44 – Giugno ‘88

giugno , 1988

Passato il tempo degli «eroici furori», quando la fila sull’uscio rendeva il ristorante Cicilardone di via Merulana 77 meta a lungo agognata dagli snob del generone romano e dai buongustai, oggi che le acque si sono calmate fa nuovamente piacere sedersi a gustare in santa pace un pranzo o una cena preparati con una cura non comune per quello che è lo standard della trattoria romana. Vogliamo soprattutto sottolineare come tutto quello che giunge in tavola appaia fresco e appena cucinato, con materie prime veramente ottime e paste fatte davvero in casa con sapienza.
Si inizia con un frizzantino gradevole accompagnato ad un croccante pane alle olive e poi si prosegue con i primi piatti: cuscinetti all’antica profumati di pomodoro e basilico, orecchiette originali dalla consistenza deliziosa, ciabatte pasticciate dal sugo fresco e invitante; così le paste fresche; leggermente sotto tono forse le paste secche: spaghetti cacio e pepe un po’ troppo crudi e asciutti sebbene conditi con buon pecorino e penne terribili ma non troppo aromatiche e giustamente piccanti, ma con una pasta che heideggerianamente «pasteggia», cioè ha quell’altrimenti poco definibile consistenza che la rende collosa. Ottimi anche i secondi: un filetto ai sette veleni, carne ottima, generosamente condita con tartufi, funghi e chissà quali altri «veleni», le pezze pazze, dal curioso sapore agro-dolce, filetto al Gengiskan non sgradevole anche se, dato il nome ci si aspetterebbe qualcosa di più aggressivo. Buoni anche i contorni: crocchette e zucchine ripiene di formaggio. Tra i dolci sono particolarmente apprezzabili i profiteroles, nappati di vellutato cioccolato e il gelato affogato, gradevolmente casareccio. La cantina è fornita di ottimi vini, ben tenuti e ben presentati. Eccellente il rosso lucano della casa, dal leggero goudron, profumato di viola mammola e cannella e di buona stoffa; una scoperta per molti può essere il Benefizio, un Pomino Frescobaldi, dorato, setoso, leggermente salmastro e profumato d’erba. Il servizio è disimpegnato dal titolare e dalla moglie, cortesi e attenti, anche se leggermente malinconici. Il prezzo non è troppo alto anche in considerazione della qualità.

Quasi all’ombra del Colosseo, in via dei Normanni, è spuntato uno dei molti ristorantini cinesi della città: Avanti. La sala è molto piccola, l’arredamento convenzionalmente «cinesizzato» con pochi ed economici elementi; ma il servizio è svolto da persone particolarmente simpatiche e sorridenti che hanno il solo inconveniente di capire pochissimo qualsiasi lingua che non sia il cinese (o l’indo-cinese). Così che è possibile fare l’ordinazione come se si giocasse a tombola: estraendo cioè i numeri dalla lista, che ne contiene ben più di novanta.
Noi eravamo in molti e ciascuno di noi ha fatto almeno quaterna: i numeri vincenti sono stati quelli corrispondenti alle alghe fritte, croccanti e non unte (7), i ravioli alla griglia, morbidi e saporiti (10), i capellini fritti soffici, molto gustosi e leggeri (33), la seppia piccante, dall’eccitante sughetto (94), il pollo con noccioline, un connubio aromatico interessante (41) e il maiale stu-fato, sostanzioso e tenero (78). I numeri perdenti non sono stati molti, ma due di essi hanno avuto esito quasi disastroso: quello del manzo croccante piccante, viscido e dolciastro (67) e l’occhio del drago, un gelato fritto orribile la cui pastella aveva la consistenza del cemento, che ci ha così turbato d’averci fatto dimenticare persino il numero.
Visto che la situazione dei vini si presentava desolante, come solitamente avviene nei ristoranti cinesi, abbiamo cercato alternative, così abbiamo finito per ubriacarci con l’unica bevanda veramente all’altezza della sua reputazione: la grappa di rose. La cordiale disposizione d’animo dei gestori ci è stata confermata da un prezzo davvero molto basso, così che pensiamo che qualche volta torneremo a tirare qualche altro numero, sperando nella buona sorte.

L’Hostaria al Tettarello di via dei Capocci 4, nel rione Monti, promette cucina particolare e musica dal vivo. L’ambiente è quello un po’ scontato del rustico senza troppe pretese con arredi folcloristici e gli immancabili quadri alle pareti. Le volte che noi ci siamo stati, sempre a notte fonda, la musica consisteva in canzoni un po’ vecchiotte cantate da più o meno ebbri ex-giovanotti. La cucina ha di par-ticolare che è particolarmente cattiva. Non siamo riusciti a salvare nulla neppure l’ultima volta che ci siamo stati con un animo un po’ bendisposto proprio perché non volevamo farci condizionare da un ricordo sgradevole. La casa impone sul tavolo il suo cocktail aperitivo all’unico sapore di gin, che tra l’altro disturberebbe il palato così vicino al pasto, ma comunque il palato sarà tanto sconvolto dal cibo che è inutile preoccuparsi di un simile dettaglio.
Le pennette al Tettarello consistono di uno strato colloso di formaggio fuso, su di un mucchietto di pasta malcotta cui sono mischiati panna, gamberi e cognac con un risultato che lascia più che perplessi; il riso agli scampi è una polentina sfatta con crostacei frollati come se fossero starne, ovviamente tutto è annegato nella panna. Ci siamo tenuti lontani da risi al kiwi e fettuccine all’arancia, però non abbiamo evitato la cannaccia con patate: una canna di bambù avvolta in carne fibrosa e incartapecorita e frites surgelate e mosce; ugualmente male ci siamo fatti andando a sbattere negli scampi alla griglia dei quali il cognac non bastava a coprire l’afrore. Dopo due bottiglie di Sauvignon dalle etichette diverse ma dall’uguale saporaccio, abbiamo trovato polveroso anche un Gattinara Travaglini dell’81. Il conto è stato inversamente proporzionale alla qualità della cena.