Archivio di marzo 1987

Psicoanalisi contro n. 30 – Un amico non avaro

domenica, 1 marzo 1987

Ho già parlato a lungo dell’avarizia, sentimento profondo, radicato nelle viscere di ognuno, che determina un comportamento chiaramente riconoscibile, però difficilmente definibile. L’avarizia si annida ovunque, ma, soprattutto, è una astuta trasformista; tenta di presentarsi sempre come se fosse qualcos’altro: equilibrio, parsimonia, giustizia. Spesso gli avari si giustificano dicendo : «Sono povero». Invece è forse più facile vedere l’avarizia in un «povero» che in un ricco; perché chi non ha molto è costretto a rendere più evidenti i propri calcoli. Questi avari rivelano la loro avarizia proprio con l’elaborata amministrazione dei pochi beni che posseggono, con lo sforzo di dare poco nel tentativo di ricevere qualcosina di più. Piccoli furti di oggetti e di amore. L’avarizia è terribile quando coinvolge i rapporti affettivi: i baci, le carezze, i sorrisi e la disponibilità. L’avaro vuole che gli si rendano due baci per ognuno che da, una carezza e mezza in più; disponibile sì, ma a patto di capitalizzare la disponibilità, per poterne reclamare poco dopo anche gli interessi. La nostra cultura ha sempre contrapposto all’avaro il prodigo: colui che sperpera senza pensare alle conseguenze che i suoi gesti potranno avere. Non voglio, qui, avventurarmi in una disquisizione etica vecchia anche più di Aristotele, per concludere che la perfezione sta nel «generoso», che sarebbe colui che dà per il piacere di dare, senza pretendere in cambio; che però, allo stesso tempo, non sperpera: sa anche fare i calcoli, realizzando un principio di vera giustizia.

2.
Ora voglio parlare del prodigo: colui che spreca e apparentemente non fa calcoli. Potrei scegliere due strade: o ritenere avarizia e prodigalità due atteggiamenti psichici, morali ed esistenziali opposti, o ritenerli due aspetti di uno stesso carattere. Avarizia e prodigalità sono due degenerazioni dell’atteggiamento sano, erotico e vitale; ma le due scelte, nella loro opposizione, sono così simili da sembrarmi identiche. Ambedue tendono a parodiare la morte. Il prodigo dà e si dà, senza pensare e senza chiedere in cambio; senza risparmiare ciò che ha e di cui si sente ricco: è uno che disperde la propria vita. Il prodigo ha spesso profonde fantasie suicide, di quello che è l’autentico suicidio, che porta alle soglie del nulla, nell’illusione di poter così ricominciare un’altra vita, più gratificante. L’essere ha valore per quello che ha, il puro e semplice essere non esiste. Essere è una parola vuota e l’ontologia, di fatto, come scienza dell’essere, non è mai esistita, perché è sempre scienza di questo essere che ha queste caratteristiche. L’essere consiste nell’avere ciò per cui esiste. Per questo, essere e nulla sono stati anticamente contrapposti, perché simili, talmente vuoti da non essere neppure involucri. Chi ha esiste e chi esiste ha; non si può esistere senza avere, per cui, chi esiste ha ciò per cui esiste. Offrirsi vuol dire dare ciò che si ha, che non è mai soltanto la pura esistenza; è sempre questa esistenza, caratterizzata da ciò che l’esistente ha con sé: il colore dei capelli, la consistenza delle labbra, il denaro che si ha in tasca, i ricordi, che sono quelli e non altri, gli odi e gli amori, una bottiglia di vino tenuta in serbo, un diario nascosto perché tutti abbiano voglia di cercarlo e di leggerlo, questi genitali e questo modo di sorridere o piangere. Si può disperdere tutto ciò, consumandolo nel darlo troppo; anche i sorrisi si consumano, come gli affetti e le parole d’amore. Vi sono prodighi che disperdono ciò che hanno conservato con molta cura soltanto per il piacere di strapparselo di dosso, di sentirsi svuotare, come il bambino che si compiace del proprio ventre gonfio che si svuota dalle feci. Altri prodighi dimenticano ciò che hanno, non ne sono consapevoli e allora lo sprecano; ma dietro a quest’ansia di dare si nasconde, sempre, un grande desiderio di avere più di quanto si è dato: di avere un potere sugli altri, per farne sudditi riconoscenti; non importa che non sia una riconoscenza che nasce dall’amore: l’importante, per questi prodighi, è la sensazione di potere, anzi, di onnipotenza, parodia della divinità, miserabile, perché troppo inadeguata e grottesca. Colui che dà a piene mani tutto ciò che possiede, anche quando possiede tantissimo, è sempre un miserabile: un dio straccione. Eppure i prodighi ricercano un potere che non ammette repliche, che permetta loro di dire, pericolosamente ed insidiosamente: «Io, che sono così totalmente disponibile verso gli altri…». Quanta rabbia, odio, furia c’è, spesso, dietro questa affermazione. È umiliante fare un dono ad un prodigo: si offre qualcosa con tenerezza, amore, o magari con sentimenti anche meno nobili, e si legge sulla faccia di chi lo riceve un sorriso stereotipo, si ottiene un grazie stentato, oppure esageratamente garrulo; ma, negli occhi, c’è diffidenza e disapprovazione e, subito dopo, si viene umiliati da un dono inaspettato, vistosamente più ricco, con cui il prodigo ricambia e cancella il significato di ciò che ha ricevuto. Il prodigo è terribile per questa sua incapacità di dire semplicemente grazie.

3.
I prodighi si sentono aggrediti dalla generosità altrui, vogliono negare che gli altri possano entrare nel loro dominio, offrendo. Non ho, con ciò intenzione di dire che non si debba mai ricambiare un dono ricevuto, anzi: è bello ricambiare, perché è bella la riconoscenza; ma un prodigo non sarà mai riconoscente, e, più che della riconoscenza, gli importerà dello stupore altrui, che sancisce il suo trionfo. Il prodigo, in realtà, attraversando le proprie fantasie di onnipotenza, sa che il fine cui tende è la distruzione assoluta, sa di voler giungere al momento in cui non avrà più niente, sarà morto, per aver disperso tutto anche i sentimenti e l’amore ricevuti. In genere, non succede che il prodigo arrivi a morire: il bisogno di autoconservazione lo porta a serbare per sé qualche piccola cosa; ma la sua fantasia resta quella della morte, spaventosa e terribile: come la morte di chi ha fallito l’obiettivo di diventare Dio. Questo è l’atteggiamento reattivo all’avarizia. Anche l’avarizia mima la morte, tentando di non consumare nulla della vita, soltanto limitandosi a rubare, con circospezione, qualcosa che permetta di prolungare l’illusione di vivere. Quella dell’avaro e quella del prodigo sono due vie, ugualmente malate, che portano verso l’autodistruzione; a mio parere sono giustapponibili e io vedo nell’avarizia il movente profondo della prodigalità. C’è sempre un tendere alla morte: nei meschini ed oscuri intrighi dell’avaro, come nel gesto isolato e magniloquente del prodigo, che ha fatto i suoi conti una volta per tutte. Un vecchio proverbio, un po’ rozzo e volgare, dice: «È meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora». Non tiene però conto che il giorno da leone, generalmente, è stato vissuto da una pecora illusa di essere per poco, un leone.

4.
Ho posto l’atteggiamento del prodigo come elaborazione successiva della scelta dell’avarizia. Il gesto di chi disperde e butta sarebbe, secondo me, una formazione reattiva al bisogno di tenere per sé, di non disperdere, al timore di essere invasi ed espropriati. Riconosco di non essere certo della legittimità di questa gerarchizzazione; ma, nonostante tutto, mi sembra che l’avarizia sorga un istante prima della prodigalità e che questa non sia che un aspetto di quella. L’essere umano esiste non perché è ma perché ha e sente di avere. Il desiderio porta l’uomo verso l’altro, con un primo impulso, eroticamente generoso. Il mondo esterno, spesso, frustra questo desiderio e questo dono originario, negandoli e tentando di espropriare il donatore della sua offerta. La prima reazione è quella di non dare più e di mettersi dalla parte di chi espropria. Nell’avaro, il desiderio dell’espropriazione è intenso e si attua con modalità sottili e tenaci. Mi sembra che nell’avaro siano presenti le due tendenze: quella di difendersi dall’espropriazione e quella di appropriarsi di ciò che gli altri hanno rifiutato. Ci può essere, però, l’altra reazione dalla quale sorge la prodigalità: è quella di scaraventare tutto addosso a chi ci ha negato. La prodigalità, quando è molto intensa, manifesta la propria natura di avidità. Coloro che danno carezze baci, parole, denaro, che mettono a disposizione la loro casa, i loro averi, il loro corpo stesso, permettendone anche l’abuso e la distruzione, spesso poi, pentiti di aver dato tanto, si scagliano con rabbia su quelli cui hanno dato: sono violenti nel sesso e nelle ebbrezze. È interessante osservarne i minimi gesti: hanno offerto il vino ed esigono che lo si consumi subito, bevendone loro stessi sino a stramazzare inebetiti al suolo, perché se ne sono voluti riappropriare. La prodigalità non è quindi che un modo diverso di proporre l’avarizia; la violenza che, nell’avaro, si esprime con sommessa tenacia, nel prodigo è bizzarro esibizionismo, nello stesso intento di realizzare la morte, che non dà e non riceve.

5.
Ho già detto altrove come l’avaro, pur guardingo e parsimonioso, si lanci anch’esso in gesti di appariscente, vistosa prodigalità. Colui che è definito prodigo non è altro che un avaro il quale più frequentemente si compiace di questi momenti di esaltazione maniacale. Il prodigo – non il generoso – è quindi colui che manifesta una reattività più costante nei confronti della propria avarizia che lo porterebbe invece a rattrappirsi in una grigia banalità. Il prodigo è molto simile al dittatore: ha bisogno di grandi gesti dimostrativi; distribuisce il pane e organizza splendidi giochi, ma fa morire il popolo di fame. Sono sempre più convinto che il prodigo, in senso stretto, non esista. O meglio, la prodigalità è una forma esteriorizzata ed esasperata di avarizia, che permette all’avaro di non sentirsi tale e lo illude di poter sfuggire al terrore della morte. La prodigalità conferma all’avaro il fatto di esistere, perché è prova di un potere sugli altri, che hanno meno di lui. Quante volte il prodigo non vede l’ora di disfarsi, con la sua prodigalità, della ricchezza per ritornare tanto povero da poter essere ancora un piccolo avaro, che ruba tranquillamente, convinto di essere nel giusto! Chi sperpera è destinato alla solitudine, ma è anche affascinato da essa, spreca il proprio affetto, per consumarlo più in fretta; divora anche l’amore altrui, per poi rimanere senza nulla, privato della stessa possibilità di amare. Passa lunghi periodi a commiserarsi per la solitudine cui è costretto, accusa gli altri di ingratitudine, lamentando di aver dato tutto, senza aver ricevuto nulla in cambio. Proprio quel nulla, però, egli desiderava si realizzasse, perché la presenza di qualcosa o di qualcuno a offrirgli affetto, lo avrebbe costretto a dare ancora. Meglio limitarsi perciò a rapporti con nullità pari alla sua. Sembra strano che un avaro si trovi bene con un altro avaro, eppure, per lo più, è così: la generosità di un amico o di un amante terrorizza l’avaro, come terrorizza quella specie di avaro travestito da prodigo. L’avaro teme la grandezza degli altri intorno a lui, soprattutto teme che il suo lavoro e la sua dedizione – ammesso che sia in grado di offrirne – possano contribuire alla affermazione, al successo, al prestigio dell’altro. Se l’altro arriva troppo lontano da dove lui si è fermato, economicamente o spiritualmente, l’avaro teme di non saper più rubare, perché quell’uva è troppo in alto e nemmeno lo appaga più dirsi che potrebbe essere ancora acerba.

6.
All’inizio di questi miei discorsi, avevo ingenuamente immaginato che l’avaro tipico fosse essenzialmente sadomasochista, perché, attento a cogliere la realtà, prova un sottile piacere nella sofferenza di coloro che espropria; godendo anche, masochisticamente, delle privazioni che impone a se stesso. L’avaro-prodigo, invece, mi pareva piuttosto un narcisista, tutto lanciato nell’esibizione del proprio sperperare e sperperarsi, avvolto in una nebbia capace di nascondere gli altri, creata proprio per offuscare la visione del mondo circostante. Uno che dà come si darebbe una gragnuola di pugni: che spaventa, intimidisce, allontana ogni possibilità di relazione, di rapporto disteso con il mondo. Con un’osservazione più attenta, mi sono accorto poi che entrambi questi tipi di avaro uniscono un aspetto sadomasochistico a un aspetto narcisistico. A dire la verità mi avrebbe fatto piacere trovare valida la prima ipotesi, perché mi sembrava più armonica, con la sua bella simmetria. Ma, stranamente, una volta tanto, i fatti mi hanno preso la mano, guidando il mio pensiero verso altre conclusioni. Scrivo ciò che ho pensato dopo aver osservato. Spero di non stare perciò diventando uno di quegli scienziati imbecilli che credono nell’oggettività assoluta. Questa volta, però, ho dovuto accettare questa specie di condizionamento della realtà che mi sta intorno e che sento anche dentro di me. L’avaro «puro» può infatti avere verso il mondo, verso gli altri e anche verso se stesso, sia un atteggiamento sadomasochistico, sia un atteggiamento narcisistico. È sadomasochista quando assapora le sofferenze che impone a sé e agli altri, soppesandole, valutandole, rendendole preziose. Gli sorge, avido e prepotente, un desiderio intenso ed ecco che egli riesce a frenarlo e lo centellina: si raziona l’amore, lesina i baci, concedendosi solo gocce di vita.
È narcisista invece quando si ritrae il più possibile dal rapporto con l’altro, quando parla torrenzialmente, ma le sue sono vuote parole, rivolte a se stesso che hanno, forse, un senso soltanto per lui e non c’è quindi rischio che vadano sprecate. Gli avari narcisisti sono come alcuni animali che vomitano e subito dopo ingoiano ciò che hanno appena vomitato.

7.
Anche gli avari prodighi possono essere sia sadomasochisti sia narcisisti. L’avaro-prodigo, dissipatore all’apparenza, quando è sadomasochista, si abbandona a questo suo dissanguamento, con mortifera e autodistruttiva voluttà: gode nel sentirsi espropriare e il suo godimento è intenso; non dà per amore, ma dà per soffrire e, ancor più, per far soffrire. In effetti è astuto: sa esattamente ciò che gli altri non vogliono da lui e lo distribuisce a piene mani; in cambio chiede ciò che non gli si vuole dare, in un meccanismo di dare ed avere che non può soddisfare nessuno, se non il sadomasochista che trionfa di tutto ciò. Ha perso molto di quello che possedeva, ma ha acquistato una sottile e malata sofferenza, che lo spingerà sempre più indietro, fino al punto in cui ritroverà il suo narcisismo. Un narcisismo che lo farà esplodere ancora in un delirio che non tiene conto di nessun altro, che lo spinge a fantasie di darsi e di ricevere, senza più contatto con la realtà, in un eterno ritorno all’annientamento, felice di credere di provare sentimenti che non prova e vivere una vita che non vive. Per l’avaro-prodigo travolto dal narcisismo il mondo non è mai soltanto oltre, è realmente altrove.

8.
Tanto l’avaro quanto l’avaro-prodigo hanno una memoria esercitatissima, ricordano ciò che hanno dato anche dopo molto tempo, però, con una leggera, impercettibile deformazione, per la quale tutto ciò che sarebbe a loro sfavore viene lentamente scordato, lasciando il posto a ricordi soltanto favorevoli. Non si tratta di ricostruzioni del passato allucinatoriamente alterate, ma di ricordi precisi di ciò che rimane, mancanti però di grosse fette. Ricordano con precisione ciò che hanno avuto, ma non ricordano i patti che stabilivano quanto avrebbero dovuto dare in cambio e la loro è una reale dimenticanza. Perciò esigono e si sentono nel giusto, senza rendersi conto di aver deformato i patti, perché non ricordare è deformare. Un’altra loro caratteristica è l’incapacità di confrontarsi con gli altri, perché il confronto potrebbe sfociare in una lotta. La lotta può concludersi anche con la sconfitta e questo non è per loro tollerabile. Sono destinati a un futuro di avarizia o di prodigalità quei bambini che, nel gioco, non son capaci di perdere. Ogni uomo desidera vincere; uomini e donne si rattristano della sconfitta e nei bambini questo è manifestato in un modo forse più esplicito; ma qualche bambino, sin dai primissimi anni, patologicamente, non tollera di perdere mai. Spesso vivono con adulti cretini e compiacenti, che concedono loro di vincere sempre, preparandoli così, insieme ad altre circostanze della vita, ad un futuro di persone del tutto inadatte al rapporto con il mondo, schiacciate dalla timidezza e dalla viltà. Timidi per la paura di esporsi, vili perché preferiranno non lottare mai pur di non rischiare la sconfitta. Decisi a barare sempre per rubare la vittoria che non sanno ottenere.

9.
Che tipi di pazienti psicoanalitici possono essere l’avaro e l’avaro-prodigo? Ciascuno di noi ha momenti di avarizia profonda alternati a momenti di reazione all’avarizia, di inconsulta prodigalità, lontanissima dalla generosità. Vediamo prima l’avaro allo stato puro, lontano dalle formazioni reattive che si costituiscono nel fenomeno della prodigalità. Anzitutto, l’avaro si presenterà all’analista in modo estremamente circospetto, gli porrà alcune domande: «Quanto dura l’analisi? Ma l’analisi serve davvero? Non c’è il pericolo della dipendenza dall’analista?» e, infine, prima o poi, dichiarerà la sua sfiducia nell’analisi che comunque intende provare per verificare di persona, per guadagnarci in esperienza. Queste sono preoccupazioni più che legittime, comprensibili in qualunque essere umano, sia o no avaro (ammesso che ci sia qualcuno che avaro non è). Ma quando queste domande sono particolarmente insistite ed il paziente rimane lì, titubante, quasi in bilico sulla sedia o sul divano, con un piede che tocca terra, pronto a fuggire, ecco che la natura dell’avaro si manifesta: «Sappi che io ti pago e pretendo che tu mi dia per quanto ti pago». Anche questo è giusto «Sappi che io potrei anche innamorarmi di te – un avaro non riuscirà mai ad innamorarsi davvero, crederà solo di innamorarsi – e se tu non ti innamorassi?» Io lo vedo lì, seduto di fronte a me con le sue monete; molto teatralmente lo immagino nei panni di Shylock o di Monsieur Grandet, intento a contare, mentre alle sue spalle il sole scende. Venezia carica di azzurro, di oro, di verde, affollata da persone che sorridono e piangono, odiano e amano; l’acqua sudicia è stranamente profumata, invece di puzzare come dovrebbe. Ma di questo a Shylock non importa. La campagna francese, irta di campanili gotici, ossessivamente tutti uguali con la stessa chiesa, gli stessi canti, non esiste per Grandet.
I due contano i loro averi ed io, psicoanalista, sono lì seduto, avaro, talvolta, anch’io, avaro non sempre, mortificato di esserlo tuttavia. Guardo quelle mani adunche: chissà perché gli avari hanno mani sempre adunche? Forse non è vero, le loro mani sono, a volte, rosee con le unghie ben curate, essi possono anche avere occhi azzurri e capelli biondi. Può un avaro essere anche bello? Io dichiaro solennemente che gli avari sono sempre brutti, perché non sanno riflettere i colori di Venezia, ne le svelte forme del gotico francese. Chiusi in sé stessi e nel loro continuo gesto contabile, Shylock e Grandet, pur addolorati e disperati, non hanno altro pensiero che quello di essere sicuri che l’investimento nella cura sarà redditizio. «Che cosa mi dai in cambio del mio danaro?» Io normalmente taccio e immagino Venezia: i ponti, il vino bianco che spumeggia con un po’ di succo rosa di pesca, in un’antica bevanda. O penso alla casa consunta di Grandet, cui persino il sole teme di accostarsi. Loro mi guardano, mi scrutano: «Io ti dò tanto, tu cosa mi dai in cambio?» Io, molto ingenuamente, posso solo rispondere : «Ti dò me stesso, con la mia storia, i miei studi, la mia preparazione, la mia tecnica.». Loro, avidi, vogliono di più: «Non mi basta, che cosa mi dai ancora?». Riconosco che hanno ragione e dico: «Ti dò quello che sarò capace di darti.». Loro insistono: «Cosa sarai capace di dare, ancora?». Io: «Tutto quello che ho».

10.
L’avaro-prodigo invece entra nello studio dello psicoanalista con irruenza, finge di essere rilassato, ma non lo è: gli occhi sono cattivi e guardinghi, la bocca è aperta in un sorriso di falsa disponibilità. Non chiede neppure il prezzo delle sedute, se ne informerà in seguito, indirettamente, con circospezione. Comincia a parlare subito, moltissimo, sempre con quel sorriso di finta disponibilità irrigidito sulla faccia. Improvvisamente si mette a piangere, disperato. È rabbioso per il potere che percepisce nell’analista, ma non lo dichiara: i suoi sogni lo tradiranno. Dice; «Sono pronto a darti tutto. Ho assoluta fiducia in te. Certo, l’analisi mi spaventa, ma, con la tua guida andrò dovunque».
Subito dopo, con altre parole, si smentisce, interpretando tutto, incapace di abbandonarsi: è la parodia di un paziente. Per lui l’analisi è una lotta in cui non deve perdere, quando invece perdere sarebbe la sua sola possibilità di guarire. Il suo modo di intendere la lotta lo porta sempre altrove, in continua fuga, solo in apparenza presente. Mentre lo ascolto, alle sue spalle fiorisce un’immagine: la calma primavera russa che assiste, con malinconia, alla rovina di una famiglia che, con avida prodigalità, si avvia alla distruzione, in una cornice di fiori bianchi nel giardino dei ciliegi. Il mio studio, nel centro della Città Eterna, è una stanza circondata da colonne, sul mio tavolo antico, accarezzato da chissà quante mani, c’è un piccolo fallo di bronzo, del Settecento. A volte, accarezzo quell’oggetto mentre lavoro. Sento ripetere la domanda: «Ma cosa mi dai tu? Io devo fare i miei conti». Avrei voglia di rispondere: «Ti offro la speranza di non essere più avaro, ma tu mi dovrai dare la capacità di amarti e di lavorare con te, altrimenti, riprenditi pure le tue monete e vattene, perché io sono troppo debole, sono soltanto capace di accarezzare questo piccolo fallo di bronzo, che un giorno, mi portò in dono da una mostra di antiquariato di Genova, un amico non avaro».

30 – Marzo ‘87

domenica, 1 marzo 1987

E’ la prima volta che i due Farfalloni parlano della cucina di quello che fu il celeste Impero, abbiamo fatto passare tanto tempo prima di parlarne perché, sebbene da decenni la gustiamo ed apprezziamo, abbiamo voluto, per un paio d’anni, dedicarle attenzione, studiarla e praticare questo modo di cucinare carni, pesci e ortaggi. Noi siamo certamente ancora novizi sullo specifico della cucina cinese, ma ora almeno ci sentiamo in grado di azzardare qualche giudizio. Una delle prima cose che pensiamo di avere capito è che il pasto cinese non è per nulla «orizzontale», nel senso per cui comunemente si crede che le portate si succedano senza ordine e priorità. Sebbene non segua lo schema di un menù europeo il pranzo cinese è costruito con precisa e armonica architettura, così che si passa, attraverso gradi intermedi, dai sapori più delicati a quelli più forti e piccanti, per concludere con una profumata e calda zuppa. È orribile vedere persone che su delicatissimi ravioli al vapore fanno colare fiumi di salsa d’olio piccante al peperoncino rosso messa in tavola perché accompagni i piatti successivi. Inoltre è obbrobrioso bere il té durante il pasto, poiché questa bevanda amarognola, astringente e profumata si accoppia malissimo col sapore dell’olio, soprattutto fritto, con cui snnn trattati molti piatti. Dice il Poeta Li Po:
«La ben cucinata agnella, le carni del bue
ci danno piacere,
ma vogliono anche trecento bicchieri,
in un fiato.
Tu, maestro Ts’en,
e tu, discepolo Tan-ch’iu,
prendi il vino,
non resti inerte la coppa!» (Li Po, Bevendo il vino «Trecento poesie T’ang», Einaudi, 1961)
La vite in Cina è arrivata dall’Iran verso il terzo secolo dopo Cristo, ma l’arte della vinificazione fu acquisita solo nel settimo secolo, e i vini d’uva cinesi non sono molto pregiati, però ciò nonostante a tavola si beve vino, anche se in genere si preferisce lo Shao Shing, prodotto dalla fermentazione di riso, miglio e riso glutinoso, un liquore giallo che arriva ai 18 gradi circa e viene servito prefiribilmente tiepido. Certo, la Cina è vastissima, le differenze tra le regioni sono molte, anche a tavola; però quasi sempre si beve vino o liquore durante i pasti, riservando il tè all’inizio, prima del pasto, o alla fine dopo pranzo. In Europa i ristoratori cinesi avrebbero a disposizione una gamma vasta di meravigliosi vini e potrebbero persino tentare quel «mariage» tra cibo e bevande che in Cina non è praticato; ma il malcostume degli avventori che si sdilinquiscono nell’orrido accostamento coi té al gelsomino e la pigrizia o l’inesperienza degli osti fanno sì che generalmente si trovino disponibili da noi solo i vini più scadenti e banali tra quelli in commercio, tanto che bere bene è difficile, anche dove si mangia bene. Tra i ristoranti cinesi di Roma uno dei più noti è La Giada, quasi in piazza Venezia. Noi ci siamo stati più volte nel corso degli anni e lo abbiamo sempre trovato orribile. Quest’anno, dopo aver notato il crescente prestigio che il posto ha assunto, abbiamo voluto verificare di persona. Abbiamo prenotato in anticipo, versando una «caparra» per poter avere l’opportunità di gustare al meglio la famosa anatra laccata di Pechino, e nel giorno prefissato ci siamo seduti di nuovo a uno dei tavoli di quelle vaste sale un po’ pretenziose e rumoregg;anti per l’affollamento del sabato sera. Abbiamo vissuto una delle nostre peggiori esperienze gastronomiche e non abbiamo parole per esprimere la nostra indignazione! Indubbiamente un démone malvagio deve essersi impossessato dello chef, perché piatti così ributtanti e dissennati è proprio difficile metterli insieme. Abbiamo aperto la cena con un piccolo scherzetto, non sgradevole, composto di alghe e vermicelli fritti con pinoli, avvolti in una fresca foglia di lattuga, ma poi i pesanti e unti ravioli fritti, i durissimi involtini primavera, le acide e insapori verdure agro piccanti e il disgustoso e maleodorante latte fritto ci hanno preparato al peggio; che infatti è venuto:una pasta di riso cinese, sabbiosa al palato, condita con una quantità spropositata di bruciante zenzero e cipolla semicruda, un orrendo riso fritto, grasso e dal gusto rancido e dei banali capellini alla cinese. L’anatra laccata è stata una vera beffa: ciascuno di noi si è visto porgere un brandello di carne viscida, quasi lessa, posata su di una crèpe rigida come pergamena, insieme a tronchi di erba cipollina grandi come bao-bab. Gli spiedini di gamberetti, ci hanno fatto temere per il pungente odore di varechina; la zuppa di brodo d’anatra era allo stesso tempo untuosa e slavata. Miserabili e minuscoli pezzetti di frutta caramellata costituivano il dessert. È inutile aggiungere che i vini erano tra i peggiori reperibili; noi ci siamo condannati a bere un Soave Bertani, acidissimo; un insapore Pinot Grigio di Vaja e uno spaventoso Rosé Rivera. Non possiamo però tacere dell’insostenibile lentezza del servizio, dell’imposizione di un menù da noi non concordato, l’avarizia nel comporre le portate, la mancanza di un uscio che separasse la sala dal vano dei gabinetti e i miagolii beffardi della minuscola cinesina che, con aria da maitresse ha avuto il coraggio di importunarci per tutta la sera, decantando la cucina e domandandoci ad ogni pie’ sospinto se fossimo o no soddisfatti: noi fantasticavamo, ascoltandola, delle meravigliose torture di cui i suoi avi erano ritenuti grandi esperti con le quali avremmo desiderato contraccambiarla. C’è parso poi discutibile – in tempi di universale profilassi – il gesto proditorio con cui ci sono stati gettati in mano bollenti pannicelli di umida spugna, supposti idonei alla funzione di detergere, dopo il pranzo. «Anche sul prezzo c’è poi da ridire…» recitava una ballata assai nota ai nostri tempi; e la signora Lee Wah Lai non ci è andata leggera!

Altra esperienza è stata quella del King’s hall, quasi in piazza S. Callisto, alla fine di via S.Francesco a Ripa, in Trastevere, locale ricco di eccessiva e debordante cineseria nell’arredamento, con un servizio simpatico anche se forse, strano a dirsi, un po’ troppo incalzante. Nel complesso abbiamo mangiato bene e qualche preparazione era addirittura eccellente, come lo splendido nido di patate con pollo, gustoso, croccante e morbido o i ravioli al vapore, con la loro delicatissima pasta e il raffinato ripieno; ancora: il maiale agro piccante, saporitissimo e ben equilibrato. Anche gli altri piatti erano a buon livello: involtini primavera, polpettine di gamberi fritte, manzo piccanti e croccante, insalata di pollo, pollo fritto, vermicelli di soja. Una grande e inspiegabile caduta di tono si è avuta con il riso fritto alla cantonese, davvero sbagliato e povero! Tra i dolci, ci è piaciuto il dolcetto di fagioli rossi e molto meno il budino di mais e cocco. Con i vini, il discorso di sempre. Il prezzo, più che onesto, ci ha confermato nella buona opinione.

Il ristorante cinese del Centro Internazionale, di via De Pretis, quasi all’angolo con via Nazionale, è costituito da una sala grande e piena di chiasso, arredata con le cineserie di prammatica ed ha, persino accentuato, l’inconveniente di moltissimi ristoranti cinesi: quello cioè di un servizio che risulta poco efficace perché la comunicazione con il personale di sala è quasi impossibile. Noi abbiamo questa volta dovuto limitarci ad indicare i numeri segnati accanti ai piatti della lista. In questo modo ci è stato servito prima un antipasto misto di non grande varietà né originalità; sono seguiti crostini con gamberi fritti, un po’ troppo unti e alquanto pesanti e poi alcuni gamberoni in piatto caldo di poco sapore, una seppia piccante sovrastata da un sapore eccessivo di arachidi e accompagnata da verdure mal cotte. L’anatra in salsa cinese era scialba, con un gusto appena un po’ amaro e basta, mentre il maiale con i funghi neri era immerso in una brodaglia scostante. Noi consideriamo il riso fritto una specie di banco di prova per i ristoranti cinesi, infatti, benché sia generalmente diffuso, è molto di rado preparato con cura, e anche questa volta non valeva niente: molliccio ed unto, con pochi ingredienti a dargli sapore, come tutto il resto tradiva il fatto di essere stato cucinato affrettatamente e lasciato poi ad aspettare. Come era prevedibile, la scelta dei vini si limitava a pochissimo e noi abbiamo bevuto un Soave e un Pinot. Il pasto si è concluso con la frutta caramellata, troppo dura per riuscire gradevole, e la solita grappa cinese. Il conto che ci è stato presentato, di per sé non elevato, ci è parso eccessivo per il livello del locale.

30 – Marzo ‘87

domenica, 1 marzo 1987

Pubblica opinione

I1 gioco delle parti, su cui si reggono le società pseudo-democratiche, è da molto tempo generalmente adottato proprio perché garantisce la perpetuazione dei sistemi: rivoluzioni e riforme, liberalizzazioni e democratizzazioni, nazionalizzazioni e privatizzazioni sono termini di dialettiche solo apparenti, nello sforzo di far sì che la sintesi riporti al punto di partenza. Fortunatamente, però, la sintesi non riporta mai allo stesso punto da cui si parte, soprattutto perché, ad ogni passaggio, si realizza una piccola sconfitta dell’ignoranza. Per scongiurare questi pericoli gli opposti qualunquismi sono concordi nell’affermare i diritti della pseudocultura travestita da pubblica opinione, evitando per quanto possibile che l’acquisizione di cultura autentica renda documentato e discriminante il giudizio.
C’è un qualunquismo negativo che ben conosciamo, ma dal quale non siamo mai stati capaci di difenderci, che ora realizza i1 suo progetto totalitario proprio grazie ad un complesso meccanismo di pseudo-informazione che pratica la calunnia come gioco sociale. Contrapposto a questo sta prendendo piede il qualunquismo libertario che capovolge le regole del gioco e disorienta: tutto è bene quel che è libero. Si fa d’ogni erba un fascio, nel bene e nel male, proprio perché diventi impossibile formulare il giudizio. Si sposa acriticamente la causa della libertà, e ci si batte indiscriminatamente a favore del mafioso e del presentatore, del terrorista e del santone.
Nella società dell’invidia e dell’ignoranza anche la libertà può diventare un male: perché scegliere senza sapere cosa si sceglie è come non avere la libertà di scelta. Così che il qualunquismo retrivo e il qualunquismo libertario finiscono per usare gli stessi codici di comunicazione e disinformazione, apparentemente mirando ad obiettivi diversi, in realtà ottenendo gli stessi risultati proprio perché riproducono lo stesso schema di individuo e di società.
Pochi dicono «imbecille» all’interlocutore da cui dissentono, all’artista sciocco, allo scienziato disonesto; ma tutti sono pronti a giocare con la dignità umana.
Psicoanalisi Contro ha scelto consapevolmente di rinunciare al qualunquismo e allo stesso tempo di rifiutare anche di pagare il prezzo di questa scelta. Di rifiutare cioè la rimozione di sé che la società impone in simili casi. Con un rifiuto che non si rassegna però alla velleitarietà: si può lottare anche sapendo che l’esito della lotta potrebbe essere la sconfitta. Finché a lottare saranno almeno in tre.