ha alle spalle secoli di teatro, raffinato e tecnicamente scaltro. Le rappresentazioni satiriche e i Ditirambi, per esempio, esprimono una maturità tecnica molto progredita; intenderli come antecedenti della tragedia è corretto, se si vedono in essi elementi presenti anche nella tragedia; ma è scorretto considerarli esperienze preparatorie o rozze. L’esperienza teatrale nell’antica Grecia fu assai complessa. Il piacere dello spettacolo era quanto mai sentito e l’astuzia teatrale doveva raggiungere sottigliezze forse a noi ignote.
Sarebbe interessante mettere in relazione, con un’analisi approfondita, che qui non è il caso di affrontare, gli agoni atletici e quelli teatrali. Gli antichi elleni amavano le competizioni: competizioni poetiche, atletiche, tragiche. La teatralità le legava tutte. Era un espediente in più per coinvolgere lo spettatore.
I generi spettacolari dell’antichità esprimevano una modulazione continua di sentimenti. La religiosità permeava lo spettacolo greco e il teatro stesso si faceva rito e poi il rito diventava teatro.

DIONISO
Non ritengo che il rito di Dioniso abbia avuto particolare importanza nella strutturazione della macchina teatrale. Dioniso è stato scelto come protettore del teatro, probabilmente come trasformazione di un altro dio, più antico e
l I misterioso. Se la tragedia fosse nata dal ditirambo in suo onore, il mito di Dioniso sarebbe più presente.
Anche quando viene rappresentato, come nelle Baccanti di Euripide, si vede con chiarezza che non si rappresenta la storia per eccellenza della tragedia; ma una delle tante storie possibili da rappresentare. È pur vero che questa è una tragedia abbastanza tarda e che, quindi, il diretto legame con il rito dionisiaco potrebbe essersi spezzato, però, anche nelle tragedie, l’interesse per il mito di Dioniso è assai scarso.
Dioniso era il protettore dei teatri; se si è scelto Dioniso come protettore, indubbiamente un legame tra Dioniso e il teatro deve esserci; ma non credo che si tratti di un legame con il meccanismo teatrale; penso sia collegato con qualche aspetto di quel dio misterioso che sta dietro Dioniso.
Gli dèi dell’epoca classica vengono di lontano, hanno alle spalle molte storie, talora anche contraddittorie.
La teologia antica ama l’esuberanza dei fatti, ama avere dei dalle molte facce, di diverse provenienze. Il più antico Dioniso è anche il dio della natura; è anche figlio dello Zeus sotterraneo e talvolta gli si sovrappone; è quindi anche il dio della parodia dell’universo; è il dio che vive, muore e risorge. è il dio che ha avuto una storia piena di avventure, ricca di personaggi, è giusto quindi che sia il protettore del teatro e dei teatri.
Dioniso è il Dio della fascinazione immediata, come, irradiata, è la fascinazione del teatro. Dioniso è un dio vincitore, ma anche vinto. Dioniso è un dio dominato dalla lussuria delle donne, Dioniso è un dio che sorge da epoche matriarcali; e il teatro esprime, fin dall’antichità, il conflitto tra i sessi.
Dioniso deve proteggere i teatranti dall’ira delle dee madri, che vedono, nel teatro, messa in dubbio le loro pace.
Queste sono proiezioni mie, lo riconosco, ma io ho sempre pensato che, benché Dioniso sia il santo protettore della vita teatrale, i riti in suo onore abbiano poco a che fare con la nascita della tragedia e proprio nulla con la nascita del teatro. Ripeto: la tragedia sorge quando il teatro è già formato e consolidato; certo, i grandi tragici danno al teatro alcuni moduli linguistici e strutturali che permarranno lungo i secoli della nostra storia. Modelli che la nostra cultura ha introiettato, da cui non si è più liberata, e che sono ancora presenti nelle forme di spettacolo considerate più attuali: come la televisione e il cinema.

LA TERAPIA DELLE MASCHERE
Una terapia psiconalistica, se ben condotta, deve ottenere qualche risultato: uno dei risultati consiste nel poter vivere senza l’analisi. Durante l’analisi è utile che si instauri la dipendenza. Questa dipendenza, talvolta, si esprime con un bisogno eccessivo, chiaramente patologico, degli incontri con il terapeuta.
Se però un analizzato non sente mai l’impellente bisogno del suo analista, se non ha mai provato un angoscioso disorientamento all’avvicinarsi dell’interruzione per qualche periodo di vacanza, ciò sta a significare che quell’analisi funziona male, e, quindi, si sta perdendo tempo.
Fa parte del lavoro analitico parlare della dipendenza ed è importantissimo chiarirne i significati. Alla fine, però, l’analisi deve guarire dal bisogno dell’analisi. O meglio: guarire dal bisogno patologico dell’analisi.
L’analisi deve portare alla liberazione di Eros e alla sua riconquista. Per fare questo, tocca desideri così arcaici che la persona si sente prima distruggere e poi ricostruire.
Tutti coloro i quali affrontano l’avventura della psicoanalisi non ne usciranno indenni; qualche cosa andrà perduto e qualcos’altro conquistato. Nessuno, comunque, ritornerà ad essere quello di prima. Così deve essere: altrimenti la psicoanalisi sarebbe una truffa.
Guai a quella analisi che rassomiglia troppo ad un incontro tra persone che spettegolano intelligentemente.
Un’analisi conclusa è un’analisi interrotta bene. Perciò è stata interrotta quando si doveva. Può terminare con tristezza, con allegria, con malinconia; talvolta può terminare con una situazione drammatica di scontro; non sempre quest’ultima situazione emotiva rivela che l’analisi non si dovesse interrompere proprio lì.
Ho detto che è molto difficile riuscire a definire cosa vuol dire essere guariti; e che è più facile sapere quando si è ammalati. L’analisi, almeno in parte, però, deve guarire. Chi è guarito e ha interrotto l’analisi, continuerà per un certo periodo a sentirla presente ed operante; l’elaborazione infatti deve continuare a lungo.
Molte persone dopo l’interruzione dell’analisi non ci pensano più. Si sentono quasi liberate, questo sta a significare che, forse, l’analisi è stata interrotta troppo presto, ma non necessariamente in un momento sbagliato.
L’importante è che l’analisi continui ad agire anche dopo la sua interruzione. Soltanto così la sua efficacia terapeutica si consoliderà ed i risultati ottenuti permarranno nel tempo; anzi, l’analisi avrà dato la possibilità di progredire nella conquista della salute.

Vorrei continuare il parallelismo tra la psicoanalisi e il teatro. Uno spettacolo teatrale quando è ben condotto e realizzato non deve concludersi mai completamente. Non deve dare la sensazione che tutto si è concluso e tutto è da dimenticare. Si prolungherà negli applausi, nei commenti, in ciò che le persone, attori e spettatori, si porteranno dentro. La storia che hanno fatto vivere o visto vivere deve continuare ad agire. Anche i finali d’effetto, tragici ed esplosivi, rimandano a dopo, alla vita che continua. Attori e spettatori sanno che il giorno dopo quella rappresentazione ricomincerà ancora, ancora e ancora… Si intreccerà con la vita di altri.
Il teatro è terapeutico, proprio come la psicoanalisi è una rappresentazione. La terapia del teatro non coincide con la catarsi aristotelica; il fine del teatro e della tragedia non è una purificazione delle o dalle passioni e neppure un alleviamento. Il suo fine consiste nella riappropriazione di Eros.
Il teatro coinvolge e suggestiona, spesso rende lo spettatore dipendente, ma, anche, dimostra. Il dimostrare non è soltanto prerogativa del teatro di Brecht. Il teatro, sempre, dimostra, perché mostra. Non si può mostrare senza dimostrare, perché mostrare è, sempre, interpretare. Se le cose vengono esposte, vengono, anche, create. Il gesto del mostrare illumina ciò che mostra; ma lo illumina di una luce che cambia e modifica l’oggetto mostrato. Mostrare dichiara; ma dichiara perché interpreta. Ciò che era oscuro diviene chiaro Le storie che il teatro racconta mostrano e dimostrano, perciò chiariscono, esprimendoli, i significati del mondo.
Il teatro non è educativo, è terapeutico, perché, attraverso Eros (se uno spettacolo è privo di Eros, non è che un gioco sado-masochistico o narcisistico) ci si può appropriare dei significati della vita e le maschere divengono esplicite: non gabbie, ma inevitabili moduli di espressione in cui, o dietro cui, spettatori e attori possono ritrovare una identità ed anche imparare a giocare con le varie identità.
Il teatro non impone, ma insegna. Le storie vengono raccontate, interpretandole; gli uomini si raccontano ad altri uomini, interpretando il senso degli uomini: ciò che è oscuro diviene chiaro, perché la verità è sempre un racconto.
Quanto più l’azione drammatica si svolge con precisione puntuale seguendo il divenire psicofisiologico dello spettatore, tanto più questi uscirà rinnovato dal teatro.
I personaggi e gli attori, dalla scena, guardano, attraverso le maschere, dentro gli spettatori; questi, a loro volta, mascherati, guardano dentro ai personaggi e agli attori. Gli spettatori diventano personaggi e gli attori diventano spettatori.

IL COPIONE DELL’ANALISI
Una delle obiezioni più comuni, se pure assennate, che vengono mosse alla psicoanalisi è questa: “La psicoanalisi dice di dare la consapevolezza e di chiarire le motivazioni inconsce dei
comportamenti; però, anche, quando vengo a conoscenza del perchè faccio così e colà e anche quando sono consapevole dell’origine di queste mie ansie, non è assolutamente detto che i comportamenti si modifichino e le ansie passino. È già successo che, dopo aver preso coscienza di alcune cause, non consapevoli, di un disagio, questo non sia, per nulla, passato. Tutto è rimasto come prima. Posso essere contento di conoscere perchè ho provato quelle emozioni; ma nulla è però cambiato: d’altra parte perchè dovrebbe cambiare? Molti credono che la psicoanalisi avvenga così: il paziente parla e l’analista immediatamente spiega i perchè nascosti dietro quelle parole. Il paziente racconta un sogno e l’analista inesorabilmente lo interpreta. Il lavoro analitico sarebbe un susseguirsi continuo di botta e risposta: il paziente espone le proprie razionalizzazioni, l’analista gliele smonta, spesso capovolgendo i significati. Un’analisi, osservata dall’esterno, si sviluppa con questo rituale. Le persone, però, non sono solo le loro maschere esterne e non pensano solo i pensieri che vengono espressi ad alta voce.
Il paziente è composto di tante altre maschere nascoste, che fanno capolino qua e là. Ha tanti pensieri oscuri che si muovono e ribollono; così pure l’analista ha dietro di sè la sua storia e dentro di sè tanti pensieri, alcuni li manifesta, altri no. Analista e analizzato vengono di lontano e sentono assai più di quanto non sappiano, però sanno assai più di quanto dicano.
Le cosidette interpretazioni non hanno valore in sè; il valore lo acquistano per come sono dette. Il buon didatta artigiano impiegherà molto tempo per insegnare all’allievo-apprendista

il ritmo e le intonazioni delle interpretazioni.
Un chiarimento è utile soltanto se è detto nell’unico momento in cui doveva essere detto. Se non è ancora tempo può perdere l’efficacia e spesso non la ritroverà mai più: allora, molto è andato sprecato. Anche l’intonazione è fondamentale. Un’intonazione sbagliata può fare alzare le difese che si erano appena abbassate, può rendere imcomprensibile ciò che viene detto, può mandare messaggi contraddittori o può spingere, talvolta, il paziente alla fuga per il riacutizzarsi dei sintomi.
L’intonazione non è soltanto il modo in cui le parole vengono dette; l’intonazione si esprime attraverso la totalità del corpo dell’analista. Sbaglia di molto quell’analista che crede che trovar la giusta intonazione significhi dare al suo corpo e alle sue parole pacatezza, affettazione e indifferenza. L’unico tono efficace è quello
insegnato da Eros, cioè una piena disponibilità fisica, seppur astutamente guardinga. L’interpretazione chiarisce, ma, anche, rappresenta, e rappresenta proprio in senso teatrale. Interpretare, in sento teatrale, consiste nel dire le cose al tempo giusto, con l’intonazione giusta.
L’analista scrive il suo copione: lentamente e sistematicamente; l’analizzato, invece, più vicino al comico dell’arte, improvvisa.
L’analista deve saper coinvolgere l’analizzato, ma questi deve saper coinvolgere il proprio analista Quando è proprio un problema dell’analizzato il non saper coinvolgere gli altri, è compito dell’analista farsi maestro di recitazione. Guai a quel paziente che fa sbadigliare troppo il suo analista; guai a quell’analista che annoia troppo il suo paziente!
Se la commedia che si sta costruendo e recitando è noiosa per entrambi, è meglio interrompere la rappresentazione e riprenderla con altri.
Nel lavoro analitico, la semplice conoscenza non è sufficiente; anzi, talvolta, è frustante, perchè si rimane delusi nel vedere che la presa di coscienza non ha procurato nessun effetto positivo; anche se può darsi che gli effetti si vedano in seguito, e che, al momento, tutto venga bloccato dalle resistenze. Quando la conoscenza pura e semplice di ciò che è accaduto e accade dentro di noi ci lascia indifferenti e insoddisfatti, quella non è stata una reale presa di coscienza. Le cose da sapere sono state dette fuori tempo, perciò sono rimaste estranee ed esterne. La conoscenza della verità è sempre efficace, ma la verità, soltanto detta e non amata, non è la verità.
L’autore di un testo di teatro, quando scrive, deve saper dosare le battute, ritmare la successione delle scene e porre al momento giusto le trovate ad effetto. Coloro che realizzeranno il copione dovranno saperne cogliere ed esprimere le possibilità interne, attualizzare ciò che era in potenza ed anche inventare qualcosa di nuovo. Le parole, inerti, sulla carta, debbono diventare una storia viva.
Uno spettacolo teatrale non è circostritto entro il copione. I testi teatrali fanno più parte della storia della letteratura e meno di quella del teatro.

Il teatro vive e si realizza nello spazio di tempo in cui lo spettacolo accade e si dipana davanti agli spettatori. Questo è vero persino per il cinematografo che, è sempre, un po’ più imbalsamante e inerte del teatro in senso stretto. Sullo schermo si muovono soltanto ombre e fantasmi che ripetono indefinibilmente, allo stesso modo, gli stessi gesti; ma nel buio della sala, vi sono persone vive, che osservando e ascoltando, modificano, sempre, quelle immagini e quei suoni. Anche uno spettacolo cinematografico non si ripete mai identico a se stesso perchè coloro che vi assistono lo cambiano sempre un po’, seppure lo vedessero dieci volte. Anche quando si inventa e si gira un film, gli spettatori sono già presenti, magari soltanto per ragioni economiche.
Il teatro, indubbiamente, è più immediato e vitale del cinema. Il lavoro dei teatranti coincide con quello degli psicoanalisti. Le battute, sulla scena, devono essere dette al momento opportuno, altrimenti la loro efficacia è perduta. L’attore deve far percepire il suo corpo, che coincide col personaggio e gli spettatori devono far sentire la loro presenza. Nessun attore riuscirà mai a ripetere la stessa battuta nello stesso modo. La super- marionetta si muove sempre in modo irripetibile, anche se ha studiato la parte e i gesti nel modo più meccanico e ossessivo possibile.
Ogni spettacolo teatrale esprime una teoria: estetica, operativa, politica; realizzando anche esigenze economiche.
Tutto questo corrisponde alla teoria scientifica dello psicoanalista. Il copione e la messa in scena corrispondono alle acquisizioni tecniche dell’analista e le rappresentazioni teatrali, sera per sera, equivalgono agli incontri analitici, giorno per giorno. Dal momento in cui l’autore del testo scrive su di un foglio di carta: atto l, scena I, al momento della rappresentazione, lo spettatore è presente; così da quando il teorico della psicoanalisi scrive le teorie, al momento della seduta, l’analizzato deve essere presente.
Le teorie scientifiche sono sempre almeno un canovaccio. Ogni trattato di scienza, l’ho già detto, è un testo drammatico. Gli uomini che useranno quelle teorie per orientarsi nel mondo, metteranno in scena una rappresentazione, interpretandole. L’autore del teatro, mentre scrive, interpreta i personaggi che inventa e contemporaneamente interpreta il ruolo di attore. il regista fa il regista, ma anche, interpreta il ruolo del regista, così lo scenografo, il musicista, il sarto di scena.
L’attore interpreta un personaggio e interpreta il personaggio dell’attore. Lo spettatore che osserva lo spettacolo e, più o meno, si coinvolge, rappresenta il ruolo di spettatore e poi inconsapevolmente interpreterà qualcuno dei personaggi che ha visto sulla scena. Egli interverrà solo alla fine, direttamente, con l’applauso o con l’indifferenza; ma la sua presenza è costante e palpabile per tutto lo spettacolo.

Nel teatro, chi è l’analista e chi è il paziente? Proprio quest’ultimo parallelismo con la psicoanalisi non voglio esprimerlo chiaramente; l’importante però è che, al termine di ogni rappresentazione, come al termine di ogni analisi, teatrante e spettatore, analista e paziente, siano un po’ guariti, perchè si sono un po’ ritrovati. Qualche scienziato ben pensante potrà essere molto turbato dall’accostamento irriverente di teatro e scienza; ma io assicuro che avviene così: ed io sono un uomo d’onore.

IO E LE MIE MASCHERE
Il duplice significato dell’interpretazione nell’analisi: l’interpretazione come rappresentazione e l’interpretazione come chiarimento, ha come fine la guarigione. In cosa consiste la guarigione per la psicoanalisi? Questa è una domanda senza senso; la domanda corretta è: in che cosa consiste la guarigione? La guarigione passa attraverso la sapienza, perché la verità è sempre terapeutica.
La verità è interpretazione, quindi il guarire vive dell’interpretazione: sia come chiarificazione, sia come recita. Per orientarsi nel mondo, bisogna saper interpretare la nostra realtà e quella degli altri. La capacità di interpretare non consiste nel pretendere di conoscere tutto; ma nel desiderio di cogliere il senso di ciò che è attorno e di ciò che è dentro di noi.
I sintomi della malattia sono segnali; dietro a quei segnali se ne nasconde la ragione: la persona riassume tutto questo. Inoltre, causa ed effetto non si dispongono mai in una successione che segua una direzione univoca; la loro interdipendenza è quanto mai equivoca. La causa e l’effetto girano in tondo ed è impossibile conoscere con certezza le concatenazioni causali.
I sintomi sono un messaggio. Primo compito della scienza è interpretare questi messaggi. La guarigione passa attraverso la consapevolezza; ma come ho detto, questa non è sufficiente. Per guarire bisogna anche modificare. La salute è indefinibile. La salute piena è come la verità: è sempre oltre.
Il senso della salute è la felicità. Verità e felicità coincidono, la salute e la scienza tendono ad essa. Il fine del vivere, questo lo dico senza mezzi termini e tentennamenti, deve essere la felicità. Come il fine della ricerva deve essere la verità: non voglio che sia altrimenti.
Gli uomini si muovono nel tentativo di realizzare la felicità, che è sempre oltre e mai altrove.
La malattia è una sofferenza che rende penoso il vivere. La malattia può condurre alla morte; ma non è la morte. La morte viene dopo la malattia. Soltanto la morte è realmente altrove. La malattia disturba la vita perché disturba la felicità possibile. La malattia disturba la felicità della rappresentazione, non la rappresentazione. Il teatro ha inventato le maschere; le maschere teatrali sono la realizzazione completa e plastica di come si manifesta l’uomo. Dietro la maschera teatrale c’è il volto dell’attore; ma il volto dell’attore è, a a sua volta, una maschera.

La salute mentale non consiste nel liberarsi delle maschere; se così fosse la salute coinciderebbe con l’annientamento; consiste nel riuscire ad indossare maschere che non opprimano. Vivere felici è possibile, se le maschere che costituiscono l’uomo non ne sono anche il carcere. L’uomo è le proprie maschere. Dietro la maschera c’è un’altra maschera. Riuscire ad essere se stessi non consiste nello scoprire un nucleo smascherandolo: il nucleo è una nuova maschera. Essere se stessi consiste nel sentirsi bene nelle proprie maschere. La psicoanalisi non insegna a recitare: di ciò l’uomo non ha bisogno; insegna a recitare bene; cioè felicemente. Quando una persona dice “Con gli altri mi sento a disagio, compio gesti che non vorrei compiere, che sento artefatti e finti: in ultima analisi nomi sento me stesso perché so di essere diverso”, dice una menzogna: la più grande che potrebbe pronunciare: quella persona, in realtà, è anche così, come non vuole essere.
Ogni nostro gesto ci appartiene; se siamo rattrappiti ed inibiti di fronte agli altri, vuol dire, lapalissianamente, che siamo persone inibite e rattrappite di fronte agli altri. Siamo pur sempre noi che rimaniamo muti e rigidi in pubblico. La frase di prima dovrebbe essere espressa così per non essere una menzogna: “Io non sono soltanto come mi presento di fronte agli altri, io sono anche un altro e quel modo mio di essere in pubblico non mi piace, mi fa soffrire”. La salute, quindi, consiste nel saper giocare felicemente con le maschere, io mi sento a mio agio con me stesso, se recito senza fatica, la mia parte, o meglio, le mie parti. Io sono un insieme di maschere; certamente non tutte le maschere possibili, altrimenti non sarei. Perciò io sono irripetibile, perché irripetibile è questa mescolanza di personaggi che mi caratterizza. Io sono me stesso se sono contento di essere quello che sono e se riesco a comunicare agli altri tutto questo. La verità della rappresentazione è la verità più salda per l’uomo. Io so di essere tutto questo ed io conosco, almeno in parte, i miei personaggi. se così è posso ritenermi sano.

Psicanalisi contro n. 15 – Nuova psicoanalisi nuova sessualità (VIII parte)

domenica, 1 dicembre 1996

L’ AMORE
1. Per amare gli altri bisogna amare se stessi: la masturbazione può essere un segno di questo amore per sé. L’amore poi ha bisogno di essere amore per qualcun altro. Cerchiamo di parlare anche di questo senza falsi pudori.
La vita è dunque un’avventura, come abbiamo già visto. Quando sia iniziata quella della umanità non lo sappiamo con sicurezza, ma sappiamo quando inizia quella di ogni singolo uomo: quando i due gameti si incontrano nel concepimento. L’idea di far precedere la vita umana da un periodo “preumano” in cui l’uomo concepito viene chiamato embrione o pre-embrione è solo un’ubbia tanto infondata quanto mortifera, che si scatena contro l’uomo più debole che ci sia: il bambino nel ventre materno. Il male esiste da quando esiste l’uomo e l’inconscio sociale lo ha introiettato; la sola speranza che abbiamo di estirparlo è che il rispetto della vita inizi fin da subito anche se le leggi permettono che sia altrimenti. La scienza potrà allungare le prospettive della vita, i filosofi, i politici e i poeti potranno vagheggiare un mondo migliore, ma tutto questo non servirà se l’inconscio sociale non farà proprio il rispetto assoluto di ogni vita umana, a incominciare da quella del bambino non ancora nato.
La vita dovrebbe sorgere solo per un atto d’amore di un maschio e di una femmina che in un amplesso generano un altro essere umano. Troppo spesso non è così: si procrea per calcolo, per noia, per distrazione, addirittura per stupida violenza. In ogni caso la prima pulsione che la nuova vita prova è quella dell’amore. L’amore deve essere piacere dato e ricevuto. Amore e piacere sono uniti da sempre e devono restare uniti per sempre.
“l’amor che move il sole e l’altre stelle” è lo stupendo endecasillabo che chiude la Divina Commedia dantesca: l’amore muove tutto ed è motore di tutto. Ci si può innamorare bene; ma ci si può innamorare male? Da sempre gli esseri umani si innamorano, nessun periodo della storia e nessuna forma di società hanno potuto fare a meno dell’amore. Quindi tutti dovrebbero sapere e forse sanno, di fatto, che cosa sia l’amore; eppure è difficilissimo parlarne e tentarne una definizione. L’amore non solo è un dio, ma è forse l’espressione più adeguata della grandezza di Dio, per cui bisogna accostarsi ad un tale argomento con umiltà, se pure non sarà possibile, per quanto si tenti di parlarne in modo semplice, sfuggire al rischio dell’ambiguità e dell’incompletezza. L’amore deve essere soltanto salute; però se è vero che tutti siamo innamorati, almeno in potenza, è allo stesso tempo vero che tutti esprimiamo il nostro amore anche con forme che sono patologiche. Questo è dovuto soprattutto al fatto che la malattia è sempre intrecciata con tutte le espressioni dei sentimenti umani e li assedia da tutte le parti. La cosa è tanto complessa che è spesso difficile distinguere l’amore sano dall’amore malato. Bisogna però fare lo sforzo di distinguere e di ricercare l’amore sano, poiché l’altro – quello malato – non può essere davvero amore. Si possono individuare alcune forme specifiche attraverso cui la nostra cultura ha elaborato i concetti dell’amore e dell’innamoramento. Innanzi tutto vi sono coloro che distinguono il “vero amore” da tutti gli altri. E’ considerato tale l’amore “puro”, quello “oblativo” di chi dà senza chiedere nulla, che è espressione esclusivamente di sacrificio dello spirito, prescindendo addirittura dal desiderio del corpo e che l’umanesimo all’Annibal Caro faceva chiamare “amore platonico”, benché Platone non avesse mai teorizzato qualcosa di simile. Costoro disprezzano e giudicano esseri inferiori quelli che teorizzano l’amore terreno, dei sensi, non solo del sesso, ma che però comprende il desiderio del corpo, il contatto fisico, l’unione nell’amplesso.

2. In realtà Platone non seppe parlare d’amore, se pure non disse quello che l’umanesimo degli orecchianti gli ha fatto dire. Il suo discorso sull’amore resta empio ed immorale, specialmente come viene espresso dal Simposio, dove mette in bocca a Socrate qualcosa che quest’ultimo non avrebbe certamente mai detto di sua iniziativa. Secondo questa intenzione platonica, Socrate incomincia il suo discorso sull’Amore – il quale sarebbe un démone e non un dio, figlio di Acquisto e Necessità (Poros e Penìa) – dicendo che la prima attrazione che l’uomo prova è quella per il bel corpo e da questo passa poi per gradi successivamente sempre più nobili ed elevati a desiderare la bellezza in sé, per poi giungere infine al desiderio delle belle anime, della giustizia, della scienza e del bello in sé per ultimo. Chi vuole amare correttamente: “…conviene che fin da giovane cominci ad accostarsi ai bei corpi e dapprima, se il suo iniziatore lo inizia bene, conviene che s’affezioni a quella persona sola e con questa produca nobili ragionamenti; ma in seguito deve comprendere che la bellezza di un qualsiasi corpo è sorella a quella di ogni altro e che, se deve perseguire la bellezza sensibile delle forme, sarebbe insensato credere che quella bellezza non sia una e la stessa in tutti i corpi. Convinto di ciò deve diventare amoroso di tutti i bei corpi e allentare la passione per uno solo, spregiandolo e tenendolo di poco conto. Dopo ciò giunga a considerare che la bellezza della anime è più preziosa di quella del corpo, cosicché se qualcuno ha l’anima buona ma il corpo fiorisca di poca bellezza, egli ne sia pago lo stesso, lo ami, ne sia premuroso, e produca e ricerchi ragionamenti tali da rendere migliori i giovani per essere poi spinto a contemplare la bellezza nelle attività umane e nelle leggi, e a vedere come essa è dappertutto affine a se stessa finché non si convinca che la bellezza del corpo è ben piccola cosa. Ma dopo le attività umane, l’iniziatore lo deve condurre alle varie scienze perché veda ancora la loro bellezza e, ormai fatto l’occhio a una bellezza così vasta, non sia più affezionato, come un servo di casa, a un solo aspetto della bellezza, di un fanciullo o di un uomo, o di una sola attività, né sia più, come un servo, sciocco e frivolo, ma, rivolto a contemplare il vasto mare della bellezza, cavi fuori da sé un gran numero di nobili ragionamenti e splendidi pensieri, nell’illimitata aspirazione alla sapienza, finché, rinvigoritosi e sviluppatosi, possa scorgere una scienza unica e siffatta che è la scienza delle bellezze (…) Chi sia stato educato fin qui nelle questioni d’amore attraverso la contemplazione graduale e giusta delle diverse bellezze, giunto che sia ormai al grado supremo dell’iniziazione amorosa, all’improvviso gli si rivelerà una bellezza meravigliosa per sua natura (…) quella stessa in vista della quale ci sono state tutte le fatiche di prima (…) In più questa bellezza non gli si rivelerà con un volto né con mani, né con altro che appartenga al corpo (…) Perché questo è proprio il modo giusto di avanzare (…) cominciando dalle bellezze di questo mondo, in vista di quella ultima bellezza salire sempre (…) dai bei corpi (…) alle belle scienze e dalle scienze giungere infine a quella scienza che è la scienza di questa stessa bellezza, e conoscere all’ultimo gradino ciò che sia questa bellezza in sé” (Simposio XXIX, in Platone, Opere, Laterza).

Un processo, quello platonico, che metterebbe al più basso grado di una scala di valori la bellezza del corpo: cosa questa che ripugna al senso profondamente radicato nella cultura greca di kalocagathìa che riconosce alla bellezza fisica un alto valore “agogico” in quanto espressione ad un tempo anche di bontà interiore e riflesso del bene assoluto. Inoltre Platone commette la leggerezza di ridurre l’amore a contemplazione. Si ha così una sorta di primo contrasto tra i teorici dell’amore, sentimento dell’anima, e quelli dell’amore passione che coinvolge anima e corpo. Ci sono vari modi di concepire l’amore e tanti tipi di amore: si parla di amore per i figli, per i genitori, per i fratelli, per un’idea, per l’arte, tutte forme autentiche di amore. C’è poi l’innamoramento che coinvolge anche il corpo, che non è assolutamente da ritenere inferiore a quello dello spirito. E’ vero, però, che, purtroppo, spesso l’amore fisico viene considerato, sotto sotto, dall’inconscio sociale di tutti un po’ colpevole: “Non facevamo niente di male” resta l’espressione più diffusa per far intendere che non si stava facendo niente di sessuale.

3. La scienza anche parla d’amore: lo fanno in particolare la psicologia e la psicoanalisi, dando prova peraltro di grande inadeguatezza nei confronti della grandezza sacra dell’argomento. L’arte ha saputo e sa parlare d’amore meglio di qualunque scienza. Ciò non di meno la scienza butta la sua luce sul problema servendosi del suo linguaggio specifico e questo può servire a chi voglia capire qualcosa di più intorno all’amore. Sigmund Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’Io del 1921 afferma in modo esplicito che l’amore è un atteggiamento sentimentale che ha le sue radici esclusivamente nella pulsione sessuale:

“Nel quadro di questo innamoramento ci ha colpito fin dall’inizio il fenomeno della sopravvalutazione sessuale, il fatto cioè che l’oggetto amato sfugga entro certi limiti alla critica, che tutte le sue qualità vengano apprezzate più di quelle delle persone non amate o più che nel periodo in cui l’oggetto stesso non era amato. In virtù di una rimozione più o meno efficace, oppure di una messa fuori gioco delle tendenze sessuali, sorge l’illusione che l’oggetto sia amato anche sensualmente a causa dei suoi pregi spirituali, mentre al contrario è solo il fascino sensuale che ha potuto conferirgli quei pregi. La tendenza che qui falsa il giudizio è quella all’idealizzazione”

(Opere, vol. IX, pag. 300, Boringhieri).

Secondo il fondatore della psicoanalisi, ci sono due tipi fondamentali di innamoramento: quello narcisistico e quello anaclitico. Il primo ha le sue origini nell’amore provato per una persona simile al soggetto, le cui caratteristiche vengono ritrovate nel nuovo oggetto d’amore. L’innamoramento di tipo anaclitico è quello che si prova per qualcuno che ricorda per qualche aspetto persone importanti incontrate nei primissimi anni di vita, ma senza le caratteristiche di somiglianza con il soggetto che si innamora. In entrambi i casi, secondo Freud, ha luogo una sopravvalutazione dell’oggetto amato che viene idealizzato, tanto che finisce col divorare l’ Io, il quale scompare di fronte ad esso. Tutto quello che appartiene all’oggetto amato diventa bello e tutto quello che fa viene considerato giusto, in una condizione di dipendenza del giudizio che sbalordisce la stessa persona che l’ha sperimentata, quando accade, per esempio, che l’amore finisca.

Uno scienziato che, negli anni cinquanta, ha tentato lo studio del fenomeno con risultati interessanti è stato M. Balint il quale, riallacciandosi a Ferenczi parla di un “innamoramento primario”. Quest’ultimo sosteneva che l’uomo esprimerebbe nel rapporto sessuale il desiderio di ritornare nel ventre materno (vale qui la pena di sottolineare come alcune teorie della prima psicologia dinamica fossero strettamente limitate all’osservazione del maschio e non sembrassero davvero porsi i problemi anche dal punto di vista femminile). Per Balint, come dice nel suo libro su L’amore primario, il bambino prova dapprima il desiderio di essere amato in modo assoluto ed incondizionato e questo desiderio d’amore ritorna ogni volta che l’uomo si innamora di qualcuno e questo spiega anche perché l’amore sia caratterizzato da un desiderio di possesso così esclusivo:”sempre, dovunque, per tutto quello che sono, senza la minima critica, senza il più piccolo sforzo da parte mia, senza contraccambio (M. Balint, 1952).

4. La cultura ed il senso comune hanno poi fissato nell’inconscio inividuale e sociale il binomio amore e morte: una bellissima poesia di Saffo ne parla in modo ineguagliabile: “…Subito a me/ il cuore si agita nel petto/ solo che appena ti veda, e la voce/si perde sulla lingua inerte./ Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,/ e ho buio negli occhi e il rombo/ del sangue alle orecchie./ E tutta in sudore e tremante/ come erba patita scoloro:/ e morte non pare lontana…” ( trad. Quasimodo). In tempi moderni ed in un contesto trasgressivo il concetto è stato ribadito forse meno bene dal cinema dello scomparso regista tedesco Fassbinder che, in Querelle, girò una bella sequenza con una canzone di amore e di morte interpretata da Jeanne Moreau, oppure ancor più di recente in film come l’americano Crash, in questi tempi sugli schermi, dove l’orgasmo e la morte si realizzano insieme. Del resto non è questo un retaggio solo della nostra cultura: basti pensare a come il binomio sia presente nella cultura indiana. Questo forse può aiutarci a capire perché ancora oggi si abbia tanta paura dell’innamoramento e dell’amore.

Roland Barthes nel suo volume Frammenti di un discorso amoroso dice bene come oggi ciò che viene considerato indecente non sia tanto la sessualità, il sesso vero e proprio, ma piuttosto il sentimento. Ciò è in parte vero: viviamo in una società in cui l’amore è stato ridotto ad involucro di contenuti che spesso si riducono a pornografia, ovvero ad un modo malato di accostarsi al corpo dell’altro; anche se non è vero che di per sé la pornografia escluda necessariamente il collegamento con qualche forma d’amore.

Di fatto non si ha il coraggio dei propri sentimenti: quando si piange per amore ci si vergogna di essere visti; mentre invece non ci si vergogna di ridere in pubblico. Forse è giunto il momento di rivendicare per ciascuno il diritto di piangere senza imbarazzo, di gioire e soffrire pubblicamente per amore; per tutti dovrebbe essere giunto il tempo di rispettare il sentimento di un amore felice o infelice che sia.
Protetto o calpestato, comunque l’amore sopravvive a tutte le vicissitudini in moltissime forme. Una forma particolare di amore è quella dell’innamoramento “in analisi”, ciò è a dire l’innamoramento del paziente per lo psicoanalista e quello reciproco dell’analista per la persona che ha in cura. Bisogna innanzi tutto precisare che si tratta di qualcosa di abbastanza diverso dal transfert se pure non sia totalmente altro da quel meccanismo transferenziale teorizzato a suo tempo da Freud, e questo soprattutto perché in ogni innamoramento viene messo in opera un transfert. E’ mia profonda convinzione che un lavoro di analisi non possa procedere bene se non si verifica appunto quell’innamoramento, che trascende il transfert, che non è l’indispensabile alleanza terapeutica, e non può essere ridotto neppure ad un moto di simpatia o di fiducia, ma è un sentimento di amore che comprende anche il desiderio fisico. Questo deve avvenire indipendentemente dal fatto che all’analista spetti il dovere di non soddisfare questo desiderio durante il periodo del rapporto analitico e debba negare anche a se stesso ogni fisica soddisfazione del sentimento amoroso che pure lo deve legare al suo paziente, pena brutti rischi per il comune impegno terapeutico. Per ragioni legate alla nostra cultura, sono le donne che per prime si lasciano andare a questo sentimento d’amore, e questo perché i pazienti maschi hanno problemi a riconoscerlo nei confronti dell’analista, o perché si tratta di un terapeuta maschio, o perché il ruolo terapeutico della psicoanalista donna ne rende più complessa l’esplicitazione. L’innamoramento carica l’analisi della propria energia di cui si giovano entrambi: paziente e terapeuta; ma deve fare i conti con l’irriducibilità del desiderio che le pazienti femmine soprattutto pretendono di soddisfare ad ogni costo. Anche questo è un condizionamento culturale, infatti la paziente innamorata non può fare a meno di applicare a se stessa il ragionamento che la donna applica nei confronti di ogni maschio che ella desidera e che non prevede mai il rifiuto dell’offerta di sé. Fin dall’infanzia la donna ha introiettato che il rifiuto dell’offerta sessuale è prerogativa esclusiva della donna, mentre il maschio non può che rallegrarsi di avere una opportunità sessuale in più che non può in ogni caso rifiutare. Questo condizionamento culturale e l’incapacità di accettare le ragioni del rifiuto del maschio analista compromettono purtroppo molte analisi ed è meglio allora interrompere il rapporto ed eventualmente cambiare analista. Il maschio, più avvezzo alla frustrazione del proprio desiderio sessuale, sopporta meglio questo tipo di “astinenza” e riesce ad assorbirla più facilmente – insieme magari allo sconvolgimento dovuto alla scoperta della pulsione omosessuale – senza compromettere il lavoro analitico. Comunque, con tutte le sue contraddizioni e controindicazioni, l’innamoramento in analisi resta una tappa fondamentale per il successo della cura.

5. Non credo che ci sia davvero distinzione tra amore fisico e amore spirituale, né ritengo l’uno inferiore all’altro, anzi non penso proprio che esista un amore solo fisico o un amore solo spirituale. Il primo sentimento d’amore lo si prova nel ventre materno, anche se non è – necessariamente – rivolto alla persona della madre. Quello dell’embrione nell’utero materno è un amore che si esprime anche sessualmente, che si rivolge su di sé, sulla madre e su quello che si percepisce del mondo esterno. Oggi l’ecografia è in grado di svelare molto della vivacità della vita affettiva dell’embrione e del feto e, oltre ad altre verifiche, l’esame della vita intra-uterina dei gemelli ha offerto risultati sorprendenti della loro inter-relazione fin dalle prime settimane di gestazione. La psicologia fetale e la teoria dell’apprendimento prenatale hanno dato prove ampie della completezza e dell’autonomia della vita fisiologica ed affettiva del feto e quindi dell’autonomia dei sentimenti e della precocità della formazione dell’inconscio. Che l’amore fin da subito abbia una funzione determinante anche nel garantire la sopravvivenza stessa è stato recentemente provato da un caso verificatosi nel Massachussets l’estate scorsa, dove una di due gemelline precoci, nate con dodici settimane d’anticipo, malgrado tutte le cure, stava deperendo e forse morendo in una delle incubatrici in cui erano state poste separatamente, finchè un’infermiera ebbe l’idea, semplice e geniale ad un tempo, di rimetterla nell’incubatrice stessa dell’altra gemellina: da quel momento la piccola, stretta dall’altra in un abbraccio, iniziò a riprendersi e presto assunse dimensioni normali e fu fuori pericolo.

6. Viene prima il sesso o prima l’amore? Non credo sia possibile scindere questo bisogno dell’altro nelle sue componenti spirituali e fisiche: certo è solo che prima viene l’amore e il bisogno di essere amati, prima dello stesso istinto di sopravvivenza. Contrariamente a quanto credeva Freud, è proprio il bisogno di sopravvivere che si appoggia alla pulsione di amore per realizzare il suo scopo e non viceversa. Prima di tutto esiste il bisogno di un corpo da cui ricevere e a cui dare calore, soddisfatto questo bisogno primario nel contatto psico-fisico con il corpo dell’altro – della madre, o di qualunque altro suo sostituto, maschio o femmina, famigliare od esterno – si passa alla ricerca del soddisfacimento degli altri bisogni, e prima di molti altri di quello del nutrimento che assicura la sopravvivenza. Poi la pulsione amorosa si articolerà in mille modi diversi, la scelta dell’oggetto dipenderà da una infinità di variabili, tutte collegate all’esito del primo rapporto amoroso, dal grado di frustrazione e di soddisfacimento ottenuto. L’amore inoltre non è immune da patologie: anch’esso correrà il rischio di cadere in quelle forme primarie di difesa che sono il narcisismo ed il sadomasochismo, che lo snatureranno e ne faranno un sentimento anche capace di avere un esito perverso che non sarà più amoroso, ma violento e distruttivo. Le scelte di oggetto saranno certo condizionate dalla cultura e dall’inconscio sociale, ma nessuna potrà essere giudicata di per sé perversa, se non si esprimerà in quelle forme – appunto – narcisistiche o sadomasochistiche, che ledono la dignità dell’uomo, che perdono di vista la sacralità della persona umana, segno concreto della divinità in terra.

Un accenno soltanto vorrei dedicare alla gelosia, ritenuta una delle patologie più frequenti del rapporto amoroso. Non è da condannare la gelosia in sé in quanto desiderio di esclusività di un rapporto che non può essere immaginato – da chi ama – eguale a nessun altro, ma è da condannare la gelosia inconsapevole che è invidia, proiezione, identificazione, non riconosciute e che produce violenza e prevaricazione della libertà dell’altro, la gelosia insomma che non rispetta la dignità di chi ama e di chi è amato.

7. Per gioco, ho elaborato un piccolo “test” che può servire a dare buone indicazioni sul grado di effettivo innamoramento verso una persona. Sapendo che è poco più che uno scherzo, che inoltre contiene un piccolo trucco, lo propongo, magari come diversivo per le giornate di festa della fine d’anno.

Il gioco si articola in cinque domande:
1) Usereste lo stesso spazzolino da denti del vostro
partner?
2) Considerate sacro il suo corpo?
3) Vi fa piacere che lui abbia successo in vostra presenza?
4) Vi è successo di non credergli?
5) Insieme alla felicità, provate un senso di disperazione per il fatto di esserne innamorati?

Il punteggio massimo è quello corrispondente a cinque “sì” come risposte. Chi ha meno di tre risposte positive non può considerarsi troppo sicuro del suo amore. Buone Feste!