25 – Agosto ‘86

agosto , 1986

Il Madrigale
L’altra sera i due Farfalloni avevano con sé soltanto un amico: gli altri erano tutti a Roma, chi per curare la propria attività di psicoanalista, chi per seguire da vicino il lavoro della tipografia; noi però sospettiamo che fossero fuggiti anche per rilassarsi un po’ gastronomicamente; ma questa volta hanno mancato una buona occasione.
Il Madrigale, al km. 112 della via Flaminia, qualche minuto di macchina prima di Spoleto, per chi arriva da Roma, è uno di quei posti la cui attrattiva è molto scoperta e immediata. Tra la natura verde, la grande costruzione in pietra invita alla sosta.
Era tardi, la cucina stava chiudendo: ci affidammo all’efficienza cortese di chi badava al nostro tavolo e ci complimentiamo con lui, perché ha saputo, rapidamente, organizzare una cena ineccepibile. Per antipasto una galantina di pollo in gelatina, bruschetta al tartufo, prosciutto crudo: tre sapori schietti, freschi e in armonia tra di loro.
Poi due piatti di pasta: ottimi spaghetti al tartufo, giustamente cotti e profumatissimi e degli eccezionali strangozzi alla spoletina, con aggiunta di funghi, una pasta fatta in casa che assorbiva bene il sugo prelibato, ricco di tanti sapori. Una frittata al tartufo, ghiottissima, che abbiamo apprezzato come un gioiello, ha preceduto una buona bistecca alla brace, contornata da una allegra e croccante insalatina, vera pennellata di gentilezza. Per dessert abbiamo apprezzato la freschezza squisita di un sorbetto al limone, servito nel frutto stesso. Il vino bianco della casa ci è parso franco, asciutto, con un sentore di mandorla amara e un appena percepibile profumo erbaceo. Poi abbiamo goduto dell’ottima qualità di un Rubesco Lungarotti dell’81, servito alla giusta temperatura.
Per finire, una scelta di superalcolici e amari. Il conto, non basso, era però adeguato. Siamo usciti soddisfatti con un pensiero agli amici lontani.

Fontecupa
Nello stesso palazzo che ospita l’Hotel Manni, c’è il ristorante Fontecupa, in piazza Collicola 6. Dopo aver disceso i gradini che portano sotto il livello stradale, ci si trova in effetti in un ambiente un po’ cupo; non tanto per l’arredo o l’architettura, quanto per l’aria afflitta degli addetti alla cucina e al servizio. Il gestore ci ha accolti con un pistolotto, per informarci su cose che noi ben sappiamo: cioè che in realtà in molti ristoranti di Spoleto circola uno pseudotartufo, fatto con funghi triturati (noi sappiamo che ci sono anche altri trucchi) e che quindi lui non ci avrebbe servito tartufi, che, se davvero tali, benché estivi, sarebbero costati troppo. Così l’antipasto è consistito in un pomodoro al riso, sfatto e molliccio, servito insieme ad una bandiera di patate troppo lessate e viscide.
Credevamo di aver cominciato dal fondo e ci siamo detti: «Peggio di così non può andare. »
Invece è stato possibile: i primi piatti, tutti completamente senza sale, potevano partecipare al concorso per la peggior cena in un film della serie La pasta assassina. Gli spaghetti alla carbonara erano scotti e coperti da una bava giallastra di tuorlo semi-crudo; gli strangozzi alla casalinga, sembravano prodotti da una multinazionale australiana del fast-food; i rigatoni alla norcina erano in realtà penne snervate, galleggianti in un biancore spettrale di ottima panna e nient’altro. A questo punto avvenne un colpo di scena: le trote alla griglia erano buone, gustose e sode e la grigliata mista di carni era cotta a puntino, anche se con pochissimo sapore. Patate fritte dalla consistenza di pop-corn e una insalata mista sono stati gli scialbi contorni. Per timore di ulteriori terribili sorprese, non abbiamo ordinato i dessert. Abbiamo bevuto prima un bianco della casa eccessivamente alcolico e pesante, nella sua genuinità e poi un rosso, inoffensivo, in caraffa.
Il prezzo, contenuto, non eccedeva né verso l’alto né verso il basso.

Le Casaline
Sulla strada che porta a Campello alto, lasciando la Flaminia a Campello sul Clitunno, dopo pochi chilometri di salita, si incontra, in località Poreta di Spoleto, il ristorante Le Casaline. L’aspetto è di un vecchio casale, con le pareti in pietra, accogliente, malgrado un arredamento un po’ da signora. Sul tavolo occhieggia un piatto di bigné, sotto forma di cignetti, ripieni di svariate mousse e subito viene servito, insieme con la pizza al formaggio, un frizzante Chardonnay, fresco e simpatico, anche se poco caratterizzato. Per antipasto abbiamo mangiato una bruschetta al tartufo, abbastanza buona e, se fossimo stati preveggenti, ci saremmo fermati qui; perché già il paté sul crostino era una cremetta soltanto acida.
La scelta tra i primi, ampia, comprendeva molte preparazioni tradizionali e alcune invenzioni. Con sprezzo del pericolo, abbiamo ordinato anche i ravioli verdi con sugo di panna e mais, indecenti persino per un pranzo in onore di Nonna Papera; ma nemmeno umoristici erano gli strangozzi al tartufo e quelli piccanti: sulla pasta scotta e appiccicosa degli uni, un sugo senza sapore e, sugli altri, una salsa di pomodoro dal cattivo profumo. Con i secondi, le cose non sono migliorate: la trota tartufata al cartoccio era una poltiglia di pesce, le bistecche erano stoppose e l’abbacchio tartufato consisteva in dadolini d’aria condensata, mentre l’agnello alla Villeroy ostentava un’impanatura solida come il calcestruzzo. Sullo stesso livello si mantenevano i dolci: una torta di mandorle sabbiosa e un troppo liquoroso tiramisù. Il bianco della casa non ci sentiamo di giudicarlo perché ci è stato servito troppo caldo. Ansiosi di uno spiraglio nella deprimente serata, ci siamo buttati sul collaudato, profumatissimo e sapido Grechetto della Rocca di Fabbri dell’ultima vendemmia. Con le carni abbiamo sperimentato uno strano Bardoné Fontanafredda, vino da tavola a pronta beva, fatto con uve barbera, dolcetto e nebbiolo, che sarebbe stato forse accettabile se la bottiglia fosse stata bevuta due anni fa.
Il conto è stato abbastanza alto, benché senza eccesso.
Cogliamo l’occasione comunque per lodare i due giovani che si sono prodigati al nostro tavolo, sempre attenti e cortesi, capaci persino di non perdere le staffe di fronte a clienti tanto assillanti come noi.

Trattoria S. Giuliano
Abbiamo l’impressione che una linea continua matriarcale segni l’esistenza di quel bellissimo angolo di mondo su cui sorgono l’antica chiesa di S.Giuliano e l’omonima trattoria, sulla strada di Monteluco.
Fu una matrona romana di nome Gregoria a volere che lì si fondassero una chiesa e un monastero; ed una moderna matrona ci ha accolto, protettiva, l’altra sera. La sala, arredata con i soliti brutti mobili, è abbellita però da tre traversoni di legno scolpito, originariamente parti di antichi baldacchini e gode inoltre di un panorama splendido. In questo locale abbiamo mangiato malissimo, in modo addirittura irritante e diciamo subito che, pur avendo il posto caratteristiche di trattoriola di campagna, il conto è stato il più alto di questo nostro soggiorno spoletino. Qui si può tutt’al più venire a fare una merenda, perché le bruschette e il prosciutto, pur senza essere niente di speciale, sono gustosi e ben accompagnati da un vinello bianco frizzantino e gradevole. Se però si ha la debolezza di proseguire col pasto, si va incontro alla desolazione. Gli strangozzi non sono tali, ma soltanto cattive tagliatelle servite con tutta l’acqua di cottura. Il sugo degli asparagi è troppo acido e
quello ai funghi è a base di fibrosi champignons..Le cose ci sono andate ancora male, quando abbiamo assaggiato i secondi piatti: l’agnello tartufato sembrava riscaldato troppe volte, le scaloppine agli asparagi scisse come tartine, con la carne inerte che faceva da canapè ad una cucchiaiata d’asparagi; la frittata ai tartufi non aveva il profumo che ci si aspettava. La zuppa inglese era un pasticciaccio brutto e il ciambellone aveva l’inconsistente asciuttezza della carta crespata. Il rosso della casa, forse un Sagrantino, era pesante con un eccessivo odore di cacao. Il nocino fatto in casa sembrava uno stura lavandini e il caffè sport aveva un sapore di cattivo caffè. Non basta voler sembrare materne per sedurre i Farfalloni!

Brevi soste

Per una breve sosta, esistono locali meno impegnativi dei ristoranti e delle trattorie. Noi riteniamo che anche i cosiddetti bar debbano passare al vaglio dei due Farfalloni, perché pure qui possono capitare cose gradevoli o meno gradevoli, si può apprezzare un’accoglienza cortese o patire per la malagrazia.

Casa del Frullato
Sul corso Mazzini, quasi in piazza della Libertà, c’è un locale, piccolo, senza tavolini, coloratissimo, gestito da persone di non grande comunicatività. È la Casa del frullato, la quale offre la possibilità di una pausa rinfrescante, salutare ed energetica. C’è un’ampia scelta di frullati con frutti di ogni tipo, nelle più svariate combinazioni, cui si aggiungono alcune proposte d’occasione, come il Frullato del Festival, con frutti esotici e panna, o quello dedicato alla Maratona di danza, al kiwi, con una pallina di gelato e spiedino di frutta. Tutte prelibatezze, anche per l’ottima qualità della frutta, esposta ben in vista. Si possono aver inoltre macedonie, o tramezzini vegetariani. I gelati, tantissimi, sono un po’ insipidi; in realtà si fa fatica a percepire la differenza tra i vari gusti; ciò è forse dovuto alla grande naturalità del metodo di preparazione; eppure noi abbiamo l’impressione che la natura sia molto più capace di dare ai suoi frutti sapori netti e ben distinti.

Bar Canasta
Il Bar Canasta, in piazza della Libertà, ha tre grandi pregi: un servizio cortese e sollecito, la bella vista sul teatro romano e ottimi gelati di produzione artigianale. Noi cerchiamo sempre, al bar, di provare i cocktail e qui bisogna dire che regna un poco di confusione: il Negroni è amaro e disarmonico per l’eccesso di bitter, e il Manhattan viene erroneamente shakerato. Migliori, tra le bevande miscelate, abbiamo trovato i long drink, freschi e saporiti. C’è poi una specialità della casa, abbastanza gradevole, anche se di truce ispirazione: il Camicia nera, miscuglio alcolico al caffè.

Bar Costa
A questo bar di Corso Mazzini 26, bada ogni tanto una cortese signora, piena di buone intenzioni che, alla nostra richiesta di cocktail, ha cercato di rispondere come meglio poteva, combinando veri disastri: nell’Alexander, non ben amalgamato ha messo un brandy stravecchio, anziché un cognac; nel Negroni ha ottenuto un risultato sgradevole, aggiungendo Martini Dry e angostura agli ingredienti prescritti e, vera bizzaria, ha messo l’angostura anche nel Gin fizz. Eccezionalmente buoni, invece, i gelati che abbiamo provato, veramente di produzione propria, piccoli capolavori di fantasia e di mantecatura.