Archivio di maggio 1987

32 – Maggio ‘87

venerdì, 1 maggio 1987

Il ristorante Lilli in via Tor di Nona, ha quelle caratteristiche nazional-popolari che possono rendere un pubblico locale anche insopportabile, se la gestione, troppo consapevole dei limiti della spettabile clientela, decide di passare sopra agli scrupoli e di ammannire non importa cosa, in nome di un cameratismo complice. Questo non ci pare però che qui avvenga: il locale è passabile, malgrado qualche rabbercio qua e là, l’accoglienza è abbastanza cortese e i ragazzi che servono ai tavoli sono proprio simpatici.
Sul menù sono elencati pochi piatti e il consiglio alle tavolate numerose è di uniformare le ordinazioni per evitare impicci. Nonostante la prima domanda sia il rituale: «Cosa bevono?» la lista dei vini proposti ha qualche impronta personale. Noi oltre a un fresco e leggermente frizzante Verbesco abbiamo voluto provare il bianco e il rosso «della casa»: due vini di Cerveteri, giovani, sapidi e passanti. L’antipasto quella sera era uno solo: lonza con olive su cui non ci fu da dire né da ridire. Tra i primi piatti ci fu possibile provare una pasta e fagioli davvero eccellente, ben legata, coi sapori equilibrati, al giusto punto di cottura; pure i rigatoni al sugo erano ben cotti e dal sapore schietto, senza imbrogli; l’onestà ci è parsa essere il pregio anche dei bucatini alla matriciana e dei successivi piatti: la fornara con patate, lo stufatino con fagioli, le polpettine al sugo, gli involtini con peperoni, la bistecca di manzo,e la vitella con carciofi. Oltre alle fragole, al momento del dessert abbiamo assaggiato una torta di ricotta e una torta di mandorle (crediamo di pasticceria) più che accettabili.
Sembrerebbe poca cosa dire di un ristorante che se ne è apprezzata la schiettezza, ma, nell’inferno gastronomico di questa città, è un’occasione che noi riteniamo davvero apprezzabile, come è apprezzabile un servizio allegro e sorridente, anche se al giovine sfugge di dire «valpollicina» là dove dovrebbe proporre un «valpolicella»!
Onesto, senza neppure eccedere verso il basso,ci è parso anche il conto.

Chi ci legge ci perdonerà questa nostra insistenza sugli ambienti di una Roma che forse qualcuno non ama perché un po’ venduta al turistico folclore, ma che a noi piace perché ha una bellezza che si offre senza pudore e si lascia gustare senza sforzo. Dietro il Quirinale, tra via della Dataria e via del Lavatore, passa il brevissimo vicolo Scanderbeg dove ha aperto da poco i battenti un nuovo ristorante: il 1799 (Lumi e cucina!!!). È questo un posto un po’ bizzarro: annuncia «sfizi di mezzodì e di mezzanotte» però se telefonate vi dicono che il locale chiude alle ventitré e trenta, lasciando perplessi: chi mangia allora gli sfizi di mezzanotte? Noi siamo andati a verificare di persona una sera, dopo l’ennesimo spettacolo, precipitandoci. Ci hanno detto che per il momento la sezione sfiziosa non è ancora organizzata. L’ambiente, quasi tutto sottoterra, è una successione di salette molto piccole dalle volte a crociera, coperte da un pesantissimo stucco rosa antico che le rende quasi inverosimili; anche le tovaglie di preziosa fiandra sui tavoli sono in tinta. La carta dei vini e la lista dei piatti vengono portate subito insieme alla flute di prosecco e alle ciotoline di burro alle erbe ed al salmone da spalmare sulle fette di pane variamente condito.
Nel complesso noi siamo stati abbastanza soddisfatti della correttezza dello chef; ma i gestori di questo locale hanno ancora da imparare alcune cose. Anzitutto la carta dei vini per un posto di queste pretese è un po’ sconclusionata e con alcune cadute di tono ed anche tra i piatti proposti manca una linea omogenea: si oscilla dal rustico e regionale allo pseudofrancese, come se si cercasse di accontentare tutti, anche quei clienti di cattivo gusto, che fumano in piccoli spazi chiusi, appestando i tavoli vicini e provano nostalgia per panna e crèpes. Speriamo che non venga in mente a nessuno di accontentarli.
Il servizio è molto cordiale, non proprio perfetto dal punto di vista professionale e si avvantaggerebbe di una certa razionalizzazione. Per dirla in dettaglio: abbiamo trovato ottimi le zucchine alla scapece e il sauté di cozze, ordinario invece il paté; la insalata di tonnarelli, un primo con merluzzo, pomodoro e profumato basilico è stata una vera piacevole sorpresa; molto ben fatti anche gli ziti alla genovese; la zuppa di ceci e pasta sarebbe stata buona se non fosse stata così salata; la orecchia di elefante era una squisita e tenera costatella di vitello impanata; il bue alla genovese aveva il sugo un po’ lento e nell’entrecote al ginepro c’era troppo sentore di gin; un gioiellino il filetto alla Pierre Alex, dalla salsa profumata e ben tirata, anche ben presentato. I dolci furono senza infamia e senza lode e poco originali. Non ci sono sembrati buoni vini né il Gavi etichetta nera, né il Primitivo di Manduria, mentre abbiamo giudicato quasi scadente il Prosecco di Valdobbiadena Bortolomiol. Il conto ci è parso lievitante con facilità verso i l’alto.
Torneremo per gustare gli sfizi e speriamo che allora qualcosa sarà cambiato in meglio!

Psicoanalisi contro n. 32 – Teoria o pratica?

venerdì, 1 maggio 1987

Ho parlato dell’avarizia e di uno dei suoi capovolgimenti più clamorosi: la prodigalità. Ho parlato degli avari in generale e poi mi sono avventurato nella psiche di quella persona che si sottopone all’analisi ed è avara. Dopo aver parlato di questo particolare tipo di paziente ho trattato il caso del terapeuta avaro ed ho infine accennato alla figura del supervisore avaro, del quale ho però solo fatto intravedere la figura. C’erano indubbiamente anche in gioco le mie personali resistenze: io sono un supervisore e non mi era facile affrontare il problema della mia avarizia. Mi sono però ugualmente sforzato, mi è costato fatica, ma ne ho anche tratto un certo sottile e malsano, masochistico piacere. Tutti abbiamo momenti di avarizia, anche se non sempre questo sentimento – come mi piace chiamarlo – è l’elemento caratterizzante di una personalità. Tutti si sentono in grado di analizzare un momento di avarizia, di riflettere su di un proprio gesto isolato, ma quasi nessuno ha il coraggio di dire di sé: «Io sono un avaro». I sentimenti sgradevoli che possiamo ritrovare dentro di noi sono molti, ma non tutti provocano la stessa sensazione di disagio quando vengono percepiti e riconosciuti. In questi tempi in cui è di moda ostentare spregiudicatezza sessuale, si ammette, almeno a parole, con una certa facilità la propria propensione per le perversioni anche più scandalose e terribili. Molto più a malincuore si accetta invece di riconoscere in sé invidia, gelosia, viltà. Una difficoltà molto grande si trova anche ad ammettere la propria ignoranza. Io stesso, quando sono particolarmente esaltalo per quello che so e per le conoscenze che ho, vengo colto di sorpresa dal sentimento di angoscia per quanto ancora non so e che pure vorrei e dovrei sapere; allora debbo fare un gesto di forza per spezzare il cerchio di quell’opprimente sensazione e se non ci riesco divento preda di una profonda depressione: mi sento irrimediabilmente ignorante e penso che non potrò mai conoscere quanto dovrei. Socrate che fu una delle persone più dolci, geniali e presuntuose della nostra storia culturale, riuscì ad inventare un bel gioco di parole per acquietare il disagio provocato in lui dalla consapevolezza della propria ignoranza: «Io so di non sapere; gli altri non sanno neppure questo. Perciò io sono il più sapiente.». Socrate, però, viveva ad Atene ed aveva discepoli come Platone, Fedro e Fedone. Poteva persino permettersi di resistere alle seduzioni del bell’Alcibiade. Chissà se io avrei avuto la forza di respingerlo. Socrate, inventando quel gioco di parole, si era posto al sicuro: poteva stare tranquillo, era il più sapiente di tutti, poteva disprezzare gli altri. Forse non disprezzava però la bella bocca e le gambe robuste di Alcibiade: ne era soltanto invidioso. Per questo lo aveva respinto. Amico Socrate: anche tu hai conosciuto l’inconsapevolezza; eppure sei stato uno degli uomini più consapevoli e coraggiosi del nostro mondo; quello che meglio di tutti ha saputo parlare d’amore, sotto gli alberi, a capo scoperto, nel canto delle cicale. Il bel Fedro – lui certo non l’hai respinto – ti ha saputo ascoltare. Tu eri al sicuro dietro quel bel gioco di parole che ti rendeva il più sapiente. Persino Socrate dunque, che ha saputo così astutamente affrontare e superare il problema della propria ignoranza, non è stato in grado di guardare in faccia la propria invidia, e tanto meno l’avarizia.

L’avarizia è veramente negata da tutti: nessuno ha il coraggio di dichiararsi costituzionalmente avaro. Del resto, se ci fosse qualcuno così coraggioso da ammetterlo, costui non sarebbe un avaro, perché il coraggio è incompatibile con l’avarizia.

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Io che pure non sono troppo coraggioso, ne – forse – troppo avaro, voglio ora tentare di affrontare il discorso del supervisore avaro. Forse non tutti sanno chi sia e cosa faccia un supervisore, nella pratica terapeutica. È costui la persona con la quale il terapeuta, che gli riconosce una certa autorità, discute il proprio lavoro. Egli con «serenità ed obiettività», richiamandosi ad una metapsicologia comune ad entrambi, gli fa osservazioni che si riferiscono non solo al lavoro clinico, ma anche alla sua personalità, facendogli notare eventuali proiezioni, identificazioni, errori di ritmo o di interpretazione ed altri elementi che potrebbero disturbare il trattamento terapeutico, aiutandolo così a bloccarle e a disinnescarle. Il supervisore è colui che indica una strada per cui far procedere la cura e consiglia il comportamento da tenere, con interventi che possono essere strettamente tecnici oppure che richiamano il terapeuta all’osservanza dei fondamenti metapsicologici. Durante la super-visione sono messe in gioco molte dinamiche: quelle del terapeuta. quelle del paziente ed anche quelle del supervisore, il quale deve perciò avere la capacità di padroneggiare complessivamente la situazione, senza lasciarsi distrarre e senza farsi coinvolgere da sentimenti di simpatia o antipatia personali. La sicurezza della propria esperienza deve permettere al supervisore di chiarire quello che è ancora oscuro, districare pericolosi intrecci; per far questo deve liberarsi dai propri risentimenti e dalle proprie affascinazioni. Deve allora essere «neutrale»? No, non può e non deve essere neutrale. Non può perché ha scelto una metapsicologia che gli deve servire come punto di riferimento nella lettura del reale, che gli serve per interpretare il mondo e la terapia. La sua neutralità può essere quindi solo interna a quella chiave di lettura, che ha scelto non per asettica adesione ad un’idea di verità, ma perché un giorno, chissà quando e dove, si è innamorato di una teoria e di un Maestro.

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Il supervisore non può e non deve avere come sua caratteristica essenziale l’avarizia. Non è possibile essere completamente immuni da questa peste che distrugge l’umanità, eppure il supervisore deve essere capace di sottrarsi al predominio di un simile sentimento. Nel caso non ci riuscisse, sarebbe un pessimo supervisore e farebbe comunque un lavoro pressoché inutile. Nel caso, infatti, che un supervisore fosse vittima della propria avarizia, le sue capacità di intervento sarebbero compromesse dal timore che quelli che si avvicinano a lui per discutere i loro problemi possano imparare troppo, arricchendosi di un sapere che li porterebbe ad emanciparsi. Vivrebbe nella paura che la loro emancipazione possa significare rifiuto e allontanamento. Perso il suo potere, egli si accorgerebbe di aver speso tutti i propri denari nell’insegnamento, per ritrovarsi poi con la borsa vuota. Incapace di far altro che ripetere le stesse formule, come giaculatorie, sarebbe non più un supervisore, ma uno stupido e povero ripetitore. L’avarizia gli ha impedito anche di arricchirsi: impegnato a tenere il calcolo del dare e dell’avere, si è comportato come un piccolo uomo, assolutamente inadeguato al proprio compito, e questa meschinità è tutto quello che ha saputo trasmettere a chi si è rivolto a lui per avere una guida.

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Ho presentato una serie di figure, dando per scontato che tutti ne conoscano ruolo e significato. Il paziente è una figura sufficientemente presente alla mente di ognuno. Chi è un paziente? È colui che soffrendo di un disagio si affida a qualcuno perché lo aiuti a guarire. Gli si pone anzitutto il problema di scegliere un terapeuta. Un terapeuta può manipolare l’essere umano che gli si affida, torturarlo anche e distruggerlo o annientarlo. In questo caso, la terapia non è stata un modo di «prendersi cura», ma ha significato soltanto una violenta espropriazione dell’individuo. Oppure il terapeuta può essere la persona che, insieme con il paziente, affronta la lotta contro il male. La salute è un bene irraggiungibile nella sua pienezza, ma è alla portata di tutti: basta avere il coraggio di rifiutare il male e di lottare per il bene. Il terapeuta deve avere il coraggio, la capacità e la presunzione di scegliere di curare. Deve possedere una tecnica terapeutica e metterla al servizio degli altri. Il supervisore è la figura meno conosciuta ed appare ambigua e strana, anche perché non si capisce mai bene se sia un maestro o semplicemente la persona cui il terapeuta chiede consigli. E una figura importante in ogni tipo di terapia, in quella psicologica e psicoanalitica in modo particolare. Indubbiamente egli partecipa un po’ della immagine del Maestro; però talvolta è soprattutto un tecnico che, semplicemente stando un po’ al di fuori, ha la possibilità di fare osservazioni utili al lavoro del terapeuta che gli sottopone i propri casi clinici, evidenziando errori che il terapeuta da solo non avrebbe saputo vedere. Penso che al lettore più accorto e meno sprovveduto sia venuta alla mente la domanda: «Ma chi supervisiona il supervisore?». È una legittima questione. In questo gioco dei ruoli però si potrebbe andare all’infinito. È vero che anche il supervisore avrebbe bisogno di un supervisore, ma ci sarebbe allora anche bisogno del supervisore del supervisore del supervisore e così via, fermandosi solo davanti a Dio, o magari non fermandosi mai. Io credo sia meglio fermarsi al primo supervisore.

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Ecco quindi le prime tre persone di questa rappresentazione per mezzo della quale si cerca di debellare il «male». La psicoterapia in generale e la psicoanalisi in particolare necessitano di questi tre ruoli, per condurre la lotta contro la malattia che non è un concetto astratto, ma vive nella persona del paziente che soffre. Il rapporto tra i tre deve essere strettissimo. Recitano parti diverse ma che devono integrarsi. Per il paziente il supervisore è per lo più una figura lontana e spesso ignota addirittura. Il supervisore è invece molto vicino al terapeuta, ma non è neppure molto lontano dal paziente. Il terapeuta ha ugualmente prossimi l’uno e l’altro dei suoi compagni di lavoro. Apparentemente la «copula» è il terapeuta, che unisce paziente e supervisore, ma in un altro senso, anche il supervisore viene a collocarsi tra paziente e terapeuta, li paziente stesso, con il quale e per il quale si lavora, è a sua volta termine medio tra terapeuta e supervisore. Non sono quindi le collocazioni fisiche e reali che hanno significato: è importante solo che siano tre persone che lottano insieme per la salute.

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Non bastano però neppure queste tre figure ad esaurire la rappresentazione terapeutica. Ogni terapeuta ha avuto infatti bisogno di un didatta – persona che può coincidere o non coincidere con il supervisore – poiché la psicoanalisi non si può imparare solo sui libri. Il didatta è dunque una figura essenziale allo svolgimento di una terapia. Non ha senso infatti che un terapeuta inizi a curare solo dopo aver studiato e sostenuto esami, e non basta neppure che abbia ricevuto una laurea dallo Stato. La laurea non potrà mai mettere nessuno in grado di esercitare una qualsivoglia professione. Gli esami, anche quando presuppongono uno studio accurato, minuzioso e mnemonico, seriamente e serenamente portato a termine sui testi, non mettono però nessuno in grado di intervenire operativamente sul mondo e nel mondo, tantomeno nel mondo della malattia. Lo studio libresco, i voti, gli esami debbono sempre essere propedeutici ad un tirocinio pratico. L’abilità terapeutica non sì acquisisce però solo frequentando luoghi di cura e raccogliendo firme di presenza; poiché la sola presenza non è sufficiente. Deve essere unita alla trasmissione diretta di una tecnica da parte di qualcuno che, carico di esperienza e di collaudata capacità, prenda per mano il giovane aspirante terapeuta e lo guidi praticamente. Dovrà parlargli dei problemi e delle difficoltà che egli ha a suo tempo trovato, osservarlo mentre muove i primi passi, discutere con lui e aiutarlo a chiarirsi il progetto terapeutico, comunicandogli la sua visione della salute e della malattia.

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Queste quattro persone debbono operare sempre in collaborazione tra loro, impegnate in una lotta comune. La psicologia, e non solo la psicodinamica, è venuta col tempo tratteggiando con sempre maggiore precisione le caratteristiche, i compiti e i limiti dei rispettivi ruoli. Dall’Ottocento ad oggi si sono costituite moltissime scuole di psicoterapia, però quasi tutte contemplano questa «quadruplice alleanza». Qual è però il fondamento su cui costoro basano la loro voglia di guarire e di far guarire? Dove e da chi il supervisore ha appreso la sua arte? Perché il terapeuta ha scelto quel didatta? Cosa ha spinto il paziente a scegliere quel terapeuta?

L’incontro tra paziente e terapeuta può essere stato casuale. Voltaire diceva però che il caso è l’effetto conosciuto di una causa sconosciuta, e le cause possono essere tante. Ho prima fatto cenno all’innamoramento che è la condizione secondo me ideale, ma possono essere state anche cause economiche, politiche, di comodità, di presunzione, di pigrizia e via discorrendo. Gli incontri fra terapeuta, didatta e supervisore sono certo meno casuali, benché innamoramento e caso giuochino un ruolo quasi sempre determinante. Nessuno dei quattro però ha senso se non poggia il proprio intervento su di una teoria che corrisponda ad una visione sufficientemente organica dell’uomo e della salute; ma le teorie non si distendono sui libri, nero su bianco, per generazione spontanea, qualcuno deve averle pensate.

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La parola theoria nella antica lingua greca significa osservazione, indagine; il verbo theoreo può anche voler dire assistere ad una rappresentazione. Gli Elleni usavano questa parola soprattutto per indicare l’atteggiamento contemplativo come dimostra fra l’altro l’uso che ne fa Aristotele nella sua Etica a Nicomaco. Nell’uso comune, ancor oggi, la teoria viene contrapposta alla pratica.
Nella prima si esprime una verità universale, forse desiderata,ma un po’ astrusa, inattuale,astratta.

La pratica invece, con la sua concretezza, esprime ciò che realmente è utile; attraverso di essa si impara davvero a vivere. Sono due concetti opposti soltanto in una precisa accezione: quella che distingue mondo da sopramondo, la concretezza del fare dalla inutile distrazione del sognare.
È vero che molte teorie scientifiche sono «sogni», ma i sogni sono del mondo, ne fanno parte.

Si dice anche che la vera differenza tra l’animale e l’uomo non stia tanto nel fatto che l’animale non abbia un linguaggio capace di esprimere parole articolate e strutturate, quanto nel fatto che l’animale non saprebbe formulare ipotesi teoriche: sarebbe, dunque, prigioniero dei propri istinti, che la pratica può in parte modificare, ma senza la possibilità di formulare un progetto teorico. Per gli animali la vita sarebbe semplicemente la vita, senza che però essi siano in grado neppure di formulare questa tautologia, mentre l’uomo invece costruisce ipotesi, più o meno fantasiose, per mezzo delle quali tenta di spiegare una parte della realtà. Io direi allora che la teoria tenta di raccontare com’è il mondo, quindi non è distinta dalla pratica, ma è un modo come l’altro di agire. Proprio allo stesso modo la pratica, accumulando conoscenze e garantendo comportamenti coerenti, si dirige a sua volta verso la teoria. Ipotesi, teorie e pratica sono le uniche possibilità d’azione per l’uomo.

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La squallida distinzione tra tecnico e scienziato è frutto di una cultura anemica e castrata; lo scienziato non deve solo limitarsi ad inventare teorie che il tecnico dovrà poi tradurre in pratica, in gesti utili al mondo od a parte del mondo; ma deve conoscere gli effetti della sua scienza, deve sapere dove conduce la sua ricerca. Deve, insomma, avere chiara la visione delle conseguenze dell’applicazione delle sue teorie, anche se non ne conosce il dettaglio come lo conosce il tecnico ed è meno esperto nel manovrare gli strumenti. Il tecnico deve a sua volta essere consapevole del fine che trascende il suo gesto immediatamente utilitaristico, deve quindi essere scienziato anch’egli. Questa dominante distinzione tra scienziato e tecnico ha dunque un suo preciso significato; lo scienziato cerca in questo modo di lavarsi le mani dell’effetto che le sue teorie avranno: la scienza è neutrale, le teorie appartengono al sopra-mondo. I tecnici, appoggiandosi ai politici e alle esigenze economiche realizzano e manipolano le teorie scientifiche, trasformandole in interventi nel mondo. Queste sono false pretese: la teoria è infatti anche un gesto pratico, che sorge dallo studio, dalla contemplazione, dalla indagine condotta da qualcuno che ha avuto per primo il coraggio di formulare una ipotesi, di discuterla con altri, senza rinchiudersi in un narcisistico atteggiamento di pigrizia e come tale subisce tutti i vincoli e i condizionamenti e produce tutti gli effetti di ogni altro gesto e la sua neutralità è un’illusione.

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Dietro il paziente, il terapeuta, il supervisore e il didatta c’è, dunque, la teoria, che qualcuno ha formulato e che vive perpetuata nei gesti pratici della cura. Sulla teoria qualcuno ha fondato una scuola. Una scuola è un edificio con pareti, aule e cattedre, ma può costituire una scuola anche l’incontro tra due persone, una delle quali insegna all’altra ad interpretare il mondo in base ad una determinata ipotesi e gli comunica i gesti pratici da compiere per rendere efficace nel mondo quell’interpretazione. Nessuno ha scoperto qualcosa da solo, sempre c’è stato qualcun altro che gli ha insegnato. Chi ha imparato può proseguire il lavoro di colui che, venuto prima di lui, gli ha trasmesso teorie, ipotesi e gesti; può anche ribellarsi ed inventare altre teorie ed altri gesti, in opposizione a quelli appresi, purché, quando agisce, sia sicuro dei gesti che compie e dei principi in base ai quali li compie.

32 – Maggio ‘87

venerdì, 1 maggio 1987

Politica

Forse, in giornate pre-elettorali, chi legge questa rivita sarà tentato di porsi e di riproporre l’insidiosa questione: «Di quale parte politica vuol fare il gioco Psicoanalisi Contro?».
La dichiarazione di indipendenza è una formula rituale di quasi tutte le testate, siano, oppure no, legate a quello od a questo schieramento politico. In molti casi, quando non si scada nella più sfacciata menzogna, tale affermazione copre un qualunquismo opportunista, che mira ad aumentare il numero delle copie vendute.
Per Psicoanalisi Contro il tentativo di dare una risposta ad una domanda del genere oscilla tra il tragico ed il provocatorio. Le storie personali e professionali, individuali e collettive che stanno alle spalle di chi scrive su queste pagine e lotta giorno per giorno contro un male che è meno oscuro di quanto si pensi, sono tutt’altro che semplici e variamente traumatizzate dall’esperienza politica. Forse 1′elemento che tutte le accomuna è un brusco risveglio dai sogni dell’utopia politica. Non dal «Sogno dell’Utopia» che, grazie al cielo, ciascuno per sè e tutti insieme continuiamo a sognare.
Il sogno è una parte della realtà, ma non basta ad esaurire la necessità dell’impegno in questa quotidiana partecipazione alla vita. Per questo, dolenti di contraddire gli sbrigativi teorici del riflusso, diciamo subito e molto chiaramente che la guarigione dai mali dell’utopia e della cattiva coscienza politica è stato per noi il primo passo verso un sostanziale impegno politico. La nostra è una battaglia politica, in rapporto dialettico costante con quelli – partiti e non – che determinano l’andamento della vicenda nazionale (che quella internazionale è cosa grande e disgraziatamente poco controllabile). La nostra è una piccola, anzi piccolissima, proposta politica, che, proprio perché è consapevole dei propri limiti, rifiuta di identificarsi e di confondersi con qualunque altra. Non auspichiamo un futuro Bananas-Contro», ma ribadiamo il nostro proposito e il nostro dovere di vigilanza, di piccola coscienza critica. Finora quello che è stato il quadro politico ci è andato, più o meno, abbastanza male, perciò faremo la nostra parte per orientare in senso migliore il quadro futuro. La rivoluzione per noi è qui ed ora: siamo Contro anche la banalità della propaganda politica, ma non intendiamo sottrarci a nessuno degli aspetti della vita collettiva, tanto più responsabili e vigili, quanto più siamo attaccati al nostro «Grande Sogno».