Psicoanalisi contro n. 16 – Il teatro della psicoanalisi

dicembre , 1996

La psicoanalisi fa di ogni seduta una recita. L’analizzato interpreta molti personaggi; vive antiche emozioni e chiede all’analista di diventare complice in questo suo gioco; allora, quest’ultimo diventa: padre, figlio, fratello, madre ed anche la signora incontrata, ieri sera, al ristorante. Poi, l’analista diventa, anche se stesso: con la sua storia e il suo corpo.
L’analista osserva ed interpreta. L’interpretazione dello psicoanalista non è, però, soltanto, il puro e semplice chiarire ciò che è oscuro; egli interpreta, anche, in senso teatrale, cioè recita.

L’analista non è soltanto lo schermo su cui vengono proiettati i fantasmi dell’analizzato, egli è, realmente, tutti quei personaggi che gli vengono buttati addosso; in più tutti quei personaggi che sorgono dalla sua storia personale.
Osservare vuol dire cercare di capire, vuol dire calarsi nel mezzo di una scena drammatica. Se l’analizzato gli butta addosso le maschere del padre, l’analista si sente padre, si muove come un padre e come suo padre.
Le fantasie si incontrano e si sovrappongono: la recita inizia.
L’analizzato, in quel momento, è figlio; ricorda quando era figlio, contemporaneamente si identifica con il proprio figlio.
I suoi gesti ripetono, un po’, gli antichi gesti, un po’ i gesti del bimbo che a casa lo aspetta. Pensa a suo padre come ad un uomo grande e buono: grande e cattivo.
Pensa ad un fallo: potente e desiderato, intravisto un giorno uscire dai pantaloni sbottonati del padre, mentre schizzava un violento getto di urina dall’odore acre.
La stessa scena si è ripetuta, ieri. Ma ora è lui il padre sorpreso, più o meno involontariamente, col pene nudo, dal figlio.
La vecchia e nuova storia vengono raccontate, contemporaneamente: il padre e il figlio si confondono. Lì, di fronte all’analista, un padre esibizionista e un figlio curioso vivono il loro desiderio.
Allora gli occhi dell’analizzato fanno scorrere lo sguardo intorno alla stanza; poi, si posano tra le gambe aperte dell’analista, scrutano il rigonfiamento dei pantaloni; la mente soppesa, la mano vorrebbe dirigersi verso quella coscia, salire lentamente ad infilarsi tra le pieghe dell’inguine e sentire la tenerezza dei testicoli, il morbido turgore del pene.

Se l’analista è donna, il gioco è possibile ugualmente: l’analizzato guarda quelle gambe che si chiudono con imbarazzo; tra quelle gambe spunta un fallo e, dietro quel fallo, una vulva, pronta per altre rappresentazioni.
Lo spettacolo continua: l’analizzato si pone sul volto tante maschere, come gli antichi attori. Durante il lavoro dell’analista, le maschere cadono a terra, come involucri vuoti e secchi.
L’analista, come un antico attore, cambia le maschere che gli vengono messe addosso; sente, però, che, dietro a queste maschere, c’è lui stesso con le proprie maschere: quelle che vengono dalla sua storia.
Nel breve tempo di una seduta analitica e nel limitato spazio di una stanza, la rappresentazione della psicoanalisi inizia, si sviluppa e si interrompe.
Ogni giorno, i rumori della strada salgono a disturbare e a commentare la recita.
La psicoanalisi antica ha ridotto l’analisi a transfert e la sua essenza al lavoro su di questo, cioè alle proiezioni dell’analizzato sull’analista; ma la recita è molto più ricca, non saperlo e non tenerne conto castra, irrimediabilmente, l’analisi.
Indubbiamente, è un grande merito della psicoanalisi freudiana aver definito il concetto di transfert e averlo ritenuto fondamentale per il lavoro analitico. Anche il transfert inteso in modo tradizionale è teatro; ma è un teatro ridotto e riduttivo.
Analizzare la cosiddetta nevrosi di transfert, cioè l’attuazione delle emozioni e reazioni infantili di fronte alle figure del lontano passato, proiettate sull’analista, riduce il teatro della psicoanalisi ad una riflessione critica sul teatro della vita; sempre, però, un po’ al di fuori di questa.
Lo psicoanalista classico sta allo psicoanalista pieno come il critico teatrale sta all’uomo di teatro ed allo spettatore. Lo psicoanalista classico e il critico teatrale sono dei tecnici con poca tecnica, perché la loro tecnica è solo tecnica, e spesso è anche una tecnica povera di cultura.

Non ho quasi mai visto uno psicoanalista (tengo a sottolineare il quasi) realmente colto e che conducesse un’analisi senza perdere aspetti fondamentali della psicoanalisi. Ciò è frutto, indubbiamente, d’ignoranza, cioè di cattiva preparazione; ma è anche frutto di una frigidità originaria che teme tutto ciò che non è controllabile da una tecnica miserevolmente semplice.
Non ho quasi mai letto (tengo a sottolineare il quasi), su di un quotidiano una critica di uno spettacolo teatrale realmente completa. Troppo spesso si sente che il critico non è un uomo di teatro e, quindi, non è neppure spettatore. Il suo commento teatrale è dovuto ad una incapacità personale di capire la ricchezza della vita e, quindi, del teatro.
Riconosco, però, che ho letto assai più critiche teatrali pertinenti e coinvolgenti, frutto di una reale competenza, di quanto abbia visto terapie psiconalitiche classiche condotte con sufficiente correttezza ed adeguata preparazione del terapeuta. Ciò deriva dal fatto che la psicoanalisi classica stessa impone limiti culturali alla sua tecnica ed ai suoi tecnici. Un rituale, così schematizzato ed impoverito, schematizza ed impoverisce il lavoro terapeutico e mette a repentaglio l’efficacia del risultato.
Come si può guarire un essere umano che ha un disorientamento nel rapportarsi a se stesso e agli altri, se il lavoro terapeutico ha così paura del rapporto reale e della vita reale? Non rischia di produrre una guarigione fittizia, cioè irreale?
Lo psicoanalista deve, soprattutto, sentirsi pienamente coinvolto, pue se sufficientemente distaccato. Il paziente deve sentire che si sta confrontando con una persona, e non soltanto con una sua proiezione.
Questo deve poterlo percepire fin da subito. Lo psicoanalista deve possedere una salda metapsicologia, conquistata a prezzo di studio faticoso e di lavoro interno, allegro e doloroso insieme; deve possedere una tecnica, acquisita soprattutto praticamente. L’analista deve sempre essere un po’ insicuro, deve, sempre, sapere di stare, un po’, improvvisando. Soltanto così il paziente sarà, per lui, una persona anche da ascoltare e da rispettare nelle sue opinioni.
Lo psicoanalista non deve richiedere soltanto all’analizzato l’impegno; deve chiedere a se stesso la disponibilità ad imparare qualcosa dal paziente. Con questi presupposti, la cura è, realmente, una cura; se questi presupposti non vi sono, la cura è una manipolazione violenta ed una sopraffazione. Senza Eros, il transfert sarebbe impossibile; sarebbe come leggere un brutto copione estraneo e lontano, sarebbe come dover imparare a memoria un testo scritto da altri e per altri.
La recita dell’analisi, se non scopre Eros, è una fatica non solo frustrante, ma inutile. L’analista deve recitare sia i personaggi che gli vengono assegnati durante l’analisi, sia i suoi personaggi. L’analizzato interpreta i ruoli che l’analisi gli fa assumere e anche quelli che l’analista gli butta addosso.
Entrambi debbono recitare anche il loro presente, soltanto così il loro lavoro non sarà una salottiera ricerca del tempo perduto. Il teatro dell’analisi non riproduce la vita: è la vita.
Le maschere che abbiamo indosso non soltanto ci nascondono, anche ci manifestano e ci presentano agli altri. Queste maschere le portiamo in giro ogni giorno e, insieme con gli altri, le costruiamo.
Gli altri indossano le loro maschere, ma anche quelle che noi mettiamo loro addosso: la persona che incontro, per me, è anche mio padre, mio fratello, mia madre, l’amico amato, il confessore temuto.
Succede che una persona appena incontrata, che ci ha guardato con occhi gentili, ci risulti immediatamente antipatica; perché? Perché quello sguardo così gentile, è lo sguardo di un altro; è troppo simile a quello di un amico che ci ha traditi. Altre volte in un incontro fortuito, un tale ci è, subito, simpatico ci piace il suo modo di muovere le mani; mani simili a quelle di un altro: mani tanto amate.
Con quella persona saremo in contatto per breve tempo. In quel breve tempo reciterà i suoi personaggi e noi le imporremo i nostri. Le nostre imposizioni non le saranno del tutto indifferenti; senza volerlo e senza saperlo, sarà, un poco, come noi la vorremo.
La recita della vita è quanto mai complessa, ma inevitabile.
In tutti gli incontri, Eros è presente seppure continuamente contraddetto.
Sadomasochismo e narcisismo lo distruggono e lo fanno fuggire; ma, senza Eros, la vita non sarebbe possibile.
Eros èuna conquista: Eros è la conquista della psicoanalisi. Le difese si alzano rigide, anche, e forse, soprattutto, nel rapporto analitico; ma Eros deve essere una presenza costante e deve essere la conquista finale.

LA CONCLUSIONE DELL’ANALISI
Nessun rapporto psicoanalitico può essere, con assennatezza, considerato concluso. La psicoanalisi, una volta iniziata, la si può soltanto interrompere.
Più il rapporto analitico è stato terapeuticamente valido, più la conclusione non può essere che un’interruzione.
L’interruzione, ad un certo punto, è utile e sana; ma è un’ interruzione: quando il rapporto analitico non è più un rapporto nevrotico, è un rapporto che deve essere spezzato, anche se può evolvere in un altro tipo di rapporto.
La vita deve continuare con altri incontri, con altri desideri da realizzare. Se si è raggiunta la

guarigione attraverso Eros e in Eros, cioè se non si ha più paura di noi stessi, dei nostri fantasmi, degli altri e dei loro fantasmi, ma soprattutto se non si ha più paura del nostro e dell’altrui corpo, è giusto che l’analisi si interrompa.
Il lavoro dello psicoanalista è un lavoro di presa di coscienza. È un lavoro, rigorosamente, scientifico. La psiconalisi va alla ricerca della verità. La verità si scopre nell’interpretazione.
La guarigione attraverso la psicoanalisi non è un’illusione. è difficile dire quando si è guariti,è più facile sapere quando si è ammalati. La psicoanalisi guarisce attraverso la conoscenza, ma la conoscenza non è un’arida acquisizione di dati: la conoscenza vive nella interpretazione. L’interpretazione si attua nei modi che ho descritto. Il primo consiste nel rendere chiaro ciò che era oscuro. Il secondo consiste nel recitare tantissimi personaggi. In ultima analisi i due significati coincidono, perché, comunque sia, l’interpretazione è sempre una rappresentazione. La psicoanalisi guarisce perché non è la parodia della vita, è un momento della vita. Si sviluppa come ogni vita.
L’interpretazione abbatte le difese patologiche, ed Eros, che è la salute, viene riconquistato.
La psicoanalisi è un momento di teatralità particolarmente intenso in cui il teatro e il lavoro sul teatro divengono mezzo di guarigione.

UN ALTRO TEATRO
Vi è un altro momento in cui il teatro in senso stretto diviene una realtà presente per l’uomo: è il momento del sogno. Si dice che i sogni cerchino di realizzare desideri più nascosti: questo è vero.
Si dice, ancora, che il sogno prenda e manipoli i pensieri inconsci e li presenti travestiti, simbolizzati e condensati, per permettere loro, proditoriamente, di esprimersi: anche questo è vero.
Uno dei desideri più profondi del sogno è quello di recitare; ancor più: è quello di mettere in scena una rappresentazione teatrale.
In sogno, ognuno di noi diventa completamente uomo di teatro: autore del testo, regista, interprete. Quando si racconta un sogno, si è disposti ad assumersi le responsabilità dei gesti e delle parole che direttamente compiamo e diciamo; le azioni degli altri le attribuiamo agli altri. Invece, se il sogno è interamente una nostra produzione, noi diciamo e facciamo dire, agiamo e facciamo agire. Quando il sogno raggiunga la pienezza della sua realizzazione è impossibile a dirsi. Per lo più, si riflette sul sogno, quando è ormai un ricordo. In quel momento la rappresentazione viene raccontata e, forse, definitivamente strutturata.
Nel momento in cui si sogna, il gioco teatrale è 10 estremamente ingegnoso. Tutto è predisposto con astuzia e sapienza. Ogni notte gli avvenimenti del giorno appena trascorso e gli avvenimenti di una vita remota rivivono in noi: i miti del nostro passato trovano la loro rappresentazione e proprio come i miti danno un senso alla nostra vita: ecco perché il teatro della psicoanalisi ha così bisogno del teatro dei sogni.

IL TEATRO DEL TEATRO
L’uomo vive la propria vita-teatro inconsapevolmente: recita, ma non sa di recitare, preferisce non essere consapevole, soltanto qualche volta se ne rende conto. Se può, distoglie il pensiero, un po’ infastidito da questa verità.
L’uomo preferisce recitare senza sapere di recitare. Ecco perché ha isolato un momento della sua vita per concedersi il lusso di fare, consapevolmente, teatro Ogni cultura ha le sue rappresentazioni esplicite: danze, azioni mimate, vere e proprie storie rappresentate; ed anche i riti sono un aspetto di questo teatro esplicito.
Le maschere tragiche e le maschere rituali hanno esattamente lo stesso significato e la stessa funzione: ambedue posseggono il carattere della fascinazione e tendono a suggerire un personaggio e ad esasperarne alcune caratteristiche.
La maschera tragica esibisce, la maschera rituale suggerisce; ambedue tentano di controllare i sentimenti e le forze della natura, appropriandosene. Storia e natura debbono essere controllate; per essere controllate debbono essere rappresentate: la maschera tragica e la maschera rituale rendono possibile questa appropriazione. Non esiste una cultura senza un teatro. Le forme e i generi di teatro sono molteplici, non tutti ci sono comprensibili, almeno immediatamente. L’occidente pensa che la sua idea di teatro sia sorta in Grecia. È impossibile situare nel tempo, anche solo approssimativamente, la nascita delle prime rappresentazioni teatrali; come per i riti sacri, se ne può, sempre, intuire la presenza.
Le epoche più arcaiche conoscevano canti corali e danze eseguiti per un pubblico di spettatori e l’elemento rituale e religioso ne costituiva una caratteristica essenziale.
Rito e teatro sorgono dalla medesima esigenza di rappresentare: ogni rito racconta e rappresenta ed ogni scena di uno spettacolo si realizza attraverso gesti rituali.
Per comunicare bisogna rappresentare ciò che si vuole comunicare: il rito e il teatro comunicano e mettono in comune.
Fin dalla preistoria ellenica l’architettura teatrale, nel suo variare, evidenzia interessanti parallelismi con gli schemi architettonici della cultura greca successiva.

La lunga e stretta sala coperta del terzo millennio a.C. portata alla luce a Poliochni, sull’isola di Lemno, il cui uso rimane incerto, rappresenta una delle più antiche sistemazioni di uno spazio teatrale genericamente inteso.
Simile a questa è l’area teatrale del palazzo di Festo a Creta, della fine del terzo millennio: qui ci troviamo a cielo aperto, caratteristica che sarà poi costante del mondo antico e i significati strutturali sono più leggibili, anche nei rifacimenti successivi. Nel secondo palazzo di Cnosso la costruzione di uno spazio destinato a rappresentazioni di vario genere si presenta ancora più articolata e comprensibile nei suoi elementi.
A Creta come altrove, però, la rappresentazione non si lasciava imprigionare in un’unica struttura teatrale; ad esempio, gli spettacoli acrobatici con i tori non potevano svolgersi nel teatro di corte, ma abbisognavano di arene ampie e di luoghi riparati per gli spettatori.
La cultura minoica era così raffinata che possiamo suppone che ogni aspetto della spettacolarità fosse elaborato, tanto da giungere, anche, al virtuosismo. Nell’antica Grecia si è realizzato il momento più alto del teatro occidentale.
La tragedia classica, che vive, più o meno, entro l’arco di un secolo, è l’espressione di una teatralità già consapevole che ha alle spalle secoli di teatro, raffinato e tecnicamente scaltro. Le rappresentazioni satiriche e i Ditirambi, per esempio, esprimono una maturità tecnica molto progredita; intenderli come antecedenti della tragedia è corretto, se si vedono in essi elementi presenti anche nella tragedia; ma è scorretto considerarli esperienze preparatorie o rozze. L’esperienza teatrale nell’antica Grecia fu assai complessa. Il piacere dello spettacolo era quanto mai sentito e l’astuzia teatrale doveva raggiungere sottigliezze forse a noi ignote.
Sarebbe interessante mettere in relazione, con un’analisi approfondita, che qui non è il caso di affrontare, gli agoni atletici e quelli teatrali. Gli antichi elleni amavano le competizioni: competizioni poetiche, atletiche, tragiche. La teatralità le legava tutte. Era un espediente in più per coinvolgere lo spettatore.
I generi spettacolari dell’antichità esprimevano una modulazione continua di sentimenti. La religiosità permeava lo spettacolo greco e il teatro stesso si faceva rito e poi il rito diventava teatro.

DIONISO
Non ritengo che il rito di Dioniso abbia avuto particolare importanza nella strutturazione della macchina teatrale. Dioniso è stato scelto come protettore del teatro, probabilmente come trasformazione di un altro dio, più antico e
l I misterioso. Se la tragedia fosse nata dal ditirambo in suo onore, il mito di Dioniso sarebbe più presente.
Anche quando viene rappresentato, come nelle Baccanti di Euripide, si vede con chiarezza che non si rappresenta la storia per eccellenza della tragedia; ma una delle tante storie possibili da rappresentare. È pur vero che questa è una tragedia abbastanza tarda e che, quindi, il diretto legame con il rito dionisiaco potrebbe essersi spezzato, però, anche nelle tragedie, l’interesse per il mito di Dioniso è assai scarso.
Dioniso era il protettore dei teatri; se si è scelto Dioniso come protettore, indubbiamente un legame tra Dioniso e il teatro deve esserci; ma non credo che si tratti di un legame con il meccanismo teatrale; penso sia collegato con qualche aspetto di quel dio misterioso che sta dietro Dioniso.
Gli dèi dell’epoca classica vengono di lontano, hanno alle spalle molte storie, talora anche contraddittorie.
La teologia antica ama l’esuberanza dei fatti, ama avere dei dalle molte facce, di diverse provenienze. Il più antico Dioniso è anche il dio della natura; è anche figlio dello Zeus sotterraneo e talvolta gli si sovrappone; è quindi anche il dio della parodia dell’universo; è il dio che vive, muore e risorge. è il dio che ha avuto una storia piena di avventure, ricca di personaggi, è giusto quindi che sia il protettore del teatro e dei teatri.
Dioniso è il Dio della fascinazione immediata, come, irradiata, è la fascinazione del teatro. Dioniso è un dio vincitore, ma anche vinto. Dioniso è un dio dominato dalla lussuria delle donne, Dioniso è un dio che sorge da epoche matriarcali; e il teatro esprime, fin dall’antichità, il conflitto tra i sessi.
Dioniso deve proteggere i teatranti dall’ira delle dee madri, che vedono, nel teatro, messa in dubbio le loro pace.
Queste sono proiezioni mie, lo riconosco, ma io ho sempre pensato che, benché Dioniso sia il santo protettore della vita teatrale, i riti in suo onore abbiano poco a che fare con la nascita della tragedia e proprio nulla con la nascita del teatro. Ripeto: la tragedia sorge quando il teatro è già formato e consolidato; certo, i grandi tragici danno al teatro alcuni moduli linguistici e strutturali che permarranno lungo i secoli della nostra storia. Modelli che la nostra cultura ha introiettato, da cui non si è più liberata, e che sono ancora presenti nelle forme di spettacolo considerate più attuali: come la televisione e il cinema.

LA TERAPIA DELLE MASCHERE
Una terapia psiconalistica, se ben condotta, deve ottenere qualche risultato: uno dei risultati consiste nel poter vivere senza l’analisi. Durante l’analisi è utile che si instauri la dipendenza. Questa dipendenza, talvolta, si esprime con un bisogno eccessivo, chiaramente patologico, degli incontri con il terapeuta.
Se però un analizzato non sente mai l’impellente bisogno del suo analista, se non ha mai provato un angoscioso disorientamento all’avvicinarsi dell’interruzione per qualche periodo di vacanza, ciò sta a significare che quell’analisi funziona male, e, quindi, si sta perdendo tempo.
Fa parte del lavoro analitico parlare della dipendenza ed è importantissimo chiarirne i significati. Alla fine, però, l’analisi deve guarire dal bisogno dell’analisi. O meglio: guarire dal bisogno patologico dell’analisi.
L’analisi deve portare alla liberazione di Eros e alla sua riconquista. Per fare questo, tocca desideri così arcaici che la persona si sente prima distruggere e poi ricostruire.
Tutti coloro i quali affrontano l’avventura della psicoanalisi non ne usciranno indenni; qualche cosa andrà perduto e qualcos’altro conquistato. Nessuno, comunque, ritornerà ad essere quello di prima. Così deve essere: altrimenti la psicoanalisi sarebbe una truffa.
Guai a quella analisi che rassomiglia troppo ad un incontro tra persone che spettegolano intelligentemente.
Un’analisi conclusa è un’analisi interrotta bene. Perciò è stata interrotta quando si doveva. Può terminare con tristezza, con allegria, con malinconia; talvolta può terminare con una situazione drammatica di scontro; non sempre quest’ultima situazione emotiva rivela che l’analisi non si dovesse interrompere proprio lì.
Ho detto che è molto difficile riuscire a definire cosa vuol dire essere guariti; e che è più facile sapere quando si è ammalati. L’analisi, almeno in parte, però, deve guarire. Chi è guarito e ha interrotto l’analisi, continuerà per un certo periodo a sentirla presente ed operante; l’elaborazione infatti deve continuare a lungo.
Molte persone dopo l’interruzione dell’analisi non ci pensano più. Si sentono quasi liberate, questo sta a significare che, forse, l’analisi è stata interrotta troppo presto, ma non necessariamente in un momento sbagliato.
L’importante è che l’analisi continui ad agire anche dopo la sua interruzione. Soltanto così la sua efficacia terapeutica si consoliderà ed i risultati ottenuti permarranno nel tempo; anzi, l’analisi avrà dato la possibilità di progredire nella conquista della salute.

Vorrei continuare il parallelismo tra la psicoanalisi e il teatro. Uno spettacolo teatrale quando è ben condotto e realizzato non deve concludersi mai completamente. Non deve dare la sensazione che tutto si è concluso e tutto è da dimenticare. Si prolungherà negli applausi, nei commenti, in ciò che le persone, attori e spettatori, si porteranno dentro. La storia che hanno fatto vivere o visto vivere deve continuare ad agire. Anche i finali d’effetto, tragici ed esplosivi, rimandano a dopo, alla vita che continua. Attori e spettatori sanno che il giorno dopo quella rappresentazione ricomincerà ancora, ancora e ancora… Si intreccerà con la vita di altri.
Il teatro è terapeutico, proprio come la psicoanalisi è una rappresentazione. La terapia del teatro non coincide con la catarsi aristotelica; il fine del teatro e della tragedia non è una purificazione delle o dalle passioni e neppure un alleviamento. Il suo fine consiste nella riappropriazione di Eros.
Il teatro coinvolge e suggestiona, spesso rende lo spettatore dipendente, ma, anche, dimostra. Il dimostrare non è soltanto prerogativa del teatro di Brecht. Il teatro, sempre, dimostra, perché mostra. Non si può mostrare senza dimostrare, perché mostrare è, sempre, interpretare. Se le cose vengono esposte, vengono, anche, create. Il gesto del mostrare illumina ciò che mostra; ma lo illumina di una luce che cambia e modifica l’oggetto mostrato. Mostrare dichiara; ma dichiara perché interpreta. Ciò che era oscuro diviene chiaro Le storie che il teatro racconta mostrano e dimostrano, perciò chiariscono, esprimendoli, i significati del mondo.
Il teatro non è educativo, è terapeutico, perché, attraverso Eros (se uno spettacolo è privo di Eros, non è che un gioco sado-masochistico o narcisistico) ci si può appropriare dei significati della vita e le maschere divengono esplicite: non gabbie, ma inevitabili moduli di espressione in cui, o dietro cui, spettatori e attori possono ritrovare una identità ed anche imparare a giocare con le varie identità.
Il teatro non impone, ma insegna. Le storie vengono raccontate, interpretandole; gli uomini si raccontano ad altri uomini, interpretando il senso degli uomini: ciò che è oscuro diviene chiaro, perché la verità è sempre un racconto.
Quanto più l’azione drammatica si svolge con precisione puntuale seguendo il divenire psicofisiologico dello spettatore, tanto più questi uscirà rinnovato dal teatro.
I personaggi e gli attori, dalla scena, guardano, attraverso le maschere, dentro gli spettatori; questi, a loro volta, mascherati, guardano dentro ai personaggi e agli attori. Gli spettatori diventano personaggi e gli attori diventano spettatori.

IL COPIONE DELL’ANALISI
Una delle obiezioni più comuni, se pure assennate, che vengono mosse alla psicoanalisi è questa: “La psicoanalisi dice di dare la consapevolezza e di chiarire le motivazioni inconsce dei
comportamenti; però, anche, quando vengo a conoscenza del perchè faccio così e colà e anche quando sono consapevole dell’origine di queste mie ansie, non è assolutamente detto che i comportamenti si modifichino e le ansie passino. È già successo che, dopo aver preso coscienza di alcune cause, non consapevoli, di un disagio, questo non sia, per nulla, passato. Tutto è rimasto come prima. Posso essere contento di conoscere perchè ho provato quelle emozioni; ma nulla è però cambiato: d’altra parte perchè dovrebbe cambiare? Molti credono che la psicoanalisi avvenga così: il paziente parla e l’analista immediatamente spiega i perchè nascosti dietro quelle parole. Il paziente racconta un sogno e l’analista inesorabilmente lo interpreta. Il lavoro analitico sarebbe un susseguirsi continuo di botta e risposta: il paziente espone le proprie razionalizzazioni, l’analista gliele smonta, spesso capovolgendo i significati. Un’analisi, osservata dall’esterno, si sviluppa con questo rituale. Le persone, però, non sono solo le loro maschere esterne e non pensano solo i pensieri che vengono espressi ad alta voce.
Il paziente è composto di tante altre maschere nascoste, che fanno capolino qua e là. Ha tanti pensieri oscuri che si muovono e ribollono; così pure l’analista ha dietro di sè la sua storia e dentro di sè tanti pensieri, alcuni li manifesta, altri no. Analista e analizzato vengono di lontano e sentono assai più di quanto non sappiano, però sanno assai più di quanto dicano.
Le cosidette interpretazioni non hanno valore in sè; il valore lo acquistano per come sono dette. Il buon didatta artigiano impiegherà molto tempo per insegnare all’allievo-apprendista

il ritmo e le intonazioni delle interpretazioni.
Un chiarimento è utile soltanto se è detto nell’unico momento in cui doveva essere detto. Se non è ancora tempo può perdere l’efficacia e spesso non la ritroverà mai più: allora, molto è andato sprecato. Anche l’intonazione è fondamentale. Un’intonazione sbagliata può fare alzare le difese che si erano appena abbassate, può rendere imcomprensibile ciò che viene detto, può mandare messaggi contraddittori o può spingere, talvolta, il paziente alla fuga per il riacutizzarsi dei sintomi.
L’intonazione non è soltanto il modo in cui le parole vengono dette; l’intonazione si esprime attraverso la totalità del corpo dell’analista. Sbaglia di molto quell’analista che crede che trovar la giusta intonazione significhi dare al suo corpo e alle sue parole pacatezza, affettazione e indifferenza. L’unico tono efficace è quello
insegnato da Eros, cioè una piena disponibilità fisica, seppur astutamente guardinga. L’interpretazione chiarisce, ma, anche, rappresenta, e rappresenta proprio in senso teatrale. Interpretare, in sento teatrale, consiste nel dire le cose al tempo giusto, con l’intonazione giusta.
L’analista scrive il suo copione: lentamente e sistematicamente; l’analizzato, invece, più vicino al comico dell’arte, improvvisa.
L’analista deve saper coinvolgere l’analizzato, ma questi deve saper coinvolgere il proprio analista Quando è proprio un problema dell’analizzato il non saper coinvolgere gli altri, è compito dell’analista farsi maestro di recitazione. Guai a quel paziente che fa sbadigliare troppo il suo analista; guai a quell’analista che annoia troppo il suo paziente!
Se la commedia che si sta costruendo e recitando è noiosa per entrambi, è meglio interrompere la rappresentazione e riprenderla con altri.
Nel lavoro analitico, la semplice conoscenza non è sufficiente; anzi, talvolta, è frustante, perchè si rimane delusi nel vedere che la presa di coscienza non ha procurato nessun effetto positivo; anche se può darsi che gli effetti si vedano in seguito, e che, al momento, tutto venga bloccato dalle resistenze. Quando la conoscenza pura e semplice di ciò che è accaduto e accade dentro di noi ci lascia indifferenti e insoddisfatti, quella non è stata una reale presa di coscienza. Le cose da sapere sono state dette fuori tempo, perciò sono rimaste estranee ed esterne. La conoscenza della verità è sempre efficace, ma la verità, soltanto detta e non amata, non è la verità.
L’autore di un testo di teatro, quando scrive, deve saper dosare le battute, ritmare la successione delle scene e porre al momento giusto le trovate ad effetto. Coloro che realizzeranno il copione dovranno saperne cogliere ed esprimere le possibilità interne, attualizzare ciò che era in potenza ed anche inventare qualcosa di nuovo. Le parole, inerti, sulla carta, debbono diventare una storia viva.
Uno spettacolo teatrale non è circostritto entro il copione. I testi teatrali fanno più parte della storia della letteratura e meno di quella del teatro.

Il teatro vive e si realizza nello spazio di tempo in cui lo spettacolo accade e si dipana davanti agli spettatori. Questo è vero persino per il cinematografo che, è sempre, un po’ più imbalsamante e inerte del teatro in senso stretto. Sullo schermo si muovono soltanto ombre e fantasmi che ripetono indefinibilmente, allo stesso modo, gli stessi gesti; ma nel buio della sala, vi sono persone vive, che osservando e ascoltando, modificano, sempre, quelle immagini e quei suoni. Anche uno spettacolo cinematografico non si ripete mai identico a se stesso perchè coloro che vi assistono lo cambiano sempre un po’, seppure lo vedessero dieci volte. Anche quando si inventa e si gira un film, gli spettatori sono già presenti, magari soltanto per ragioni economiche.
Il teatro, indubbiamente, è più immediato e vitale del cinema. Il lavoro dei teatranti coincide con quello degli psicoanalisti. Le battute, sulla scena, devono essere dette al momento opportuno, altrimenti la loro efficacia è perduta. L’attore deve far percepire il suo corpo, che coincide col personaggio e gli spettatori devono far sentire la loro presenza. Nessun attore riuscirà mai a ripetere la stessa battuta nello stesso modo. La super- marionetta si muove sempre in modo irripetibile, anche se ha studiato la parte e i gesti nel modo più meccanico e ossessivo possibile.
Ogni spettacolo teatrale esprime una teoria: estetica, operativa, politica; realizzando anche esigenze economiche.
Tutto questo corrisponde alla teoria scientifica dello psicoanalista. Il copione e la messa in scena corrispondono alle acquisizioni tecniche dell’analista e le rappresentazioni teatrali, sera per sera, equivalgono agli incontri analitici, giorno per giorno. Dal momento in cui l’autore del testo scrive su di un foglio di carta: atto l, scena I, al momento della rappresentazione, lo spettatore è presente; così da quando il teorico della psicoanalisi scrive le teorie, al momento della seduta, l’analizzato deve essere presente.
Le teorie scientifiche sono sempre almeno un canovaccio. Ogni trattato di scienza, l’ho già detto, è un testo drammatico. Gli uomini che useranno quelle teorie per orientarsi nel mondo, metteranno in scena una rappresentazione, interpretandole. L’autore del teatro, mentre scrive, interpreta i personaggi che inventa e contemporaneamente interpreta il ruolo di attore. il regista fa il regista, ma anche, interpreta il ruolo del regista, così lo scenografo, il musicista, il sarto di scena.
L’attore interpreta un personaggio e interpreta il personaggio dell’attore. Lo spettatore che osserva lo spettacolo e, più o meno, si coinvolge, rappresenta il ruolo di spettatore e poi inconsapevolmente interpreterà qualcuno dei personaggi che ha visto sulla scena. Egli interverrà solo alla fine, direttamente, con l’applauso o con l’indifferenza; ma la sua presenza è costante e palpabile per tutto lo spettacolo.

Nel teatro, chi è l’analista e chi è il paziente? Proprio quest’ultimo parallelismo con la psicoanalisi non voglio esprimerlo chiaramente; l’importante però è che, al termine di ogni rappresentazione, come al termine di ogni analisi, teatrante e spettatore, analista e paziente, siano un po’ guariti, perchè si sono un po’ ritrovati. Qualche scienziato ben pensante potrà essere molto turbato dall’accostamento irriverente di teatro e scienza; ma io assicuro che avviene così: ed io sono un uomo d’onore.

IO E LE MIE MASCHERE
Il duplice significato dell’interpretazione nell’analisi: l’interpretazione come rappresentazione e l’interpretazione come chiarimento, ha come fine la guarigione. In cosa consiste la guarigione per la psicoanalisi? Questa è una domanda senza senso; la domanda corretta è: in che cosa consiste la guarigione? La guarigione passa attraverso la sapienza, perché la verità è sempre terapeutica.
La verità è interpretazione, quindi il guarire vive dell’interpretazione: sia come chiarificazione, sia come recita. Per orientarsi nel mondo, bisogna saper interpretare la nostra realtà e quella degli altri. La capacità di interpretare non consiste nel pretendere di conoscere tutto; ma nel desiderio di cogliere il senso di ciò che è attorno e di ciò che è dentro di noi.
I sintomi della malattia sono segnali; dietro a quei segnali se ne nasconde la ragione: la persona riassume tutto questo. Inoltre, causa ed effetto non si dispongono mai in una successione che segua una direzione univoca; la loro interdipendenza è quanto mai equivoca. La causa e l’effetto girano in tondo ed è impossibile conoscere con certezza le concatenazioni causali.
I sintomi sono un messaggio. Primo compito della scienza è interpretare questi messaggi. La guarigione passa attraverso la consapevolezza; ma come ho detto, questa non è sufficiente. Per guarire bisogna anche modificare. La salute è indefinibile. La salute piena è come la verità: è sempre oltre.
Il senso della salute è la felicità. Verità e felicità coincidono, la salute e la scienza tendono ad essa. Il fine del vivere, questo lo dico senza mezzi termini e tentennamenti, deve essere la felicità. Come il fine della ricerva deve essere la verità: non voglio che sia altrimenti.
Gli uomini si muovono nel tentativo di realizzare la felicità, che è sempre oltre e mai altrove.
La malattia è una sofferenza che rende penoso il vivere. La malattia può condurre alla morte; ma non è la morte. La morte viene dopo la malattia. Soltanto la morte è realmente altrove. La malattia disturba la vita perché disturba la felicità possibile. La malattia disturba la felicità della rappresentazione, non la rappresentazione. Il teatro ha inventato le maschere; le maschere teatrali sono la realizzazione completa e plastica di come si manifesta l’uomo. Dietro la maschera teatrale c’è il volto dell’attore; ma il volto dell’attore è, a a sua volta, una maschera.

La salute mentale non consiste nel liberarsi delle maschere; se così fosse la salute coinciderebbe con l’annientamento; consiste nel riuscire ad indossare maschere che non opprimano. Vivere felici è possibile, se le maschere che costituiscono l’uomo non ne sono anche il carcere. L’uomo è le proprie maschere. Dietro la maschera c’è un’altra maschera. Riuscire ad essere se stessi non consiste nello scoprire un nucleo smascherandolo: il nucleo è una nuova maschera. Essere se stessi consiste nel sentirsi bene nelle proprie maschere. La psicoanalisi non insegna a recitare: di ciò l’uomo non ha bisogno; insegna a recitare bene; cioè felicemente. Quando una persona dice “Con gli altri mi sento a disagio, compio gesti che non vorrei compiere, che sento artefatti e finti: in ultima analisi nomi sento me stesso perché so di essere diverso”, dice una menzogna: la più grande che potrebbe pronunciare: quella persona, in realtà, è anche così, come non vuole essere.
Ogni nostro gesto ci appartiene; se siamo rattrappiti ed inibiti di fronte agli altri, vuol dire, lapalissianamente, che siamo persone inibite e rattrappite di fronte agli altri. Siamo pur sempre noi che rimaniamo muti e rigidi in pubblico. La frase di prima dovrebbe essere espressa così per non essere una menzogna: “Io non sono soltanto come mi presento di fronte agli altri, io sono anche un altro e quel modo mio di essere in pubblico non mi piace, mi fa soffrire”. La salute, quindi, consiste nel saper giocare felicemente con le maschere, io mi sento a mio agio con me stesso, se recito senza fatica, la mia parte, o meglio, le mie parti. Io sono un insieme di maschere; certamente non tutte le maschere possibili, altrimenti non sarei. Perciò io sono irripetibile, perché irripetibile è questa mescolanza di personaggi che mi caratterizza. Io sono me stesso se sono contento di essere quello che sono e se riesco a comunicare agli altri tutto questo. La verità della rappresentazione è la verità più salda per l’uomo. Io so di essere tutto questo ed io conosco, almeno in parte, i miei personaggi. se così è posso ritenermi sano.