Archivio di gennaio 1988

39 – Gennaio ‘88

venerdì, 1 gennaio 1988

È con sincera tristezza che ci accingiamo a parlare dell’Eau Vive, il ristorante di specialità francesi ed internazionali di via Monterone. In un bel palazzo dai saloni decorati di splendidi affreschi manieristici, un drappello del folto esercito delle Travailleuses Missionaires, lavoratrici missionarie, e terziarie carmelitane, mette a disposizione i profitti del proprio lavoro nel ristorante per sostenere lo sforzo missionario nel mondo. Noi conosciamo questo posto da più di quindici anni e ne apprezzavamo la cucina sapiente, gustosa e delicata al tempo stesso, fatta di ottimi piatti della tradizione francese, misti a curiose ed allettanti preparazioni esotiche provenienti dai cinque continenti. Addirittura entusiasmante, soprattutto per Roma, è poi sempre stata la carta dei vini, tra cui si potevano scegliere i migliori nettari della Champagne, della Loira, della Borgogna o della regione dei Bordeaux. Il tutto servito con impeccabile e sorridente gentilezza, commovente anche nell’ingenua pretesa di proporre ogni sera agli avventori, dopo un sermoncino edificante, di cantare tutti insieme un inno alla Madonna. Così è sempre stato negli anni passati e noi ci siamo tornati spesso, fino a non molto tempo fa, quando abbiamo un poco abbandonato questo paradiso, affannati ad inseguire, per dovere di cronaca e completezza d’informazione, le altre vecchie e nuove istituzioni della ristorazione romana.
Ci siamo tornati proprio in questi giorni: gli affreschi sui soffitti non erano cambiati, né erano mutate la gentile accoglienza e la tenerezza del canto di preghiera; ma la cucina ci ha lasciati letteralmente allibiti! Non possiamo quindi far altro che raccontare la nostra triste esperienza. Allegri siamo stati solo all’inizio, mentre degustavamo l’equilibratissimo aperitivo della casa a base di champagne; ma poi, fin dai piatti d’apertura la nostra serenità si è irrimediabilmente incrinata: le lumache alla provenzale erano minuscole, coperte di sale e col fondo amaro; il feuilleté di pollo alla crema di dragoncello, era una sfoglia molle e dolciastra e nel mare di panna della salsa si perdeva ogni ricordo del dragoncello; la quiche lorraine aveva la pasta quasi cruda ed era eccessivamente pesante. Con le portate di mezzo la musica non è cambiata (tra l’altro non cambiava neppure quella diffusa dal registratore e la sinfonia in mi bemolle K 543 di Mozart ricominciava ogni volta ossessivamente da capo): il filetto di bue alla landaise era anch’esso coperto di così tanta panna da risultare appiccicoso e di indefinibile sapore; quello ai cinque profumi ne aveva uno solo, acre, di fondo che cancellava il resto; il maiale al limone con patate noisettes era molto vicino ad una crèpe al limone. Premio alla nostra gola erano sempre stati, in passato, i superbi dessert fatti in casa, ma anche questo peccato ci è stato risparmiato: nel gelato della coupe maison e in quella brasiliana abbiamo trovato iceberg di ghiaccio rivestito di panna montata e qualche altro squilibrato ingrediente; persino la mousse di cioccolata ci è parsa esile ed acquosa. Siamo riusciti ancora a bere in modo meraviglioso, ma ci siamo accorti che la carta dei vini è rimasta quella di un tempo e va quindi paurosamente invecchiando. Abbiamo aprrezzato un Blanc de Pouilly fumé del 1983, equilibratissimo, fresco, profumato di uva spina e ribes, deliziosamente salato, con un’armonica punta di leggero amaro, dal bel colore giallo brillante con qualche verde riflesso. Il Saint Emilion, Chateau Rodier del 1981 risplendeva nel bicchiere col suo meraviglioso color rubino, sprigionando un fragrante bouquet segnato dal ricordo dell’erba e da uno stuzzicante sentore di peperone verde e al palato risultava armonioso e appena aggressivo. Il prezzo è stato ragionevole come sempre ed inoltre sono a disposizione per l’ora di pranzo menù a costo bassissimo. Siamo certi che questo sia un momentaneo disorientamento, in parte, forse dovuto anche al cambiamento recente di direzione e che noi deploriamo. Quando torneremo potremo di sicuro unirci al canto serale con l’animo nuovamente sereno.

La Casa del Re in via Santamaura 45 è uno dei mille ristoranti cinesi sorti a Roma in questi ultimi anni e nei quali troppo spesso la cucina è affrettata e che hanno – quando ce l’hanno – solo il pregio di costare abbastanza poco. In questo localino sotto il Vaticano, invece, si possono mangiare i piatti tradizionali di questa esotica cucina, con alcune preparazioni anche originali, fragranti e realizzati con cura. Si sa che per la cucina cinese la frittura è una operazione di fondamentale importanza e qui c’è in cucina qualcuno che è un vero mago dell’arte del friggere, riuscendo a dare ai piatti leggerezza e sapore e preservandoli da quella sgradevole sensazione di unto eccessivo che troppo spesso si riscontra.
Tra le moltissime portate consigliamo l’antipasto misto caldo, molto vario, gli gnocchi di riso fritti (che sono stati per noi una vera scoperta) e il nido di croccanti patate con carni miste, davvero prelibato; anche le zuppe sono buone ed è eccezionale il gelato fritto, avvolto in una leggerissima pastella, appena profumato di liquore; la frutta caramellata è croccante e non vetrosa come quasi sempre accade di trovarla.
I vini sono purtoppo i soliti bianchi di poco conto, mentre le grappe sono buone e varie.
Il prezzo è contenuto ed il servizio è davvero molto simpatico.

Psicoanalisi contro n. 39 – Il grido di Don Giovanni

venerdì, 1 gennaio 1988

Come ho già detto, la lingua italiana usa il termine coerenza sia per indicare l’armonico sviluppo di una struttura, non solo di pensiero, sia in senso morale, per designare la fedeltà a determinati valori. Essere coerenti con i propri princìpi vuol dire vivere secondo regole che dipendono da convinzioni profonde, non importa se più o meno liberamente accettate, costituiscono comunque il fondamento dell’agire nel mondo. Coerenza questa che, talvolta si paga a caro prezzo. In questa seconda accezione la coerenza riguarderebbe quindi soltanto princìpi morali e non dovrebbe riferirsi ai princìpi della ricerca scientifica e artistica.

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Nella storia della letteratura italiana trova posto anche un povero poeta, bistrattato, vilipeso da tutti i cattedratici-burocrati della cultura, che da lui prendono spunto per tuonare contro i cosiddetti «voltagabbana»: quel Vincenzo Monti presentato come l’antitesi e il negativo dell’altro Grande Poeta, simbolo della fermezza coerente ed intransigente, sconfitto e stanco per lo «scendere e’l salir per l’altrui scale», ma comunque ostinato in una coerenza eroica e titanica. Non mi è chiaro perché gli storici abbiano voluto assegnare proprio al Monti l’ingrato onere di essere simbolo dell’incoerenza morale, quando ci sono stati in ogni campo artisti, letterati, scienziati e politici che hanno cambiato con leggerezza opinioni, partiti, fede e ideali. Forse la spiegazione si può trovare nel desiderio dì vendetta contro quel suo far versi così sovraccarichi e magniloquenti, ostici e difficili al confronto della facilità romantica, semplice e un po’ bacchettona, ben accetta ai moralistici tartufi d’oggi e di ieri.
Monti, di fatto, fu molto coerente nell’arte sua, almeno quanto fu pronto a cambiar padrone e credo politico; allora il problema è caso mai di capire se i principi estetici e poetici da lui sostenuti fossero o meno compatibili col suo comportamento umano e civico. Ha però senso distinguere tra l’artista e l’uomo? Tra la persona e il suo agire? 0 piuttosto non è vero che ciascuno ha il dovere di essere coerente sempre e in tutti i multiformi aspetti del proprio vivere? Chi teorizza il bello deve per forza essere bello? In tal caso avrebbe torto Schopenhauer, quando sostiene che lo scultore non è tenuto ad essere egli stesso un bell’uomo, anche se il suo ideale è la bella scultura. Leocares aveva il dovere di essere bello come l’Apollo del Belvedere? Forse la coerenza di un artista non sta necessariamente nell’adeguarsi ai prodotti della propria arte e giustamente Antonio Canova non ha speso la propria vita, atteggiandosi in plastiche pose classicheggianti, sempre nudo fino all’ombelico! Così Johann Strauss non si sarà sempre spostato muovendosi a ritmo di valzer! La coerenza al proprio credo artistico è ben altro; non è solo l’unitarietà dello stile delle opere, che tutt’al più è utile a conoscerle, ma è una adesione morale ad un mondo che l’artista indica e restituisce agli altri. Le proprie opere esprimono sempre anche i contenuti filosofici del pensiero dell’artista. Ancora Schopenhauer diceva che il filosofo non era minimamente tenuto a porre in pratica le verità filosofiche che veniva scoprendo:
«Che il santo sia un filosofo è tanto poco necessario, quanto poco necessario che il filosofo sia un santo: come necessario che un uomo bellissimo sia un grande scultore o che un grande scultore sia pure un bell’uomo. Sarebbe d’altronde singolare pretendere da un moralista che non debba raccomandare se non le virtù da lui stesso possedute. Rispecchiare astrattamente, universalmente, limpidamente, in concetti l’intera essenza del mondo, e così, quale immagine riflessa deporla nei permanenti e sempre disposti concetti della ragione: questo e non altro è filosofia.» (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, § 68).
Se l’artista esprime in qualche modo il proprio pensiero, l’arte è simile alla filosofia e come tale tende ad una verità che riguarda l’uomo e il mondo. L’arte sarebbe allora solo involucro, o modo di dare forma ad una verità, ma questo è allo stesso tempo troppo e troppo poco, per l’arte e per l’artista.

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Ma questo riguarda soltanto il filosofo e l’artista o anche lo scienziato? La verità della filosofia è la stessa verità della scienza? Lo scienziato può illudersi di godere maggiore tranquillità, può credere di non doversi necessariamente porre il problema di essere filosofo e ritenersi dispensato da ogni riflessione sull’eventuale propria natura di artista. Egli dice a se stesso di essere colui che osserva, indaga ed esperimenta, che il suo punto di partenza è un’ipotesi di lavoro che egli va verificando con calcoli statistici che sono desunti dalla sperimentazione. È inutile che io ripeta qui che la ricerca scientifica non porta mai alla risoluzione di un problema, ma piuttosto all’impostazione, magari in modo ottimale, di nuovi problemi. Problemi ben inteso che intervengono sul reale, e come tali anch’essi entrano in rapporto con una «verità». Ma quale verità? La verità dell’uomo e del mondo. Però a questo punto bisogna che lo scienziato sia consapevole che ha mosso il suo primo passo partendo da una propria personale convinzione, forse inconsapevole o addirittura impostagli dall’esterno e che quindi la sua ipotesi di lavoro è una elaborazione fantastica, anche se espressa attraverso il più rigorosamente matematico dei procedimenti. Quale verità si può pretendere allora di trovare? Solo una verità frutto di una fantasia. Esiste, certo, anche la verità della fantasia, che perde ogni validità però se pretende di sovrapporsi al mondo dell’altro. A questo punto, lo scienziato trova rifugio nel criterio dell’utilità della propria ricerca; ma utile a chi? Allo scienziato, per ottenere fama e denaro, oltre che potere? Oppure utile a migliorare la qualità della vita degli altri? In base a quali criteri, se i risultati ottenuti non hanno nulla a che vedere coi valori di una presunta verità? Per giovare al mondo, lo scienziato deve credere che il suo intervento sulla realtà sia una interpretazione del mondo e questa interpretazione egli deve credere che sia quella la vera, se pure solo in senso relativo, comunque più vera di altre. Dove dovrebbe stare allora la coerenza dello scienziato? Spesso egli è strumento di ragioni politiche ed economiche, manovrato da forze che neppure riesce a percepire e di cui rischia di essere l’inconsapevole agente. È allora necessario che egli fondi anche la propria scienza e la propria metodologia su princìpi filosofici ed esistenziali.

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Ho parlato spesso di quel particolare tipo di scienziato che è lo psicoterapeuta ed ho anche ribadito come ogni psicoterapeuta che non voglia essere un brigante debba fondare il suo operato su di una teoria metapsicologica sufficientemente chiara ed organica anche nella scelta dei propri strumenti di intervento. In questo senso lo psicoterapeuta deve essere coerente coi principi ai quali si riferisce. È però, secondo me necessario al terapeuta anche un altro tipo di coerenza: egli deve cioè essere sufficientemente sano da far aderire la propria esistenza agli stessi princìpi su cui basa il proprio concetto di salute, quando interviene clinicamente. Se non è capace di questa minima coerenza, significa che egli stesso è troppo malato per curare gli altri.

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Forse tutti gli esseri umani che si propongono di intervenire nel mondo dovrebbero essere almeno un poco sani, perché senza un minimo di salute non si ha il diritto di inter-agire con gli altri e meglio sarebbe rinunciarvi, ritirandosi magari in solitudine a contemplare le stelle. Non c’è però solitudine che dispensi l’uomo dal dovere di basare il proprio mestiere di vivere su alcuni, sia pur pochissimi, princìpi. Sono passato dal tentativo di definire che cosa si debba intendere per coerenza morale all’affermazione che si deve in qualche modo essere coerenti; sono giunto cioè ad un’affermazione che si basa sul mio senso morale, che pretende la coerenza ad alcuni principi che sento prossimi a quella verità (sia pur povera e nuda) che va postulando la filosofia. Con questa affermazione sembra che io dia il primato assoluto alla ricerca filosofica, ma così non è. Io voglio distinguere le filosofie dei filosofi «per professione» dal filosofare quotidiano di ognuno. Le prime, come ho più volte fatto notare, sono sistemi più o meno organici, simili a quelli teologici, artistici e scientifici, però di essi assai più labili. La filosofia è sempre stata un sistema debole di pensiero, priva di una reale identità, reperibile frammentariamente nelle altre attività di ricerca. Povera e nuda quindi perché partecipa così poco dell’essere che quasi non è, e tantomeno può vantare supremazie di sorta. Il filosofare quotidiano invece dovrebbe permeare la vita e le fantasticherie di tutti, tanto da divenire fondamento, indistinguibile dalla fede religiosa e dall’impegno politico. Questa filosofia non è superiore o inferiore a nient’altro, va ricercata, snidata e poi confusa con l’esistenza, privandola di ogni presunta autonomia. Il fondamento di ogni cosa sta nel mistero e il mistero sta nel fondamento. Dalle riflessioni sull’essere sono giunto a considerazioni sul dover essere. Il dover essere è pieno di confusione: è un imperativo per nulla categorico; ecco perché, in genere gli uomini non sanno scegliere se essere fedeli o infedeli. Tutt’al più sanno che si deve mangiare per vivere, lavorare per mangiare, respirare per non soffocare, defecare per liberarsi dalle scorie. Qualcuno anche ricorda che, una volta ha parlato d’amore ad un altro o ad un’altra, che ha preso a calci, senza ragione, un cane randagio, che ha creduto profondamente in Dio. Sono però ricordi lontani, mentre il vivere quotidiano consiste di gesti stereotipi, inconsapevoli, aridi, anche se resta sempre la speranza che ritorni un desiderio d’amore, una nostalgia. Apparentemente sembra che in tutto questo la coerenza non debba aver nulla a che vedere, che non ci sia problema di fedeltà o infedeltà ai princìpi o ai valori, ma non è così. La musica del Don Giovanni mozartiano è in sé coerente ed è coerente con la disperazione del personaggio: un fluire ininterrotto di note che si coagulano intorno ad una sola… in cui esplode il grido finale!

39 – Gennaio ‘88

venerdì, 1 gennaio 1988

«Sessantotto»

In apertura d’anno si prospetta l’eventualità di celebrare ancora una volta uno storico anniversario, e bisogna dire che ormai questi anniversari e l’esigenza celebrativa paiono scaturire solo più dal semplice gioco della rima: che questa volta finisce in «otto». Però sarebbe bene non confondere la memoria storica con l’abituale ciclo dei ricorsi ventennali cui ci ha costretti negli ultimi tempi il ritmo della moda.

Le passerelle degli stilisti e le pagine dei rotocalchi si impongono e ci impongono di tornare a riflettere sul «come eravamo» più meno ogni vent’anni e ciò ha una sua giustificazione nel bisogno di indurre il consumo e nella contemporanea incapacità di creare il nuovo.

Così il revival viene a risolvere un problema economico complesso che non si limita al frivolo concetto del consumismo ad ogni costo, ma che tocca anche esigenze di produzione e di lavoro.

Meno legittimo sarebbe applicare lo stesso meccanismo quest’anno, poiché, a parte l’assonanza, sarebbe arbitrario fare riferimenti storici e riflessioni su di un’ epoca che non è ben chiaro quando sia iniziata e se sia più o meno finita.

Tutto è così aperto e soprattutto sono aperte le ferite e chi troppo soffre difficilmente è così lucido da saper emettere diagnosi.

Riparare nella stupidità è stato un modo, per tutti, di anestetizzarsi, ma non si può pretendere di uscire dall’anestesia e scrivere di getto la storia perché così vuole la moda: ciò proverebbe solo che stiamo ancora dormendo.

Il prossimo anno la rima sarà in «nove» e dopo centonovantanove anni ci accorgiamo con sgomento di essere ancora perplessi sul giudizio da dare sulla rivoluzione francese.

È poi grottesco pensare che il professor Ernst Nolte, della libera università di Berlino, giocando sull’umano presbitismo può permettersi di ammonirci che «Se Hitler avesse vinto, nell’Europa germanizzata e in buona parte del resto del mondo la storiografia si dedicherebbe a celebrare le gesta del Fúhrer».

Siamo davvero troppo presbiti per leggere nel nostro tempo o siamo troppo miopi per guardarci in faccia? Ad ogni modo perché riaprire i vecchi armadi ogni vent’anni? Si rischia di trovarci solo vestiti smessi.