Archivio di giugno 1988

44 – Giugno ‘88

mercoledì, 1 giugno 1988

Passato il tempo degli «eroici furori», quando la fila sull’uscio rendeva il ristorante Cicilardone di via Merulana 77 meta a lungo agognata dagli snob del generone romano e dai buongustai, oggi che le acque si sono calmate fa nuovamente piacere sedersi a gustare in santa pace un pranzo o una cena preparati con una cura non comune per quello che è lo standard della trattoria romana. Vogliamo soprattutto sottolineare come tutto quello che giunge in tavola appaia fresco e appena cucinato, con materie prime veramente ottime e paste fatte davvero in casa con sapienza.
Si inizia con un frizzantino gradevole accompagnato ad un croccante pane alle olive e poi si prosegue con i primi piatti: cuscinetti all’antica profumati di pomodoro e basilico, orecchiette originali dalla consistenza deliziosa, ciabatte pasticciate dal sugo fresco e invitante; così le paste fresche; leggermente sotto tono forse le paste secche: spaghetti cacio e pepe un po’ troppo crudi e asciutti sebbene conditi con buon pecorino e penne terribili ma non troppo aromatiche e giustamente piccanti, ma con una pasta che heideggerianamente «pasteggia», cioè ha quell’altrimenti poco definibile consistenza che la rende collosa. Ottimi anche i secondi: un filetto ai sette veleni, carne ottima, generosamente condita con tartufi, funghi e chissà quali altri «veleni», le pezze pazze, dal curioso sapore agro-dolce, filetto al Gengiskan non sgradevole anche se, dato il nome ci si aspetterebbe qualcosa di più aggressivo. Buoni anche i contorni: crocchette e zucchine ripiene di formaggio. Tra i dolci sono particolarmente apprezzabili i profiteroles, nappati di vellutato cioccolato e il gelato affogato, gradevolmente casareccio. La cantina è fornita di ottimi vini, ben tenuti e ben presentati. Eccellente il rosso lucano della casa, dal leggero goudron, profumato di viola mammola e cannella e di buona stoffa; una scoperta per molti può essere il Benefizio, un Pomino Frescobaldi, dorato, setoso, leggermente salmastro e profumato d’erba. Il servizio è disimpegnato dal titolare e dalla moglie, cortesi e attenti, anche se leggermente malinconici. Il prezzo non è troppo alto anche in considerazione della qualità.

Quasi all’ombra del Colosseo, in via dei Normanni, è spuntato uno dei molti ristorantini cinesi della città: Avanti. La sala è molto piccola, l’arredamento convenzionalmente «cinesizzato» con pochi ed economici elementi; ma il servizio è svolto da persone particolarmente simpatiche e sorridenti che hanno il solo inconveniente di capire pochissimo qualsiasi lingua che non sia il cinese (o l’indo-cinese). Così che è possibile fare l’ordinazione come se si giocasse a tombola: estraendo cioè i numeri dalla lista, che ne contiene ben più di novanta.
Noi eravamo in molti e ciascuno di noi ha fatto almeno quaterna: i numeri vincenti sono stati quelli corrispondenti alle alghe fritte, croccanti e non unte (7), i ravioli alla griglia, morbidi e saporiti (10), i capellini fritti soffici, molto gustosi e leggeri (33), la seppia piccante, dall’eccitante sughetto (94), il pollo con noccioline, un connubio aromatico interessante (41) e il maiale stu-fato, sostanzioso e tenero (78). I numeri perdenti non sono stati molti, ma due di essi hanno avuto esito quasi disastroso: quello del manzo croccante piccante, viscido e dolciastro (67) e l’occhio del drago, un gelato fritto orribile la cui pastella aveva la consistenza del cemento, che ci ha così turbato d’averci fatto dimenticare persino il numero.
Visto che la situazione dei vini si presentava desolante, come solitamente avviene nei ristoranti cinesi, abbiamo cercato alternative, così abbiamo finito per ubriacarci con l’unica bevanda veramente all’altezza della sua reputazione: la grappa di rose. La cordiale disposizione d’animo dei gestori ci è stata confermata da un prezzo davvero molto basso, così che pensiamo che qualche volta torneremo a tirare qualche altro numero, sperando nella buona sorte.

L’Hostaria al Tettarello di via dei Capocci 4, nel rione Monti, promette cucina particolare e musica dal vivo. L’ambiente è quello un po’ scontato del rustico senza troppe pretese con arredi folcloristici e gli immancabili quadri alle pareti. Le volte che noi ci siamo stati, sempre a notte fonda, la musica consisteva in canzoni un po’ vecchiotte cantate da più o meno ebbri ex-giovanotti. La cucina ha di par-ticolare che è particolarmente cattiva. Non siamo riusciti a salvare nulla neppure l’ultima volta che ci siamo stati con un animo un po’ bendisposto proprio perché non volevamo farci condizionare da un ricordo sgradevole. La casa impone sul tavolo il suo cocktail aperitivo all’unico sapore di gin, che tra l’altro disturberebbe il palato così vicino al pasto, ma comunque il palato sarà tanto sconvolto dal cibo che è inutile preoccuparsi di un simile dettaglio.
Le pennette al Tettarello consistono di uno strato colloso di formaggio fuso, su di un mucchietto di pasta malcotta cui sono mischiati panna, gamberi e cognac con un risultato che lascia più che perplessi; il riso agli scampi è una polentina sfatta con crostacei frollati come se fossero starne, ovviamente tutto è annegato nella panna. Ci siamo tenuti lontani da risi al kiwi e fettuccine all’arancia, però non abbiamo evitato la cannaccia con patate: una canna di bambù avvolta in carne fibrosa e incartapecorita e frites surgelate e mosce; ugualmente male ci siamo fatti andando a sbattere negli scampi alla griglia dei quali il cognac non bastava a coprire l’afrore. Dopo due bottiglie di Sauvignon dalle etichette diverse ma dall’uguale saporaccio, abbiamo trovato polveroso anche un Gattinara Travaglini dell’81. Il conto è stato inversamente proporzionale alla qualità della cena.

44 – Giugno ‘88

mercoledì, 1 giugno 1988

Povera Gilda

Chiunque sia riuscito a percepire qualcosa dell’andamento giudiziario nella vita quarantennale della Repubblica sorta dalla Costituzione, non può non essere turbato. Dai grandi delitti passionali, ai crimini mafiosi, dal terrorismo alla corruzione pubblica e privata, il carosello delle condanne e delle assoluzioni, degli insabbiamenti e delle riabilitazioni è stato, a dire poco, vorticoso. Se l’opinione pubblica, ad un certo punto, ha avuto la debolezza di rallegrarsi nel vedere qualche potente trascinato in un dibattimento processuale e poi condannato, non ha però potuto trattenere un trasalimento quando, al termine della catena dei ricorsi, lo ha visto ritornare libero, reintegrato nel Palazzo o addirittura portabandiera di una lotta contro l’iniquità. Il cittadino comune anche quando si sente estraneo ai rischi connessi ad un sistema giudiziario che incarcera e scarcera rivoluzionari, mafiosi, editori, finanzieri e politici, seguendo più i criteri dell’opportunismo che quelli della colpevolezza o dell’innocenza rispetto ai reati contestati, non può tuttavia trattenere un brivido all’idea delle vicende cui il caso potrebbe comunque esporlo. Giustamente, garantisti e moralisti hanno denunciato il terribile stato di cose e da infinite parti si è levato il grido sdegnato contro la degenerazione di uno dei poteri fondamentali dello stato, ma pochi hanno individuato quella che forse ne è la causa principale. Solo pochi hanno fatto notare che il pericolo per il cittadino «qualunque» non sta tanto nella grande Corruzione della Magistratura, che, proprio per le sue maiuscole caratteristiche pare non debba riguardare la sua minuscola persona, ma consiste piuttosto nell’ignoranza, la quale lo riguarda direttamente e contro la quale non c’è difesa possibile. È vero che l’ignoranza è l’oppio dei popoli, e non solo del nostro, ma è anche vero che nel nostro Paese si va rafforzando l’ignoranza di tutti nei confronti del proprio ruolo. Saranno eredità borboniche, gentiliane o sessantottine, sta pur di fatto che la preparazione di un professionista – quando l’uomo non sia eccezionale – è quasi sempre molto scadente. La cosa provoca guai in tutti i settori della vita civile e ne provoca tra l’altro nel settore dell’istruzione (se il sale della terra diventa sciapo, con cosa saleremo il sale? etc.), ma li provoca anche nelle aule dei tribunali. Magistrati, giudici, avvocati, cancellieri affrontano il compito di giudicare per lo più in condizioni di paurosa (generale e specifica) ignoranza. Ne sono testimoni i verbali e le video-registrazioni di infinite cause penali e civili: non solo manca spessissimo la conoscenza tecnica, ma si vedono persone che dimostrano la più totale incomprensione della situazione complessiva: storica, culturale, sociale, economica e psicologica del mondo che sono chiamati a giudicare. Di questo stato di cose – si dirà – non si può far colpa alla magistratura, ma ai politici che, a loro volta, denunceranno le condizioni economiche; gli economisti non potranno che far rilevare il gap tecnico rispetto alle tecnologie trainanti delle società avanzate ed infine tutti potranno con fiero cipiglio scrollare la testa, additando alla pubblica esecrazione la povera Gilda che, invece di pensare a riqualificarsi, tira «quattro paghe per il lesso»! Le carceri sono piene, i criminali sono fuori; il delitto paga ogni giorno di più. Se chi è chiamato a giudicare basa interamente il suo giudizio su quel poco che è scritto nei codici, allora è meglio che bruci quei testi e, lasciata la toga per la tonaca, cerchi magari nella Bibbia quel che non ha dentro di sé. È un libro vecchio, ma poco inquinato, ed offre modo all’ignoranza di riqualificarsi come semplicità.

Psicoanalisi contro n. 44 – Un risultato inatteso

mercoledì, 1 giugno 1988

La nostra, come tutte le società, ha le sue regole di comportamento, talvolta profondamente radicate negli abissi dell’inconscio e, forse, addirittura trasmesse geneticamente. Alcuni di questi comportamenti, di questi gesti, vengono chiamati istinti. Gli psicologi, gli antropologi, i moralisti e i teologi distinguono fra due tipi di istinti: i primi sarebbero quelli che non hanno rapporto con la morale, per un verso simili a «programmi» inseriti nella specie, chissà da quando, i quali ci impongono di muoverci in un determinato modo. Questi impulsi si radicano nella struttura anatomica e ci permettono di sopravvivere. Su questo tipo di meccanismi istintuali la filosofia e la religione, come il buon senso comune, non vorrebbero aver a che dire; così stanno le cose: l’organismo dell’uomo reagisce in un determinato modo e riesce a sopravvivere ed anche a perpetuare la specie proprio grazie a una serie di tali stereotipi comportamentali. Neppure i più rozzi sperimentalismi riescono a negare che anche in essi però siano presenti coloriture affettive: anche il semplice fatto di inspirare profondamente un’aria fresca e balsamica procura un piacere intenso e un’avvertibile emozione; è vero che non potremmo fare a meno di respirare, ma resta il fatto che non è facile distinguere il bisogno di respirare dal piacere che ce ne viene. Per contro, in un’atmosfera inquinata da gas tossici, il grave disturbo al meccanismo respiratorio è accompagnato da sofferenza e talvolta addirittura da angoscia mortale, ed è ugualmente difficile dire se queste sensazioni si aggiungano o siano parte dei gesti della respirazione. Sono già meccanismi istintivi il piacere per l’aria fresca e il disagio per quella inquinata? Si può dire che meccanismi istintuali sono anche quelli che tendono a mantenere un’omeostasi dell’organismo, unitamente alle relative sensazioni di piacere o dispiacere. Potremmo inoltre inserire in questa categoria degli istinti i più semplici rapporti di relazione con il mondo esterno: il desiderio sessuale, l’affetto per la prole, la lotta per difendere sé e il proprio gruppo ristretto e procurare l’indispensabile alla sopravvivenza.
La «specie» umana risponde in base a questo universale programma di comportamento, tanto che molti antropologi tendono a negare che vi siano, anche nei gruppi sociali più diversificati, differenze apprezzabili.
Si tende a dire che i comportamenti istintivi elementari non sono moralmente giudicabili perché indipendenti da qualunque scelta volontaria: l’essere umano nasce programmato e non può sfuggire a questa programmazione di base che lo caratterizza in quanto «uomo».

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È indubbiamente molto difficile dare una definizione di «uomo» e non voglio certo avventurarmi ora in una questione così spinosa. Limitiamoci ad accettare il fatto che gli istinti non avrebbero nulla a che fare con la morale, ma sarebbero comportamenti cui l’uomo è necessitato per la sua natura intrinseca. Alcuni antichi evoluzionisti, e persino qualche neo-evoluzionista, erano e sono ancora disposti ad ammettere che anche questi comportamenti possono mutare; ma ciò avverrebbe indipendentemente dall’esperienza degli individui o dei gruppi sociali, essendo per lo più effetto di adattamenti o, come è oggi di moda dire, di «mutazioni» genetiche, più o meno occasionali, che diventano poi patrimonio individuale e di gruppo, al fine, non certo consapevole, di un migliore adattamento alle nuove situazioni.
Malgrado tutte queste considerazioni, avviene però che, di fatto, proprio questi meccanismi istintuali siano invece i più soggetti al giudizio morale: se infatti in qualche individuo risultano assenti o differenziati, si esprime nei suoi confronti un giudizio negativo, dichiarando tale condotta «contro natura». A questo tipo di valutazione sfuggono soltanto i meccanismi istintuali strettamente organici, la cui difformità di funzionamento viene classificata come «malattia», ed anche in questo caso i confini tra giudizio clinico e giudizio morale sono piuttosto labili. Esisterebbe quindi un complesso di meccanismi istintuali e di sentimenti elementari che costituirebbe la natura dell’uomo, in caso di assenza o deviazione dei quali, verrebbe pervertita nell’individuo la sua stessa natura umana persino quando si preferisce chiamare tale deviazione «malattia», il giudizio è implicitamente di condanna anche morale. Sapienti, sacerdoti, maestri e terapeuti hanno il compito, con le loro specifiche tecniche, di operare comunque in modo che chi è colpito da una di queste affezioni, e si è quindi posto al di fuori del consorzio sociale, possa guarire e rientrare nella norma «secondo natura». Meglio ancora, se si riescono a prevenire ed inibire le possibili deviazioni. Sono previste poi apposite strutture sociali, statuali addirittura, che hanno il compito di evitare che tali anomali comportamenti si manifestino e di reprimerli quando si presentino.

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C’è poi il secondo tipo di comportamenti: sono quelli che ogni società e gruppo sociale ritiene consoni per i propri membri e che, dichiaratamente, psicologia, filosofia e religione collegano al giudizio morale e nei confronti della cui devianza vengono esplicitamente esercitate prevenzione e repressione ad ogni livello. Non dipendono da meccanismi necessitanti, ma da un atto di volontà, sono conseguenti all’educazione ricevuta, alle convinzioni personali maturate, hanno la caratteristica di essere diversi secondo i luoghi e i tempi, come già faceva notare il vecchio Erodoto, tanto che può venire qui condannato un comportamento che è altrove lodato. Questo del relativismo culturale è un problema a parte, anche se forse coinvolge in qualche modo il criterio di attribuzione dei comportamenti ad un tipo piuttosto che ad un altro. La linea di demarcazione tra meccanismi istintivi e comportamenti volontari, infatti, non è certo nettamente tracciabile. Per il momento, limitiamoci ad accettare la divisione di massima tra i due tipi, più comune. Resta il fatto che un gruppo sociale che si voglia definire democratico dovrebbe permettere il maggior numero possibile di scelte morali ai suoi componenti ed intervenire nelle scelte individuali solo nei casi estremi. Quali sono però i casi estremi? Quelli che minano la stessa struttura sociale esistente. Ecco allora sorgere vari problemi: quale società è più giusta? Quella democratica? Qual è però la democrazia giusta? Ogni democrazia non corrisponde – ovviamente – ad un concetto astratto, ma si definisce sempre come un particolare tipo di democrazia in cui è vero che il demos esercita il potere, ma in forme che possono essere molto diverse tra loro. Si potrebbe dire che è migliore la democrazia che garantisce al popolo la maggior libertà possibile; ma che cosa è la libertà? Non può essere certo la libertà di fare qualunque cosa chiunque desideri: lo stupratore e il razzista pretenderebbero di avere libertà d’azione, limitando però la libertà di altri. La libertà dovrebbe essere allora quella che permette ai più di realizzare desideri giusti. Cosa è però la giustizia? Quel comportamento che la maggioranza democratica ha deciso che tutti debbano seguire. Qual è però la giusta democrazia? Non è forse la democrazia soltanto la tirannide della maggioranza? Se la maggioranza decidesse che il più forte ha il diritto di esercitare con violenza la propria forza, stuprando e uccidendo i più deboli, sarebbe solo per ciò una cosa giusta? Certo sarebbe però democratico.

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Filosofia, psicologia e politica paiono dunque trovare qui il campo nel quale esercitare meglio il loro ruolo. La psicologia, sperimentale e non, può, in questo caso, parlare di comportamenti sociali o asociali, progettare e applicare tecniche terapeutiche: dall’ipnosi al comportamentismo, dal cognitivismo a una delle possibili psicoanalisi, fino a contemplare interventi di tipo psichiatrico, con l’impiego di farmaci e psicofarmaci. Il dibattito a questo proposito è estremamente ampio; si discute sul significato di malattia, ci si domanda se il delirio sia una forma di ribellione a regole imposte oppure una forma di fuga, se sia indice di una mente creativa oppure disgregata. L’inconscio appare come una misteriosa presenza capace di condizionare tutte le ipotesi psicologiche, persino quando si mette in dubbio la sua esistenza; si parla dei suoi interni conflitti, del suo rapporto con la parte cosciente della psiche, della possibilità di controllo che se ne può avere. Quasi sempre comunque il problema della salute mentale sfocia in un problema morale: quali comportamenti sono da ritenersi devianti? Quando non vi sia un’insufficienza mentale grave che impedisca al soggetto di orientarsi nel mondo e magari di gestire adeguatamente se stesso, a che punto è legittimo dire che cominci la follia e non si sia invece in presenza di una scelta esistenziale? Persino il dolore e la sofferenza che l’individuo può provare non sono elementi sufficienti a stabilire il giudizio, poiché c’è da tenere conto non solo della sofferenza di chi agisce in un modo piuttosto che in un altro, ma anche di quella che possono provare coloro che vengono coinvolti. Non basta infatti dire: quello che voi chiamate matto è in realtà felice e quindi non può essere considerato malato. Se tortura i propri familiari e perseguita chi gli capita intorno, se tiene comunque un atteggiamento parassitario in seno al gruppo di cui fa parte, col quale non intende collaborare né comunicare, allora bisogna tenerne conto.

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Molte persone che vengono in analisi da me vedono spesso, per fortuna, che non solo si affievoliscono i sintomi del loro disagio, ma che anche, lentamente, cambia la loro visione del mondo; non sono più così succubi di altri, osano operare scelte che richiedono maggior coraggio e molti di essi, a questo punto, devono registrare un fatto inatteso quanto puntuale: il gruppo più o meno ampio di cui fanno parte reagisce a questi loro cambiamenti in modo negativo. I più intimi iniziano a svalutare il lavoro psicoanalitico, a negarne gli effetti, a farne rilevare il costo, o addirittura sottolineano i presunti aspetti negativi che l’analisi avrebbe fatto emergere, esaltandone la negatività anche rispetto alla situazione preesistente. Talvolta non si limitano ad agire sul paziente, ma aggrediscono anche me, attraverso quel potente e invadente mezzo che è il telefono. Indubbiamente, è spesso vero che il tragitto psicoanalitico ha portato alcuni molto lontano dal loro punto di partenza; poiché le loro opinioni sono molto cambiate, è possibile ipotizzare un mio condizionamento, un plagio da me operato. Pochi però si preoccupano di verificare se le persone in questione stiano veramente meglio o peggio e se il loro rapporto con la realtà sia più lucido, anche se questa nuova realtà le ha rese più sensibili alle contraddizioni e meno docili alle direttive altrui. Nuovamente si pone il problema morale: il loro mutato comportamento ora provoca sofferenza a chi sta loro intorno, ma questa volta si propone come un segno di salute. Quanto è vero? Il campo delle congetture a questo punto si estende indefinitamente e diventa puro esercizio dialettico.

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Anche quando la morale e la filosofia vogliono sganciarsi dalla psicologia, affermando di non voler essere prede di semplicistici psicologismi, non riescono comunque a dare agli uomini indicazioni sufficientemente chiare sulle scelte da operare. Moralisti e filosofi si arrovellano con più o meno lucidi sillogismi e poi, ad un certo punto, intervengono i politici a sostenere come ogni gesto sia un atto politico e che scienza e filosofia hanno il loro concreto fondamento nella prassi politica, fatta di rapporti economici. Morale, filosofia e psicologia dovrebbero secondo costoro trasformarsi in sociologia, per mantenere il collegamento col reale. Ci sono alcuni che ritengono che la funzione della sociologia sia soprattutto descrittiva, altri invece sostengono che essa debba intervenire ed indirizzare e fanno tutto sommato coincidere con la stessa politica divenuta autoconsapevole. Su cosa, però, si radica questa auto-consapevolezza? Basta la semplice percezione di ciò che si va operando, oppure è necessaria la convinzione che ciò che si sta facendo sia bene? Andando alle estreme conseguenze, si potrebbe giungere ad affermare che nulla è di per sé giudicabile, poiché ogni gesto è comunque il solo che sia possibile in quel momento compiere. L’uomo è prigioniero della storia, dei suoi bisogni, delle influenze ambientali, delle mutazioni genetiche, di se stesso. La scelta è sempre una non scelta. Certo, quando si giunge ad affermare cose del genere, si ottiene solo il risultato di ricominciare tutto da capo, in un grottesco girotondo. Si è mossi solo dall’istinto, l’istinto è un programma genetico che ciascuno si ritrova dentro, gli esseri umani non possono che reagire in un determinato modo. Tutto è già stato detto e scritto e ciò che può generarsi di nuovo non dipende affatto dalla volontà dell’uomo, il quale può solo arrabattarsi, teorizzare, piangere o ridere, scrivere anche; ma resta il fatto che i suoi istinti più elementari e le facoltà più elevate poggiano gli uni sulle altre senza riuscire ad avere un significato ultimo.

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Per quel che personalmente mi riguarda, però, dopo anni di studi e di ricerca, non ho più l’impressione di essere al punto di partenza. Per anni, girandole di pensieri e di avvenimenti mi hanno abbagliato: mi sembrava sempre di essere lì per scorgere una luce, una direzione, un senso e poi altri pensieri contraddicevano i precedenti e spegnevano la speranza di quella luce. Mi ritrovavo sempre a ricominciare da capo, mentre la vita proseguiva. Ora, anche nel mio campo di lavoro, credo di avere invece idee sufficientemente chiare. Sebbene sia convinto che la scienza costruisca soprattutto verità che sono proiezioni del singolo e del gruppo sociale, queste costruzioni non sono pura illusione. Io, cercando di cambiare continuamente prospettiva, mi sono accorto che la scienza, pur nel suo procedere per tentativi e per errori, riesce talvolta a raggiungere qualche verità parziale, sulla quale è possibile fondare un buon metodo e una valida esperienza. Sono così venuto, lentamente, costruendo un mio piccolo sistema che ritengo sufficientemente fondato sulla verità. So che dovrò andare oltre, ma per ora, riesco comunque a dire cose di cui sono persuaso.

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Questo mio lungo percorso esistenziale e intellettuale, faticoso e contraddittorio, ha avuto tra gli altri, un risultato inatteso: mi ha fatto scoprire la bellezza e l’importanza della gratitudine.
Proprio perché io non sono stato mai solo, capisco quanto terribile sia la solitudine e come spesso si resti soli proprio perché non si è saputo dire grazie al momento giusto e alle persone giuste. Chi è grato non sarà mai solo.
Viviamo in una società in cui i ringraziamenti fasulli si sprecano: fin da piccoli ci insegnano a ringraziare, anche quando rifiutiamo qualcosa. Ci hanno sempre detto che è doveroso sdebitarsi. Ci hanno insomma imposto una gratitudine volgare e immorale, fatta di frasi come «Accetti questo… è solo un pensiero!» «Grazie, non si doveva disturbare!» È giusto voler contraccambiare quando si è ricevuto qualcosa, ma questi sono gli stantii rituali dell’avarizia, magniloquenti e vani, privi di vero interesse per l’altro e per ciò che ci ha dato. Mi viene in mente la frase del Cirano di Rostand: «Salir anche non alto, ma salir senza aiuto!» Una frase bellissima, a patto che la s’intenda nel giusto modo: cioè come determinazione a non calpestare nessuno per salire più in alto; ma che troppo spesso maschera un sottofondo di meschina presunzione. Perché si dovrebbe aver così paura di ricevere aiuto? Proprio perché si teme di dovere a qualcuno riconoscenza?

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Il problema della gratitudine mi tocca anche come analista: spesso le persone che hanno ricevuto qualcosa in analisi da me non vogliono essermi grate; ritengono di essersi sdebitate pagandomi l’onorario. Può darsi che sia anche colpa mia: io per primo non ho forse saputo far loro percepire la mia gratitudine per la loro decisione di affidarsi a me; forse non sono davvero riuscito a guarirle quanto avrei dovuto. Comunque, ogni giorno di più, si fa strada in me l’importanza del sentimento di gratitudine che provo per tutti coloro che mi sono rimasti vicini, che non mi hanno abbandonato, che hanno avuto il coraggio di ascoltarmi. Forse lo hanno fatto per amore e anche di questo io devo esser loro grato. Se ho potuto capire qualcosa del mondo, è proprio perché non sono rimasto solo; gli altri mi hanno aiutato ad acquisire la mia attuale, seppur relativa, capacità di intervenire. Non credo di avere in tasca la conoscenza, ma l’essere umano è oggi, per me, qualcosa di più concreto di un’ombra sfuggente e per questo mi sento in grado di rinforzare il mio impegno a curare. Curare non è solo mettere in atto una tecnica di intervento; chi da queste poche righe ha capito cosa io intenda per cura, può ritenersi fortunato, poiché ha accettato di non voler essere solo.