Archivio di agosto 1986

Psicoanalisi contro n. 25 – Il diavolo nell’inconscio

venerdì, 1 agosto 1986

Risconoscere in noi la presenza dell’inconscio dà spesso fastidio, procura un disagio filosofico e politico. L’inconscio infatti è espropriatore. Se l’essere umano pensa che un’entità ignota lo condizioni in qualche modo, o almeno influenzi il suo agire consapevole, gli sembra che la sua libertà di scelta e la sua stessa responsabilità personale vengano messe in crisi. E’ insopportabile il pensiero che le lotte per i propri ideali, la serietà dell’impegno, la lucida analisi della situazione sociale, siano anche frutto di rabbie, invidie e frustrazioni, sprofondate nell’inconscio magari da tempo immemorabile. Che cosa diventano l’atto di eroismo e l’abnegazione spinta fino al sacrificio di sé, quando si rivelino nascere da un desiderio inconscio di esibizionismo, da un delirio di onnipotenza? Cosa resta del sentimento religioso, se viene spiegato con un bisogno profondo e infantile di dipendere da un padre potente, che tuteli contro l’ignoto e difenda dalle avversità? Se tutte queste costruzioni ideali non sono che razionalizzazioni di sentimenti inconsci, abitualmente considerati ignobili, la loro scoperta non può che rendere squallido e sciatto il vivere dell’uomo. L’uomo si ribella quindi a quest’idea: generali, arcivescovi e rivoluzionari affermano che l’inconscio non esiste e che le loro medaglie, le loro preghiere e le loro rivoluzioni nascono dall’adesione pura ad un’idea, chiara e consapevole. Si origina la condanna politica, morale e religiosa di quella pretesa scienza, che osa parlare dell’inconscio, che su di esso fonda la propria ragion d’essere, che si propone di andarne alla scoperta e di metterne in luce almeno una parte. Eppure, quando si analizzano le gesta o le vicende dei popoli e dei singoli individui del passato, o le azioni degli avversari del presente, molto spesso si afferma che le motivazioni del loro agire risultano ben diverse da quelle dichiarate. Qualcuno potrà ribattere che queste motivazioni non dichiarate sono, però, ben consapevoli, ma taciute, da condottieri, papi, carbonari e masse popolari. Non è difficile dimostrare che le masse si muovono, per lo più, inconsapevolmente: sia il credente Manzoni, sia l’ateo Marx lo hanno fatto, dichiarando che esse sono mosse da bisogni e fantasie di cui non conoscono la vera natura, che la fame e la paura, insieme al desiderio di benessere, sono state le cause prime dei grandi sommovimenti sociali, tanto nella Milano del Seicento, che nella Germania dell’Ottocento.Si conclude, dalle affermazioni di entrambi, che l’inconsapevolezza regna sovrana nelle collettività. Un gruppo sociale o una classe possono essere paragonati ad un organismo individuale: anche qui di consapevole c’è ben poco; ciononostante l’organismo si muove, dirigendosi da una parte piuttosto che dall’altra, operando scelte. Sembra meno evidente che motivazioni inconsce muovano i gesti dei singoli individui; ma non sono proprio questi che compongono poi quelle masse la cui inconsapevolezza pare tanto chiara?

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Anche la scienza ha spesso paura dell’inconscio. Gli specialisti biologi, astronomi, fisici e persino quegli studiosi della psiche che vorrebbero, ridicolmente, che essa coincidesse col sistema nervoso, hanno orrore dell’inconscio e guardano con sospetto i teorici della psicoanalisi che, spudoratamente, ne affermano l’esistenza e, temerariamente, propongono l’avventura in una così pericolosa foresta. Si arriva a sostenere che le ricerche psicoanalitiche non siano scientificamente fondate, perché non sperimentali. Questa affermazione è assolutamente gratuita: l’analisi dell’inconscio ha una sua area di sperimentazione, anzi: si basa esclusivamente sull’esperimento e sul confronto fra i vari esperimenti. Già la fisica del Novecento aveva fatto notare come resti sempre un diaframma tra la verità della cosa in sé e la verità scientifica, in quanto l’oggetto studiato è sempre esaminato attraverso uno o più strumenti che, in qualche modo, sempre, per precisi che siano, ne modificano la reale percezione. Io soggiungo che ogni strumento è non soltanto un filtro deformante, ma è costruito in modo da prefigurare la struttura dell’oggetto che, col suo aiuto, si vuole cercare e trovare. Ciò spiega, in parte, perché la storia della scienza non sia una storia di verità, ma piuttosto una storia di confutazioni e smentite, per cui quello che ieri era vero, oggi non lo è più e quello che ieri era considerato falso da chi guardava con sufficienza all’altro ieri, è oggi nuovamente convalidato. Eppure il mondo non è soltanto la mia rappresentazione! Ogni scienza trova quello che vuol trovare e cerca ciò che vuol cercare. L’universo si rinnova ad ogni teoria scientifica e, con esso, anche l’uomo. La psicoanalisi – o, più propriamente: la scienza che ricerca l’inconscio – non può essere esente dai dubbi e dalle incertezze di ogni altra scienza. Ci si propone consapevolmente di studiare l’inconscio, ma la coscienza è a sua volta mossa dall’inconscio – questo è un assioma della psicoanalisi – quindi il conscio troverà ciò che l’inconscio vuole che si trovi. E’ possibile allora che il conscio riesca mai a trovare l’inconscio? La psicoanalisi è una possibilità?

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In senso stretto, la psicoanalisi è una. scienza impossibile, in quanto la psiche, come realtà cosciente e inconscia, è un’astrazione; e sarà sempre così, finché vivremo in quella che il Foscolo amò definire: «…bella d’erbe famiglia e d’animali…» e finché l’essere umano sarà fatto in questo modo: con questi occhi, queste mani, questa corteccia cerebrale e questi sogni.
Eppure ci sono prove lampanti dell’esistenza dell’inconscio. I lapsus più banali, spesso, costringono l’uomo a rendersi conto di pensieri e desideri che covano sotto la soglia della coscienza e che un fortuito incidente, l’uso di una parola per l’altra, fanno esplodere clamorosamente.
Una ragazza un giorno chiamò un amico con un altro nome, un nome che per lei non voleva dire assolutamente niente: «Io non conosco nessuno con questo nome – aveva detto – non ho mai conosciuto nessuno che si chiamasse così». Lentamente, in lei fiorì per l’amico un amore intensissimo. Rimaneva inspiegabile la presenza di quel nome che, ogni tanto, tornava tra loro. Parlando una volta con la madre, il discorso cadde sul periodo della sua prima infanzia e si sentì dire: «Ti ricordi…?» e udì la madre pronunciare quel nome misterioso. Lei sobbalzò domandando: «Chi?» La madre le rispose: «Ma come, non ti ricordi, eravamo al mare: è stato il tuo primo amore… » Come attraverso una nebbia le si disegnò nella mente un volto che per anni era rimasto sepolto e venne il ricordo di quelle lontani sensazioni di bambina, scaturirono altri ricordi e, fortunatamente, l’amore del presente fu rafforzato da quell’amore recuperato dal passato.

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Ci sono anche gli atti mancati, i sintomi nevrotici e poi ancora i deliri della follia, realtà che un’analisi limitata al razionale non basta a spiegare. Sia la depressione, sia il furore maniacale, non sono spiegabili soltanto con l’assenza o la presenza di sostanze nell’organismo. Perché proprio quelle fantasie, quelle allucinazioni, quelle paure, quei sogni?
L’inconscio non è solo dentro di noi, è anche tra noi e gli altri, perché è il frutto di esperienze e fantasie che non sono mai del tutto individuali, ma nascono sempre in relazione o in presenza di qualcuno o di qualcosa. Questa sua ineludibilità, macroscopicamente evidente e legata al rapporto con l’altro, fa sì che l’inconscio sia percepibile più di qualsiasi altra realtà quantificabile.

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Gli artisti hanno sempre avuto un duplice atteggiamento nei confronti dell’inconscio. Alcuni vi si sono abbandonati e vi si abbandonano, nella convinzione di esprimere così un’arte più profonda, capace di superare le barriere della convenzione e della riduttiva razionalità. Altri, timorosi dell’inconscio hanno voluto ignorarne l’inquietante presenza. Ma i prodotti artistici non sono risultati, per la sola ragione di aver operato una scelta oppure l’altra, gli uni migliori degli altri. In ogni caso, né gli uni, né gli altri hanno potuto eludere davvero la realtà dell’inconscio.
C’è però un compito che l’arte può assolvere, superando in ciò i limiti della scienza, anche di quella che studia l’inconscio.
Gli artisti possono insegnare agli uomini, agli studiosi della psiche, che l’inconscio non è solo un serbatoio di vergognose brutture. Se pure molte fantasie e molti desideri sono stati rimossi, cioè ricacciati nell’inconscio perché offendevano quello che comunemente s’intende sia il senso della decenza, non sono necessariamente da identificare con il cosiddetto «male». A volte, con le viltà, i pregiudizi, gli sciocchi esibizionismi, vengono rimossi anche desideri che proprio la viltà i pregiudizi e gli esibizionismi di un banale perbenismo hanno voluto soffocare, vengono rimosse così la ricchezza dell’erotismo, la grandiosità della spregiudicatezza, vengono soffocati grandi gesti d’amore e di eroismo. Gli educatori, i ben pensanti e i mezzi di comunicazione di massa, hanno, più o meno consapevolmente, voluto insegnare ed imporre la viltà, esaltando solo eroismi funzionali ai princìpi dominanti. Ecco allora che l’inconscio del bene si scontra con l’inconscio del male. L’arte ha la possibilità, liberando tutto questo, di insegnare agli uomini che nell’inconscio c’è almeno tanto bene quanto male; che nell’immensità dell’universo e nell’intimità dell’anima umana esiste Eros, che è dio dell’amore. Basta saperlo scoprire, a dispetto di tutti quelli – potenti e non potenti – che, per timore di veder minacciata la propria presuntuosa «purezza», riducono la mente umana ad una sequenza di sillogismi consapevoli e negano l’inconscio, perché temono che in esso si annidi il diavolo. Questo non è vero: io ritengo che l’essere umano venga da lontananze profonde che il primo dio sia stato il dio dell’amore.

25 – Agosto ‘86

venerdì, 1 agosto 1986

Il Madrigale
L’altra sera i due Farfalloni avevano con sé soltanto un amico: gli altri erano tutti a Roma, chi per curare la propria attività di psicoanalista, chi per seguire da vicino il lavoro della tipografia; noi però sospettiamo che fossero fuggiti anche per rilassarsi un po’ gastronomicamente; ma questa volta hanno mancato una buona occasione.
Il Madrigale, al km. 112 della via Flaminia, qualche minuto di macchina prima di Spoleto, per chi arriva da Roma, è uno di quei posti la cui attrattiva è molto scoperta e immediata. Tra la natura verde, la grande costruzione in pietra invita alla sosta.
Era tardi, la cucina stava chiudendo: ci affidammo all’efficienza cortese di chi badava al nostro tavolo e ci complimentiamo con lui, perché ha saputo, rapidamente, organizzare una cena ineccepibile. Per antipasto una galantina di pollo in gelatina, bruschetta al tartufo, prosciutto crudo: tre sapori schietti, freschi e in armonia tra di loro.
Poi due piatti di pasta: ottimi spaghetti al tartufo, giustamente cotti e profumatissimi e degli eccezionali strangozzi alla spoletina, con aggiunta di funghi, una pasta fatta in casa che assorbiva bene il sugo prelibato, ricco di tanti sapori. Una frittata al tartufo, ghiottissima, che abbiamo apprezzato come un gioiello, ha preceduto una buona bistecca alla brace, contornata da una allegra e croccante insalatina, vera pennellata di gentilezza. Per dessert abbiamo apprezzato la freschezza squisita di un sorbetto al limone, servito nel frutto stesso. Il vino bianco della casa ci è parso franco, asciutto, con un sentore di mandorla amara e un appena percepibile profumo erbaceo. Poi abbiamo goduto dell’ottima qualità di un Rubesco Lungarotti dell’81, servito alla giusta temperatura.
Per finire, una scelta di superalcolici e amari. Il conto, non basso, era però adeguato. Siamo usciti soddisfatti con un pensiero agli amici lontani.

Fontecupa
Nello stesso palazzo che ospita l’Hotel Manni, c’è il ristorante Fontecupa, in piazza Collicola 6. Dopo aver disceso i gradini che portano sotto il livello stradale, ci si trova in effetti in un ambiente un po’ cupo; non tanto per l’arredo o l’architettura, quanto per l’aria afflitta degli addetti alla cucina e al servizio. Il gestore ci ha accolti con un pistolotto, per informarci su cose che noi ben sappiamo: cioè che in realtà in molti ristoranti di Spoleto circola uno pseudotartufo, fatto con funghi triturati (noi sappiamo che ci sono anche altri trucchi) e che quindi lui non ci avrebbe servito tartufi, che, se davvero tali, benché estivi, sarebbero costati troppo. Così l’antipasto è consistito in un pomodoro al riso, sfatto e molliccio, servito insieme ad una bandiera di patate troppo lessate e viscide.
Credevamo di aver cominciato dal fondo e ci siamo detti: «Peggio di così non può andare. »
Invece è stato possibile: i primi piatti, tutti completamente senza sale, potevano partecipare al concorso per la peggior cena in un film della serie La pasta assassina. Gli spaghetti alla carbonara erano scotti e coperti da una bava giallastra di tuorlo semi-crudo; gli strangozzi alla casalinga, sembravano prodotti da una multinazionale australiana del fast-food; i rigatoni alla norcina erano in realtà penne snervate, galleggianti in un biancore spettrale di ottima panna e nient’altro. A questo punto avvenne un colpo di scena: le trote alla griglia erano buone, gustose e sode e la grigliata mista di carni era cotta a puntino, anche se con pochissimo sapore. Patate fritte dalla consistenza di pop-corn e una insalata mista sono stati gli scialbi contorni. Per timore di ulteriori terribili sorprese, non abbiamo ordinato i dessert. Abbiamo bevuto prima un bianco della casa eccessivamente alcolico e pesante, nella sua genuinità e poi un rosso, inoffensivo, in caraffa.
Il prezzo, contenuto, non eccedeva né verso l’alto né verso il basso.

Le Casaline
Sulla strada che porta a Campello alto, lasciando la Flaminia a Campello sul Clitunno, dopo pochi chilometri di salita, si incontra, in località Poreta di Spoleto, il ristorante Le Casaline. L’aspetto è di un vecchio casale, con le pareti in pietra, accogliente, malgrado un arredamento un po’ da signora. Sul tavolo occhieggia un piatto di bigné, sotto forma di cignetti, ripieni di svariate mousse e subito viene servito, insieme con la pizza al formaggio, un frizzante Chardonnay, fresco e simpatico, anche se poco caratterizzato. Per antipasto abbiamo mangiato una bruschetta al tartufo, abbastanza buona e, se fossimo stati preveggenti, ci saremmo fermati qui; perché già il paté sul crostino era una cremetta soltanto acida.
La scelta tra i primi, ampia, comprendeva molte preparazioni tradizionali e alcune invenzioni. Con sprezzo del pericolo, abbiamo ordinato anche i ravioli verdi con sugo di panna e mais, indecenti persino per un pranzo in onore di Nonna Papera; ma nemmeno umoristici erano gli strangozzi al tartufo e quelli piccanti: sulla pasta scotta e appiccicosa degli uni, un sugo senza sapore e, sugli altri, una salsa di pomodoro dal cattivo profumo. Con i secondi, le cose non sono migliorate: la trota tartufata al cartoccio era una poltiglia di pesce, le bistecche erano stoppose e l’abbacchio tartufato consisteva in dadolini d’aria condensata, mentre l’agnello alla Villeroy ostentava un’impanatura solida come il calcestruzzo. Sullo stesso livello si mantenevano i dolci: una torta di mandorle sabbiosa e un troppo liquoroso tiramisù. Il bianco della casa non ci sentiamo di giudicarlo perché ci è stato servito troppo caldo. Ansiosi di uno spiraglio nella deprimente serata, ci siamo buttati sul collaudato, profumatissimo e sapido Grechetto della Rocca di Fabbri dell’ultima vendemmia. Con le carni abbiamo sperimentato uno strano Bardoné Fontanafredda, vino da tavola a pronta beva, fatto con uve barbera, dolcetto e nebbiolo, che sarebbe stato forse accettabile se la bottiglia fosse stata bevuta due anni fa.
Il conto è stato abbastanza alto, benché senza eccesso.
Cogliamo l’occasione comunque per lodare i due giovani che si sono prodigati al nostro tavolo, sempre attenti e cortesi, capaci persino di non perdere le staffe di fronte a clienti tanto assillanti come noi.

Trattoria S. Giuliano
Abbiamo l’impressione che una linea continua matriarcale segni l’esistenza di quel bellissimo angolo di mondo su cui sorgono l’antica chiesa di S.Giuliano e l’omonima trattoria, sulla strada di Monteluco.
Fu una matrona romana di nome Gregoria a volere che lì si fondassero una chiesa e un monastero; ed una moderna matrona ci ha accolto, protettiva, l’altra sera. La sala, arredata con i soliti brutti mobili, è abbellita però da tre traversoni di legno scolpito, originariamente parti di antichi baldacchini e gode inoltre di un panorama splendido. In questo locale abbiamo mangiato malissimo, in modo addirittura irritante e diciamo subito che, pur avendo il posto caratteristiche di trattoriola di campagna, il conto è stato il più alto di questo nostro soggiorno spoletino. Qui si può tutt’al più venire a fare una merenda, perché le bruschette e il prosciutto, pur senza essere niente di speciale, sono gustosi e ben accompagnati da un vinello bianco frizzantino e gradevole. Se però si ha la debolezza di proseguire col pasto, si va incontro alla desolazione. Gli strangozzi non sono tali, ma soltanto cattive tagliatelle servite con tutta l’acqua di cottura. Il sugo degli asparagi è troppo acido e
quello ai funghi è a base di fibrosi champignons..Le cose ci sono andate ancora male, quando abbiamo assaggiato i secondi piatti: l’agnello tartufato sembrava riscaldato troppe volte, le scaloppine agli asparagi scisse come tartine, con la carne inerte che faceva da canapè ad una cucchiaiata d’asparagi; la frittata ai tartufi non aveva il profumo che ci si aspettava. La zuppa inglese era un pasticciaccio brutto e il ciambellone aveva l’inconsistente asciuttezza della carta crespata. Il rosso della casa, forse un Sagrantino, era pesante con un eccessivo odore di cacao. Il nocino fatto in casa sembrava uno stura lavandini e il caffè sport aveva un sapore di cattivo caffè. Non basta voler sembrare materne per sedurre i Farfalloni!

Brevi soste

Per una breve sosta, esistono locali meno impegnativi dei ristoranti e delle trattorie. Noi riteniamo che anche i cosiddetti bar debbano passare al vaglio dei due Farfalloni, perché pure qui possono capitare cose gradevoli o meno gradevoli, si può apprezzare un’accoglienza cortese o patire per la malagrazia.

Casa del Frullato
Sul corso Mazzini, quasi in piazza della Libertà, c’è un locale, piccolo, senza tavolini, coloratissimo, gestito da persone di non grande comunicatività. È la Casa del frullato, la quale offre la possibilità di una pausa rinfrescante, salutare ed energetica. C’è un’ampia scelta di frullati con frutti di ogni tipo, nelle più svariate combinazioni, cui si aggiungono alcune proposte d’occasione, come il Frullato del Festival, con frutti esotici e panna, o quello dedicato alla Maratona di danza, al kiwi, con una pallina di gelato e spiedino di frutta. Tutte prelibatezze, anche per l’ottima qualità della frutta, esposta ben in vista. Si possono aver inoltre macedonie, o tramezzini vegetariani. I gelati, tantissimi, sono un po’ insipidi; in realtà si fa fatica a percepire la differenza tra i vari gusti; ciò è forse dovuto alla grande naturalità del metodo di preparazione; eppure noi abbiamo l’impressione che la natura sia molto più capace di dare ai suoi frutti sapori netti e ben distinti.

Bar Canasta
Il Bar Canasta, in piazza della Libertà, ha tre grandi pregi: un servizio cortese e sollecito, la bella vista sul teatro romano e ottimi gelati di produzione artigianale. Noi cerchiamo sempre, al bar, di provare i cocktail e qui bisogna dire che regna un poco di confusione: il Negroni è amaro e disarmonico per l’eccesso di bitter, e il Manhattan viene erroneamente shakerato. Migliori, tra le bevande miscelate, abbiamo trovato i long drink, freschi e saporiti. C’è poi una specialità della casa, abbastanza gradevole, anche se di truce ispirazione: il Camicia nera, miscuglio alcolico al caffè.

Bar Costa
A questo bar di Corso Mazzini 26, bada ogni tanto una cortese signora, piena di buone intenzioni che, alla nostra richiesta di cocktail, ha cercato di rispondere come meglio poteva, combinando veri disastri: nell’Alexander, non ben amalgamato ha messo un brandy stravecchio, anziché un cognac; nel Negroni ha ottenuto un risultato sgradevole, aggiungendo Martini Dry e angostura agli ingredienti prescritti e, vera bizzaria, ha messo l’angostura anche nel Gin fizz. Eccezionalmente buoni, invece, i gelati che abbiamo provato, veramente di produzione propria, piccoli capolavori di fantasia e di mantecatura.

25 – Agosto ‘86

venerdì, 1 agosto 1986

Arcadia

Se l’Arcadia è la mitica regione greca favoleggiata dai poeti bucolici, più o meno coincidente con una parte del Peloponneso centrale, bisogna dire che si trova piuttosto lontano da Spoleto – anche se l’aspra natura umbra non è da quella molto dissimile per conformazione fisica e per fascino.
Se, invece, l’Arcadia è l’ideale e metastorica astrazione che designa un’accolita d’artisti che, in un qualunque luogo e qualunque tempo, si trastullino con idilliaci vagheggiamenti, fuori dalla realtà, spendendo le loro energie in oziosi discorsi, c’è fondato timore che proprio a Spoleto, essa trovi ogni anno una concreta, se pur temporanea, realizzazione.
Tirsi e Corìdone «arcades ambo» siedono con cento loro simili nei gazebo e nei pergolati di ville e caffé, e sono così vistosamente vacui che inducono chi posa su di loro uno sguardo frettoloso ad esprimere un giudizio negativo, che rischia, di coinvolgere una realtà ben più profonda e complessa.
Una realtà che – banalmente – ci si ostina a ritenere brutale: economica e politica; e una realtà che si sostanzia di arte e di cultura. Questa multiforme realtà conosce a Spoleto il momentaneo privilegio di attirare su di sé l’attenzione di tutti.
E ciascuno si propone di leggerla secondo la sua chiave di lettura.
secondo la sua chiave ai lettura.
Anche PSICOANALISI CONTRO possiede una sua cifra, in base alla quale legge le cose del mondo e su cui fonda il suo progetto di mondo. Forse più piccolo di tanti altri, ma ugualmente convinto. È difficile dire quanto a Spoleto si realizzi l’incontro fra mondi; certo è però che sono poche le occasioni in cui, come in questa, mondi tanto diversi si sfiorino così da vicino, e questa contiguità è talora provocatoria e sempre stimolante. Psicoanalisi, cultura e arte sono mondi diversi, più o meno vicini o lontani tra di loro? Queste pagine e il lavoro di anni cercano di affermare che il mondo dell’uomo è unitario e che è importante che ogni individuo recuperi il massimo livello possibile di unità.
La consapevolezza che la psicoanalisi pretende di dare è strumento critico tanto più valido, quanto più si applica ad un modello di uomo completo.
Arte, cultura, economia, religione e politica sono elementi che contribuiscono a questa completezza. Questo vale anche a Spoleto e vale per il giovane suonatore di tromba americano e per l’idraulico di S. Giacomo.
Per questo, anche, è ingiusto che qualcuno veda nel Festival solo un’accademia arcadica; per questo, anche, è giusto impegnare energie nello sforzo di rendere chiara la lettura degli avvenimenti di questi giorni.