Archivio di aprile 1988

Psicoanalisi contro n. 42 – Il libro di Napoleone

venerdì, 1 aprile 1988

Io ho raccolto nella mia lunga esperienza clinica ed esistenziale avvenimenti e situazioni che mi hanno segnato e che hanno condizionato il mio pensiero. Sulla scorta di quest’esperienza, voglio parlare di alcune persone che si trovano ad affrontare l’analisi e debbono perciò superare difficoltà interne ed esterne. Voglio parlare di alcune inconsapevolezze, voglio soprattutto parlare della patologia della normalità. Vorrei anche dare consigli a coloro che intendono sobbarcarsi l’onere di prendersi cura degli altri.
Questa volta non cercherò però di fare una trattazione sistematica; non mi interessano qui molto le concatenazioni logiche; ma mi interessa piuttosto mandare stimoli a chi abbia eventualmente interesse ad avventurarsi nei meandri di queste mie righe. Potrà sembrare che io voglia catalogare i tipi di personalità che decidono di affrontare una terapia psicoanalitica e descriverne tutte le possibili vicende. Nulla invece di tutto questo. Il mio è solo il contributo di una personale esperienza, che può anche prestare il fianco alla critica od essere oggetto di una lettura malevola, ma questo è il rischio cui si espone ogni pensiero. So che è difficile seguirmi con serenità, perché io stesso non sono sereno e continuamente mi infurio e lancio anatemi a destra e a manca contro gli «imbecilli» di ogni specie, ma ugualmente scrivo per chi imbecille non è. Spero comunque che seguire questi miei ragionamenti possa giovare a qualcuno; poiché so che non è facile, da soli, né decidere di affidare ad altri la cura della propria salute, né di prendersi cura della salute altrui. I pazienti, quando iniziano una psicoterapia, hanno molte paure: la dipendenza dall’analista, l’inefficacia della cura, i suoi pericoli. I terapeuti della psiche dal canto loro sono oppressi dal timore di non essere persone per bene; vivono continuamente temendo il giudizio dei loro colleghi: forse quelli della scuola rivale avranno il sopravvento, la gente dirà di loro che sono «selvaggi»; certo quel didatta ha più prestigio del loro. Così, nella generale assoluta insicurezza, nessuno tollera critiche, tronfiamente chiuso nella presunzione della oggettiva superiorità della propria scienza, sia essa sancita dall’Università di Stato o dalla conventicola più settaria, sia che si fondi su dogmi o su esperimenti. Comunque, siano psicoanalisti di Stato o consacrati dal «Sacro Cuore di Maria», questi particolari tipi di scienziati sono guardati con aria di superiorità da quei medici che manipolano bisturi o sostanze farmacologiche, spietati con quei loro pseudo-colleghi, poveri illusi che blaterano credendo di curare, facendosi forti di antichi santi protettori che hanno nel passato nutrito le stesse illusioni.

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Le motivazioni per cui ci si rivolge ad uno psicoterapeuta sono complesse e spesso ambigue, e molto diverse sono le caratteristiche delle persone che fanno ricorso alla psicoterapia; infine è difficilissimo capire che cosa spinga a scegliere un terapeuta piuttosto che un altro: consigli di amici, letture casuali di articoli, ghiribizzi della fantasia concorrono in ugual misura a determinare le scelte. A chi sta male può capitare di confidare ad un amico lo stato di crisi che sta attraversando comunicandogli anche le proprie angosce per le difficoltà esistenziali o di relazione, per l’incapacità di lavorare o le complicazioni della propria vita sessuale. Può purtroppo accadere che l’amico che si dimostra più ricettivo sia però un perfetto idiota, il quale, appena sente parlare di psicoanalisi parte in fervorini di persuasione in cui ribadisce i pericoli della terapia e della dipendenza dal terapeuta e sottolinea l’importanza per ciascuno di trovare «dentro di sé» la forza di vincere i propri mali. Se questo accade, la sola possibilità di non soccombere alla follia è quella di abbandonare immediatamente un tal tipo di amico e fare il contrario di quello che ha consigliato.
Il vero atto di consapevolezza e di coraggio è infatti quello di ammettere che si ha bisogno di qualcuno che ci aiuti a vincere il male che ci insidia e che, da soli, non saremmo mai in grado di riconoscere fino in fondo. Credere di potercela fare sempre da sé è una stupida e vile presunzione.
Chi è stato capace di superare la trappola di questi sciocchi amici e consiglieri ed ha avuto la forza di scegliere la cura e un terapeuta ha già fatto un notevole passo avanti. Per costoro l’ostacolo rappresentato dal tentativo di dissuasione può essere addirittura servito a rafforzare la propria determinazione ed aggiungono così al piacere di confermare la propria scelta anche quello di aver frustrato oppositori tanto tenaci quanto pericolosi. I saccenti consiglieri sono certo più malati di chi ormai è consapevole del proprio male. Tutti coloro che insistono nel dire a se stessi e agli altri: «Curati da te» sono profondamente malati.

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Non sempre però la scelta della psicoterapia come rimedio al proprio disagio psichico viene ostacolata e accade anche che alcuni vi si accostino con una certa facilità. In questi casi si verifica però un curioso fenomeno: dopo pochissimo tempo che si è intrapreso il lavoro, nascono spontaneamente quelle sciocche obiezioni e si viene a determinare una condizione di sottile ed insistita ostilità al trattamento e al terapeuta. Affiorano tutte le considerazioni circa la dipendenza, si prova insofferenza per la fatica che la psicoterapia richiede a chi vi si impegna, si finisce con l’essere quasi convinti che fossero meno gravi i sintomi di cui prima ci si lamentava, viene insomma a costituirsi una vera e propria istanza interiore che ha la stessa funzione dissuasiva e sconfortante che – nelle persone di cui abbiamo parlato prima – aveva l’amico idiota preso come confidente.
Io mi chiedo se sia umanamente possibile sottrarsi davvero alla vigliaccheria e all’idiozia, e so che chi sta male è ancora più esposto a questi rischi. Che l’idiota sia interiore, oppure che sia incarnato dal conoscente astioso e presuntuoso poco cambia per quel che riguarda gli effetti sulla cura, certo è comunque che la decisione di curarsi segna già una prima vittoria.

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Ci sono poi persone che iniziano un’analisi perché sentono il bisogno di «conoscersi». Costoro dicono di non stare troppo male, di non patire disagi clamorosi, si sentono risparmiati da angosce e malesseri e pensano di vivere una sessualità tranquilla. Sono simili ad un ragazzo che non molto tempo fa si presentò nel mio studio: troppo magro, troppo biondo, troppo contratto, vestito con eccessiva appropriatezza, con un profumo di colonia per uomo di quelli sufficientemente pubblicizzati, ma non troppo ricercati, repellente nella sua ordinarietà. Iniziò a parlarmi, rassicurandomi su quanto tutto in lui fosse normale: l’educazione, la famiglia, l’ambiente, gli studi, i gusti sessuali, la professione. Gli risposi affermando in tono quasi perentorio che tanta normalità denunciava un grande bisogno di un immediato lavoro terapeutico e soggiunsi: «Non le darò però un analista normale». Per non inquietarlo troppo continuai: «Voglio dire che le darò un’analista eccezionale!». Mi salutò dandomi da stringere l’indice e il mignolo, come chi fa un gesto di scaramanzia. Certamente involontario!

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Per quanto questa possa sembrare un’affermazione paradossale, è però vero che coloro che si accingono ad un trattamento psicoterapeutico hanno in comune un’esigenza ineliminabile, di cui il terapeuta deve tenere conto: più o meno consapevolmente, tutti quanti vogliono essere considerati «normali». Nel raccontare i loro sintomi, i loro pensieri, anche i loro deliri, non cesseranno di osservare di tanto in tanto il terapeuta, con aria apprensiva, intenzionati ad avere la conferma della loro normalità. Si sentono tanto normali che temono persino di sdraiarsi sul lettino dell’analisi, perché una posizione così poco convenzionale non si addice a persone normali; inconfessati pensieri li spaventano: come se, una volta sdraiati, potessero succedere le cose più pericolose e conturbanti, cose che fanno paura ed affascinano, cose che potrebbero portarli molto lontano da quel mondo di normalità al quale fingono di volersi tenacemente aggrappare. In questa fase, l’azione dell’analista deve essere quanto mai discreta e rassicurante: egli deve apparire persuaso, anche se è convinto del contrario; deve essere capace di abbandonarsi con loro a quell’ipotesi di normalità, seguendoli nelle loro paure, comprendendone le angosce più profonde, evitando di giudicare e cercando di cogliere i messaggi che provengono dal nucleo oscuro dell’inconscio. L’analista deve lasciarsi andare senza spaventarsi e senza spaventare.In genere i pazienti, a questo punto, usano un trucco: buttano in faccia all’analista l’ipotesi di un’anormalità particolarmente sensazionale e clamorosa, che è, in genere, quella di cui loro stessi hanno più paura, per potersi scandalizzare se l’analista la conferma, e fuggire inorriditi per una simile insinuazione. L’esempio più ricorrente è quello dei pazienti che avanzano la consueta e un po’ patetica ipotesi dell’omosessualità, tirata subito in ballo con eccessiva insistenza. Costoro vogliono essere «accusati» dal terapeuta di omosessualità, per fargli poi notare,con sufficienza e disprezzo, come quella sia un’ipotesi troppo scontata, e gli rimproverano di non aver visto un altro ben più grave elemento che, secondo loro, è alla radice del disagio: una tale analisi non può quindi servire ed è meglio finirla subito. L’analista che cade in questa trappola è troppo ingenuo o stupido e il paziente fa bene ad abbandonarlo. Colui che però sa il suo mestiere non cade nell’inganno e non segue il paziente in quei suoi maliziosi ragionamenti, preferendo, per esempio, parlargli di religione. Come sarebbe bello se avesse ragione Freud e se le sue schematizzazioni, così ovvie, corrispondessero alla realtà. Certo, l’uomo e la psicoanalisi sarebbero un po’ più squallidi, ma almeno si potrebbe fare analisi mettendo i dati negli elaboratori dei cervelli artificiali, ottimi alleati del buon senso. Ma sia l’antico buon senso psicoanalitico, sia gli elaboratori di oggi, non sono sufficienti a cogliere in pieno la realtà di ieri e di domani: l’uomo ha bisogno di capire con il proprio cervello il mondo che gli sta intorno ed anche se stesso. Il buon senso è solo un camuffamento dell’idiozia e le macchine pensanti sono strumenti più limitati di qualunque essere umano.

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Che differenza c’è tra anormalità e sofferenza? Bisogna avere una grande pietà di coloro che dicono di voler iniziare un lavoro psicoanalitico solo per desiderio di conoscenza e non per intervenire su una situazione psichica che considerano assolutamente normale; anche se è difficile non provare disprezzo per chi è vissuto per anni nell’ignoranza della propria anormale normalità. Per costoro, la figura del terapeuta deve corrispondere ad un modello preciso: egli è colui che chiarisce alcuni problemi, che ha il dovere di rassicurarli e confermarli nel concetto della propria normalità, deve loro spiegare alcune dinamiche psichiche, come l’inconscio o il transfert, li può aiutare a superare alcune paure o ad esplicitare alcuni desideri inconsci; uno che si paga volentieri perché non ha toccato il quadro di malata normalità che gli è stato presentato.
Con persone del genere, non resta all’analista che armarsi di pazienza. Se però patisce crisi di insofferenza o di idiosincrasia è meglio che dica al paziente: «Io sono troppo anormale per curare lei che è una persona così sana e normale. Se ne vada, porti altrove la sua salute; il mondo è pieno di sani come lei, pronti ad appestare la terra. Io sono un piccolo analista malato e anche un po’ anormale». Questo però è solo un sogno: se in realtà fosse possibile tenere simili discorsi, la vita sarebbe molto più bella e varia di quello che è. Invece il dovere impone di continuare umilmente il lavoro e, prima o poi, si dovrà trovare la capacità di dire al «normale» che la strada della salute è un’altra. Quello si sconvolgerà vedendosi additare l’anormalità, ma ugualmente l’analista dovrà avere il coraggio di non mentire; se non potrà dire tutta la verità, sarà meglio che taccia. Io non ho mai mentito ad un mio paziente ed ho sempre cercato di avere la forza e l’onestà di dirgli che la strada che indico non è quella della normalità. È qualcosa di più ricco e di più allegro, forse, di più sano certamente. Chi non ha abbastanza coraggio è però meglio che vada altrove a cercare le conferme di una malata normalità senza entusiasmi. La salute non è nella normalità, perché chi è normale è solo acquiescente a regole che gli altri hanno imposto un giorno dopo l’altro. Anticamente la normalità non esisteva: c’erano solo uomini che regnavano con l’amore sul mondo. Torno sempre a questa parola: amore; torno al dio Eros. La mia è una forma maniacale, patologica, ossessiva.

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Forse io non dovrei fare lo psicoanalista, perché affermo troppe cose strane; dico quello che penso e che è forse sbagliato; mentre da me si cercano solo parole di verità. In questo mondo sono ritenute espressioni di verità le parole più stupide e vili: quelle dei giornali e degli audiovisivi; si dà valore solo ad una comunicazione di massa, che io rifiuto. Io voglio parlare ogni giorno, direttamente, agli altri; ma quale spazio c’è per la mia comunicazione? Qualcuno, più cretino, mi giudica un pessimista, invece io resto un ottimista: spero ancora di essere ascoltato e seguito; non mi dispiace neppure essere contestato, purché lo si faccia dopo aver sentito quel che ho detto. Sono uno strano psicoanalista, che crede nell’inconscio, nel conflitto tra conscio e inconscio, nella concretezza del disagio mentale. Sono convinto che con la psicoanalisi si possa aiutare l’uomo a liberarsi dalle angosce, a diventare davvero sano. Non cerco il consenso a tutti i costi: io chiedo solo ad alcune persone di capire e di seguirmi lungo una strada molto difficile.

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Un giorno, un ometto, piccolo piccolo, mi disse: «E se in fondo alla strada della comprensione troverete il nulla?» Quell’ometto piccolo piccolo ha assolutamente torto: in fondo ad ogni strada c’è sempre qualcosa. Vi può essere la salute o la malattia, l’abisso o un’osteria con un pergolato e la possibilità di ben mangiare su di un tavolo apparecchiato con una tovaglia a quadri bianchi e turchesi. Nessuna strada, però, finisce mai; si arriva sempre ad un ulteriore punto di partenza. Ogni strada confluisce in un’altra, in un intrecciarsi di percorsi che – anche – ripassano sugli stessi luoghi. Qualcuno crede di potersi liberare, puntando dritto verso il cielo, fuori del mondo; io non credo a questa possibilità, e credo nell’importanza di continuare a camminare su questa terra; non so fino a quando, poiché non riesco a pensare all’eternità; so però che la strada continua, ma non finisce nel nulla. Quell’omino piccolo temeva il nulla forse proprio perché non era abbastanza grande, «alto», direbbe Napoleone, come disse al soldato che, aiutandolo a prendere un libro sullo scaffale della biblioteca, gli aveva detto: «Maestà lo prendo io che sono più grande.» Io continuo a pensare che nessuno ci ha mai detto quale libro Napoleone cercasse: coloro che riferiscono gli aneddoti non dicono mai le cose essenziali!

42 – Aprile ‘88

venerdì, 1 aprile 1988

La Nuova Fiorentina, in via Angelo Brofferio angolo piazza Mazzini, è un locale abbastanza noto nel quartiere, sempre molto affollato anche fino a tarda sera. Ha le caratteristiche del ristorante e pizzeria, dove si fa una cucina rapida tra il romanesco e il toscano, in un grande andirivieni, tra i tavoli affollati, nei grandi saloni dall’arredamento solido e bruttino, con i camerieri che hanno quasi più fretta degli avventori e il fumo delle troppe sigarette.
Noi ci capitiamo ogni tanto, presi un po’ dalla disperazione di dover trovare in fretta un posto dove mangiare qualcosa tra un impegno e l’altro o quando si è fatto troppo tardi. Non ne siamo mai rimasti entusiasti, ma l’ultima nostra esperienza ci ha decisamente irritati. Le pizze, quale che fosse il loro nome: marinara o margherita non differivano per l’assenza di sapore e per quella loro pasta tirata sottile come un’ostia, inconsistente e appena affumicata; i primi piatti erano agnolotti alla romana orrendi, stracotti, stantii, con un indecifrabile ripieno e conditi con un acquoso ragù; i tonnarelli alla vignarola, appiccicati e papposi con un dissennato sugo di piselli, prosciutto, funghi, pomodoro e chissà cosa ancora, scisso e insapore. Il lesso in salsa verde era una «rollatina», come ben tradiva il residuo spago, che si insinuava tremendo fra i denti, condita da un’acquetta verde al prezzemolo; la bistecca fiorentina era di cartapesta inumidita, l’abbacchio amaro e ossutissimo, il fritto di cervello e carciofi molliccio e senza gusto. Nei bicchieri, ancora caldi di lavastoviglie, abbiamo cercato di dissetarci, prima con un Prosecco dei Colli Trevigiani di Chiarotti, passabile, e poi, senza che nessuno si preoccupasse di cambiarci i bicchieri abbiamo sperimentato lo scherzetto di un caldissimo frizzante Chianti Rufina della Fattoria di Vetrice, assolutamente irriconoscibile. Il conto non ci è sembrato caro, ma a nostro avviso non basta per giustificare tanto sfacelo.

Sebbene il tempo non sia stato molto clemente nella settimana di Pasqua, la campagna intorno a Roma riusciva ad essere gradevole, variopinta e profumata come sempre. Comincia a quell’epoca la stagione delle gite fuori porta,con le tradizionali soste nelle osterie e osteriole che da sempre rallegrano i gitanti della domenica ed anche nel corso della settimana i sentimentali frequentatori di rustici locali sotto la luna. I Farfalloni d’ora in avanti riferiranno delle loro esperienze campagnole e sono lieti di iniziare col racconto di una giornata positiva. Nella cucina delle Caverne del Norcino in corso Umberto a Morlupo c’e gente che sa il fatto suo. L’ambiente è bizzarro e suggestivo, vi si accede da un piccolo ingresso e si rimane di stucco quando, dopo una porticina, si aprono spazi enormi, sovrastati da poderose volte ed archi di mattoni, degni delle segrete di un castello, e dalla sala principale partono corridoi che sprofondano misteriosamente nel tufo. Anche l’arredo ha un tono leggermente medioevale, coi lam-padari di ferro e il tavolone su cui troneggiano i vassoi ricolmi d’ogni ben di dio. Di lì arrivano subito i tradizionali antipasti, non particolarmente originali, ma sapidi, appetitosi e fragranti: pro-sciutti e bruschette, peperoni al forno e melanzane. I primi piatti di pasta, nonostante lo scivolone dei bombolotti alla panna, erano energiche penne all’arrabbiata, passabili fettuccine al ragù, ottime pappardelle al cinghiale; ed eccezionali pappardelle ai funghi porcini, che ci hanno stupito, perché fuori stagione non ci saremmo mai aspettati di trovarli così profumati e croccanti, in un. sugo perfettamente tirato con grande armonia di sapori. Anche i secondi ci hanno riservato una piacevole sorpresa: oltre al galletto eccellente, preparato alla diavola,cotto alla perfezione in modo da esaltare la morbida e soda carnosità, abbiamo goduto di un filetto al barolo meraviglioso, con l’intingolo preparato a regola d’arte e un taglio di carne eccellente; corretti anche l’abbacchio a scottadito e il filetto alla brace entrambi succulenti e ben cotti.
Tra i dolci abbiamo trovato buona la semplice crostata di visciole dal soffice impasto e corretti la torta di ricotta e il creme caramel.
Siamo rimasti invece costernati dalla situazione della cantina.
Riconosciamo che questo è uno dei punti deboli dei ristoranti dell’agro romano, ma proprio per questo vogliamo esortare quei ristoratori a curarsi maggiormente di ciò che propongono agli avventori. Il bianco della casa era un vinello caldiccio e spento, il barbera più giovane scovato sugli scaffali, dell’ottantadue, era morto di vecchiaia.
Da un’occhiata sommaria abbiamo tratto l’impressione che tutta la cantina tendesse alla decrepitezza.
Se non fosse stato per questo avremmo raccomandato senza riserve questo luogo di gente simpatica, neppure caro. Speriamo che le cose in cantina cambino presto!

42 – Aprile ‘88

venerdì, 1 aprile 1988

A margine

Sia concesso, per una volta, alla marginalità di queste righe di entrare nel merito di quanto scrive, qui a fianco, Sandro Gindro.
Se è vero quello che afferma Rita Levi Montalcini nel suo «Elogio dell’imperfezione», e cioè che il complesso e stupendo congegno che è il cervello umano è in parte dovuto anche alla lentezza del suo processo di sviluppo, poiché nell’uomo il periodo di formazione si protrae praticamente per tutta la durata della vita, si può forse leggere, in una chiave per così dire «laica» anche l’insegnamento gindriano, che tanto insiste sull’importanza dell’anticonformismo. La condotta dell’uomo è in maniera impressionante determinata dagli influssi che il sistema sociale e culturale esercita su di lui fin dalla nascita, col risultato che si cercherà di plasmarlo nel modo più omogeneo possibile al modello dominante. Questo condizionamento da parte di sistemi che storicamente si sono succeduti perpetuando e cercando di conservare l’imperfezione, spiega anche come si sia potuto credere che certe caratteristiche negative trasmesse culturalmente facessero parte di un patrimonio genetico.
Due tra le più tragiche conseguenze di una scorretta lettura antropologica sono state la esaltazione della violenza come istinto naturale e la propagazione della stupidità a difesa della situazione esistente. Il nazismo è stato, in epoca recente, l’esempio più clamoroso di quanto il conformismo e la violenza uniti potessero addirittura volgersi contro il concetto stesso di umanità. Dopo la violenta scossa con cui il mondo ha reagito alla follia nazifascista, ha però ripreso sommessamente piede l’esigenza di ricostruire la situazione di consenso totale, a difesa di un sistema omogeneamente distribuito su tutta quanta la terra.
Strumento di questo rimbambimento universale è oggi l’opinione comune, della quale i mezzi di comunicazione di massa sono l’aspetto più macroscopico e deleterio, ma che ha anche le sue roccaforti scientifiche, religiose e culturali.
Se il conformismo viene accettato come espressione dell’ordine e della normalità, si viene a creare una situazione assai più pericolosa di quanto si creda, specialmente se si maschera di tolleranza.
La tolleranza dei conformisti isola e neutralizza i diversi, accomunandoli in una uniformità di giudizio che si rifiuta di distinguere ciò che è positivo da ciò che è negativo. Per questo chi si sente veramente e «laicamente» attaccato ad un ideale di personale libertà non può dividere le ragioni della lotta senza tregua contro ogni manifestazione di trionfante conformismo neo-illuministico: da rotocalco, da «fanzine», ecologico o telematico.
Non c’è vera liberazione se la comunione è associazione di conformismi; non c’è rivoluzione se non si usa la cultura dei padri per distruggere l’ignoranza di ieri e costruire presente e futuro.