30 – Marzo ‘87

marzo , 1987

E’ la prima volta che i due Farfalloni parlano della cucina di quello che fu il celeste Impero, abbiamo fatto passare tanto tempo prima di parlarne perché, sebbene da decenni la gustiamo ed apprezziamo, abbiamo voluto, per un paio d’anni, dedicarle attenzione, studiarla e praticare questo modo di cucinare carni, pesci e ortaggi. Noi siamo certamente ancora novizi sullo specifico della cucina cinese, ma ora almeno ci sentiamo in grado di azzardare qualche giudizio. Una delle prima cose che pensiamo di avere capito è che il pasto cinese non è per nulla «orizzontale», nel senso per cui comunemente si crede che le portate si succedano senza ordine e priorità. Sebbene non segua lo schema di un menù europeo il pranzo cinese è costruito con precisa e armonica architettura, così che si passa, attraverso gradi intermedi, dai sapori più delicati a quelli più forti e piccanti, per concludere con una profumata e calda zuppa. È orribile vedere persone che su delicatissimi ravioli al vapore fanno colare fiumi di salsa d’olio piccante al peperoncino rosso messa in tavola perché accompagni i piatti successivi. Inoltre è obbrobrioso bere il té durante il pasto, poiché questa bevanda amarognola, astringente e profumata si accoppia malissimo col sapore dell’olio, soprattutto fritto, con cui snnn trattati molti piatti. Dice il Poeta Li Po:
«La ben cucinata agnella, le carni del bue
ci danno piacere,
ma vogliono anche trecento bicchieri,
in un fiato.
Tu, maestro Ts’en,
e tu, discepolo Tan-ch’iu,
prendi il vino,
non resti inerte la coppa!» (Li Po, Bevendo il vino «Trecento poesie T’ang», Einaudi, 1961)
La vite in Cina è arrivata dall’Iran verso il terzo secolo dopo Cristo, ma l’arte della vinificazione fu acquisita solo nel settimo secolo, e i vini d’uva cinesi non sono molto pregiati, però ciò nonostante a tavola si beve vino, anche se in genere si preferisce lo Shao Shing, prodotto dalla fermentazione di riso, miglio e riso glutinoso, un liquore giallo che arriva ai 18 gradi circa e viene servito prefiribilmente tiepido. Certo, la Cina è vastissima, le differenze tra le regioni sono molte, anche a tavola; però quasi sempre si beve vino o liquore durante i pasti, riservando il tè all’inizio, prima del pasto, o alla fine dopo pranzo. In Europa i ristoratori cinesi avrebbero a disposizione una gamma vasta di meravigliosi vini e potrebbero persino tentare quel «mariage» tra cibo e bevande che in Cina non è praticato; ma il malcostume degli avventori che si sdilinquiscono nell’orrido accostamento coi té al gelsomino e la pigrizia o l’inesperienza degli osti fanno sì che generalmente si trovino disponibili da noi solo i vini più scadenti e banali tra quelli in commercio, tanto che bere bene è difficile, anche dove si mangia bene. Tra i ristoranti cinesi di Roma uno dei più noti è La Giada, quasi in piazza Venezia. Noi ci siamo stati più volte nel corso degli anni e lo abbiamo sempre trovato orribile. Quest’anno, dopo aver notato il crescente prestigio che il posto ha assunto, abbiamo voluto verificare di persona. Abbiamo prenotato in anticipo, versando una «caparra» per poter avere l’opportunità di gustare al meglio la famosa anatra laccata di Pechino, e nel giorno prefissato ci siamo seduti di nuovo a uno dei tavoli di quelle vaste sale un po’ pretenziose e rumoregg;anti per l’affollamento del sabato sera. Abbiamo vissuto una delle nostre peggiori esperienze gastronomiche e non abbiamo parole per esprimere la nostra indignazione! Indubbiamente un démone malvagio deve essersi impossessato dello chef, perché piatti così ributtanti e dissennati è proprio difficile metterli insieme. Abbiamo aperto la cena con un piccolo scherzetto, non sgradevole, composto di alghe e vermicelli fritti con pinoli, avvolti in una fresca foglia di lattuga, ma poi i pesanti e unti ravioli fritti, i durissimi involtini primavera, le acide e insapori verdure agro piccanti e il disgustoso e maleodorante latte fritto ci hanno preparato al peggio; che infatti è venuto:una pasta di riso cinese, sabbiosa al palato, condita con una quantità spropositata di bruciante zenzero e cipolla semicruda, un orrendo riso fritto, grasso e dal gusto rancido e dei banali capellini alla cinese. L’anatra laccata è stata una vera beffa: ciascuno di noi si è visto porgere un brandello di carne viscida, quasi lessa, posata su di una crèpe rigida come pergamena, insieme a tronchi di erba cipollina grandi come bao-bab. Gli spiedini di gamberetti, ci hanno fatto temere per il pungente odore di varechina; la zuppa di brodo d’anatra era allo stesso tempo untuosa e slavata. Miserabili e minuscoli pezzetti di frutta caramellata costituivano il dessert. È inutile aggiungere che i vini erano tra i peggiori reperibili; noi ci siamo condannati a bere un Soave Bertani, acidissimo; un insapore Pinot Grigio di Vaja e uno spaventoso Rosé Rivera. Non possiamo però tacere dell’insostenibile lentezza del servizio, dell’imposizione di un menù da noi non concordato, l’avarizia nel comporre le portate, la mancanza di un uscio che separasse la sala dal vano dei gabinetti e i miagolii beffardi della minuscola cinesina che, con aria da maitresse ha avuto il coraggio di importunarci per tutta la sera, decantando la cucina e domandandoci ad ogni pie’ sospinto se fossimo o no soddisfatti: noi fantasticavamo, ascoltandola, delle meravigliose torture di cui i suoi avi erano ritenuti grandi esperti con le quali avremmo desiderato contraccambiarla. C’è parso poi discutibile – in tempi di universale profilassi – il gesto proditorio con cui ci sono stati gettati in mano bollenti pannicelli di umida spugna, supposti idonei alla funzione di detergere, dopo il pranzo. «Anche sul prezzo c’è poi da ridire…» recitava una ballata assai nota ai nostri tempi; e la signora Lee Wah Lai non ci è andata leggera!

Altra esperienza è stata quella del King’s hall, quasi in piazza S. Callisto, alla fine di via S.Francesco a Ripa, in Trastevere, locale ricco di eccessiva e debordante cineseria nell’arredamento, con un servizio simpatico anche se forse, strano a dirsi, un po’ troppo incalzante. Nel complesso abbiamo mangiato bene e qualche preparazione era addirittura eccellente, come lo splendido nido di patate con pollo, gustoso, croccante e morbido o i ravioli al vapore, con la loro delicatissima pasta e il raffinato ripieno; ancora: il maiale agro piccante, saporitissimo e ben equilibrato. Anche gli altri piatti erano a buon livello: involtini primavera, polpettine di gamberi fritte, manzo piccanti e croccante, insalata di pollo, pollo fritto, vermicelli di soja. Una grande e inspiegabile caduta di tono si è avuta con il riso fritto alla cantonese, davvero sbagliato e povero! Tra i dolci, ci è piaciuto il dolcetto di fagioli rossi e molto meno il budino di mais e cocco. Con i vini, il discorso di sempre. Il prezzo, più che onesto, ci ha confermato nella buona opinione.

Il ristorante cinese del Centro Internazionale, di via De Pretis, quasi all’angolo con via Nazionale, è costituito da una sala grande e piena di chiasso, arredata con le cineserie di prammatica ed ha, persino accentuato, l’inconveniente di moltissimi ristoranti cinesi: quello cioè di un servizio che risulta poco efficace perché la comunicazione con il personale di sala è quasi impossibile. Noi abbiamo questa volta dovuto limitarci ad indicare i numeri segnati accanti ai piatti della lista. In questo modo ci è stato servito prima un antipasto misto di non grande varietà né originalità; sono seguiti crostini con gamberi fritti, un po’ troppo unti e alquanto pesanti e poi alcuni gamberoni in piatto caldo di poco sapore, una seppia piccante sovrastata da un sapore eccessivo di arachidi e accompagnata da verdure mal cotte. L’anatra in salsa cinese era scialba, con un gusto appena un po’ amaro e basta, mentre il maiale con i funghi neri era immerso in una brodaglia scostante. Noi consideriamo il riso fritto una specie di banco di prova per i ristoranti cinesi, infatti, benché sia generalmente diffuso, è molto di rado preparato con cura, e anche questa volta non valeva niente: molliccio ed unto, con pochi ingredienti a dargli sapore, come tutto il resto tradiva il fatto di essere stato cucinato affrettatamente e lasciato poi ad aspettare. Come era prevedibile, la scelta dei vini si limitava a pochissimo e noi abbiamo bevuto un Soave e un Pinot. Il pasto si è concluso con la frutta caramellata, troppo dura per riuscire gradevole, e la solita grappa cinese. Il conto che ci è stato presentato, di per sé non elevato, ci è parso eccessivo per il livello del locale.