Archivio di luglio 1986

Psicoanalisi contro n. 24 – Il si bemolle dorato

martedì, 1 luglio 1986

Una persona che, tempo fa, era in analisi con me, mi raccontò di una sua precedente esperienza psicoterapeutica, interrotta un po’ bruscamente, per la reciproca insofferenza e profonda avversione venutesi a creare nel rapporto analitico. Il paziente in questione era un musicista e, come spesso accade ai cultori di quest’arte, era un po’ chiuso nei confini del suo mondo sonoro: si esercitava allo strumento, andava alla ricerca di brani inediti o poco noti del passato, possedeva un’ottima preparazione filologica, in particolare sul periodo di cui si considerava uno specialista, oltre che una grande conoscenza di tutta la storia della musica. Suonava, leggeva e ascoltava musica, studiava su trattati e partiture, preparava con cura i suoi concerti, scriveva per alcune riviste musicali: il suo mondo era, ed è tuttora, la musica. Un mondo vasto, immenso, uno smisurato universo, con tanti soli, costellazioni e cose ancora ignote e meravigliose da scoprire. Spesso però questo universo è rinchiuso in barriere molto rigide e compatte, poco permeabili da altre realtà, e spesso il musicista vive nel suo mondo, restando un po’ troppo assorbito da questo linguaggio. Ciò si percepisce talvolta in esecutori ed interpreti, compositori e direttori d’orchestra, e le loro stesse esecuzioni e composizioni ne risentono negativamente. La musica deve sorgere, certamente, da uno studio accurato e approfondito, da esercizi tecnici assillanti e ossessivamente ostinati, ma deve scaturire anche, oltre che dalle profondità abissali dell’animo umano e dell’universo, dal quotidiano confronto con la realtà; e questo credo valga per ogni arte.

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Ritornando alla persona che era in analisi con me: mi raccontò del precedente analista che, dopo aver cercato di mostrarsi indifferente, non riuscì più a non manifestare la sua insofferenza per quei discorsi che non capiva; anche per questo l’analisi si era interrotta. In effetti raccontava i suoi sogni in termini inconsueti: « … ho visto un gran mi bemolle blu e poi un sol alla distanza di una terza maggiore, e poi un si bemolle dorato, una terza minore… » E giù una valanga di parole sui significati che per lui aveva il mi bemolle maggiore: «…il sol schizzò lontano, alla distanza di due ottave… i rivolti … una cadenza…» Seguivano lunghe associazioni su alcune difficoltà tecniche della diteggiatura, su certi abbellimenti, sui registri: «…abbellimenti, bellezza…registri, registri di scuola» E via con lunghe descrizioni della meccanica dello strumento, antico e affascinante,, i problemi di accordatura; e poi, subito dopo aver parlato di un ragazzo basso: «…il basso continuo…». Se non parlava di musica, improvvisamente non sapeva più di che parlare; o meglio: le cose che riusciva a dire non erano mai quelle che realmente gli erano affiorate per prime alla mente. Se si lasciava andare ai suoi pensieri, pensava alla musica, al suo strumento, ai concerti, a vecchi fogli ingialliti.
Spesso, seduttorio, soggiungeva: «Come è bello che con lei, che è musicista come me, io possa parlare tranquillamente di tutto questo. Lei mi segue e non la sento irritato.»
Debbo dire che qualche volta ci scappavano vivaci discussioni su problemi di tecnica od estetica musicali che, forse, con l’analisi avevano poco a che fare, ma riuscivamo comunque a recuperare tutto, anche le mie e le sue «resistenze», e il lavoro poté proficuamente continuare.
Aveva iniziato l’analisi con me, con affrettato entusiasmo, senza neppure aver letto nulla di mio e senza avermi mai ascoltato, soltanto perché gli avevano detto che io ero un musicista.
Sentii però come una vittoria il giorno in cui mi accorsi che le barriere di quell’universo musicale si stavano abbassando e il mondo irrompeva, con inarrestabile intensità, con la ricchezza di una realtà fatta anche di cose che non erano solo musica.

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Io non ho mai creduto e non credo che si debba necessariamente essere musicisti per fare psicoanalisi con un musicista, perché allora lo stesso problema si porrebbe con un fisico nucleare, con un pescatore o con un motorista, con un chimico o un odontotecnico: tutti infatti avrebbero bisogno dell’analista specializzato nella materia. Vi possono essere indubbiamente esperienze di vita o culturali che allontanano il terapeuta dal paziente, ma non vi si può rimediare pensando a un analista con una conoscenza enciclopedica. È vero però che più l’analista sa, meglio può svolgere il proprio lavoro. Giova a questo fine la «curiosità» del terapeuta verso il mondo e tutto ciò che il mondo può contenere, verso gli uomini e l’infinita possibilità delle diverse situazioni esistenziali, dei diversi linguaggi con cui l’umanità si esprime. La curiosità deve portare lo psicoanalista a scrutare, con abbandono quasi totale, ciò che gli sta intorno e a risentirne l’eco dentro di sé. Proprio per questo, l’analista troppo chiuso nel mondo della sua scienza, non solo non è un bravo psicoanalista, ma neppure esiste come psicoanalista: non c’è. Perché la psicoanalisi è scienza dell’uomo e l’uomo non è un’entità astratta: è sempre questo o quell’uomo, inserito in questo o quel gruppo sociale, che ha avuto queste o quelle vicende. Lo psicoanalista deve sapere imparare, quando ancora non sa, dalle esperienze dei propri pazienti. Ecco perché l’arte è quanto mai utile. Sono utili anche l’astronomia e la cibernetica: tutto giova all’analista, ma è fondamentale che egli sappia cogliere il significato dell’esperienza artistica. Non tanto perché così sarà meglio in grado di gestire analisi con pazienti artisti, conoscendone le problematiche poetiche, estetiche e tecniche e l’influsso che hanno sulla vita quotidiana, ma perché solo se sarà capace di immergersi profondamente in questo duplicato del mondo che è l’arte, saprà riconoscere questo duplicato dell’arte che è il mondo.
Non credo che sia nata prima l’arte e poi l’uomo o prima l’uomo e poi l’arte.

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L’espressione artistica è nata con l’uomo: l’uomo è un’opera d’arte, o meglio: l’uomo si esprime e si costruisce attraverso la ricerca dell’espressione artistica. Nessun gesto è privo di finalismo; non è vero – come si diceva un tempo – che i bambini prima si muovano in modo scoordinato e poi lentamente coordinino i gesti dando loro un significato e uno scopo. Ogni gesto, anche il più «istintivo», è inserito in una organizzazione teleologica; ma il fine è sempre il soddisfacimento di un piacere che già il gesto in sé tenta di realizzare; se così non fosse, non potrebbe neppure avere inizio il gesto. Il piacere del gesto è quel di più, apparentemente inutile e quindi assolutamente essenziale, che fa sì che, con quel gesto, si esprima qualcos’altro che il semplice tentativo di raggiungere lo scopo. Ogni gesto erra per un momento nell’aria, come per raccontare una storia, per dire ad un tempo ciò da cui trae origine e ciò cui tende. L’arte, allora, sarebbe «raccontare storie»? Ma che cosa è la vita umana se non una grande e tragicomica storia? Se l’arte è un gesto che racconta la vita, o meglio: che fa diventare vita il racconto, come fa la musica, che con puri suoni si articola in vicende e conosce avventure, è allora un momento di disimpegno, di piacere fine a se stesso?
Non ha senso distinguere tra piacere e piacere fine a se stesso: ogni piacere è fine a se stesso. Si potrebbe dire allora che l’arte è autocentrica, che non ha altro scopo al di fuori di sé, a differenza, ad esempio, della scienza, che tende a realizzare qualcosa che è al di fuori. ` In questo senso, la psicoanalisi – che è scienza – sarebbe quanto mai lontana dall’arte, e tutte le scienze sarebbero cose diverse e lontane dall’arte.

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L’arte, come la scienza, parte dall’uomo e ritorna all’uomo: racconta una storia verosimile, né più né meno di quanto faccia la scienza. Dov’è infatti l’obiettività della scienza, se non nell’illusione degli scienziati? L’arte inventa un mondo che, almeno per un poco, ha una sua autonoma validità: un agglomerato di suoni, colori, forme, parole e gesti che è vero, non perché imiti la realtà, ma perché ha una sua verità che permette all’uomo di capire qualcosa di se stesso, del suo presente e del suo futuro. Lo stesso fanno gli scienziati, quando parlano delle stelle e degli atomi. È vero che, ad un certo punto, le strade dell’arte e della scienza divergono: diversi interessi e diversi modi di esprimersi determinano le scelte. La psicoanalisi ha la possibilità, e il dovere, di snidare la cattiva coscienza di tutti, ma deve poi avere l’umiltà di rimettersi in riga e permettere che l’arte dica quello che lei non saprà mai dire, né dell’uomo, né del mondo. Solo se lo psicoanalista sarà così curioso da voler guardare il mondo, cercando di capire, poco o tanto, la realtà dell’arte, potrà sperare di andare oltre i limiti angusti di una piccola scienza, per diventare uomo capace di curare se stesso e di prendersi cura degli altri.

24 – Luglio ‘86

martedì, 1 luglio 1986

Rosso e Nero
L’amore degli amici è una cosa stupenda: i Farfalloni sono soltanto due, ma hanno tanti amici disposti al sacrificio. Noi cerchiamo sempre di andare al ristorante circondati dalla gente che ci è più vicina nel lavoro e nella vita, non solo perché è meraviglioso stare insieme a tavola, ma anche per un motivo molto più bieco e utilitaristico; così possiamo infatti assaggiare il maggior numero possibile di piatti, tra quelli che scegliamo per noi e quelli che imponiamo loro. Dopo l’esperienza del Rosso e Nero, la pizzeria di Via Martani, solo la grandezza d’animo delle care persone che ci stavano intorno le ha trattenute dal prenderci a schiaffi e dall’assicurarci che in certi posti è meglio che ci andiamo da soli! Abbiamo cominciato chiedendo l’aperitivo della casa e ci è stato portato, senza neppure preavvertirci, un bitter analcolico e per tutto il pasto abbiamo bevuto una insipida birra alla spina. Il primo terrificante piatto si fregiava dell’altisonante titolo di antipastissimo: salumi e prosciutti totalmente insapori, fagioli gelidi e sconditi, un triangolo di pan cassetta verde e un altro marrone il cui sapore era meglio non cercare di sentire, una terrificante insalata, forse di riso, o forse di pollo, o forse ancora di riso e pollo. In mezzo al piatto ovale un bel fico, sbucciato e spaccato a formare un fiore. Poi sono venute le pizze: sul disco secco di pasta pallida e con la consistenza della scorza d’albero, i vari intrugli che corrispondevano alle diverse possibilità della lista: Vesuvio, napoletana, povera, della casa, etc.. Sarebbe impietoso descriverle una per una.
Il conto si è tenuto sui livelli consueti.

Acropolis
Noi ci rammarichiamo spesso su queste pagine che la ristorazione spoletina offra un panorama che sfiora la monotonia: sempre crostini al tartufo, strangozzi e misti alla brace; per cui ci siamo accostati con entusiasmo e disposti anche all’indulgenza – sentimento raro per i due Farfalloni – alla cucina del ristorante Acropolis, nella frazione di Uncinano su una delle belle colline intorno a Spoleto. Come si può intuire dal nome del locale, messo in posizione suggestiva, si tratta di una cucina soprattutto greca, e noi siamo amanti della Grecia, antica e moderna. Allietati dalle note un po’ ovvie di un sirtaki sentivamo anche la gentile signora che ci proponeva i tipici nomi delle specialità greche che per lo più già conoscevamo e che siamo soliti apprezzare quando sono ben fatte. Ma fin dal primo boccone abbiamo rimpianto gli strangozzi perduti. L’antipasto miserello – quasi avanzo di banchetto nuziale – era composto di vol au vent con insalata russa (sic!), tartine,di pan cassetta rinsecchito, con tonno e con tarama, ma appena velate, dolmades troppo simili a quelle che si trovano nelle boutiques gastronomiche confezionate in più o meno eleganti scatole e scatolette. Le tiròpita erano sfogliatelle vetrose, rivuote, anziché ripiene, di cattivo formaggio indecifrabile; arrivarono poi inattesi e strani wurstel avvolti in una pastella troppo fritta, polpette di carne rinsecchite, più barbare che greche; una mossakà indecente senza nessuna consistenza, e poi i souvlaki, spiedini di carne dolciastra accompagnati da patate pre-fritte. Per dolce ci venne offerta la baklavà, ma la sfogliatella al miele e pistacchi si appiccicava al palato e alle dita. Da bere ci fu proposta una gran varietà di bianchi e rossi in caraffa e in bottiglia, ma nessuno risultò bevibile. Cattiva persino la Metaxa. Il conto non ci è sembrato poi tanto basso. Non sono infortuni come questo che basteranno a disamorarci della Grecia e della sua cucina.

Antica Trattoria del Quarto
Il giardino interno e una certa discrezione nell’aspetto invitano a entrare all’ Antica trattoria del Quarto, in via C. Cattaneo 1 (Piazza Collicola), condotta da nuovi gestori dall’aprile scorso. La seconda impressione, in sala, lascia sospesi tra il piacere di trovarsi in un ambiente raccolto e il disagio di un soffocante grigiore. La cucina qui è pretenziosa, senza però essere all’altezza di quel che pretende, per cui all’avventore vien voglia di domandarsi perché non la smettano di giocare ai «grandi cuochi». Quando ci siamo stati gli unici due piatti mangiabili -anzi decisamente gradevoli- erano due preparazioni di strangozzi: una alla spoletina, col sugo fresco e profumato di pomodoro ed erbe, l’altra al tartufo, delicata e gustosa, entrambe dalla perfetta cottura. Gradevole anche, a fine pasto, la crescionda. Ma non appena si usciva dai binari, tutto il resto diventava irritante e sgradevole per il palato. L’antipasto misto, dall’aspetto invitante, era però composto da: una mousse acidula ed evanescente, un salato e cattivo crostino alle olive, una triste e insapore insalata di riso, i soliti carciofini, e non bastavano a salvare il piatto la bruschetta fragrante e i croccanti bocconcini di fonduta fritta. Presuntuoso e disastroso il risotto all’arancia: il sapore del frutto non legava col forte del formaggio, dando una sensazione di contrasto tra dolce e rancido e c’era una quantità di panna spaventosa. Né le cose andavano meglio con i secondi piatti: lo spiedino misto e i fagotti alla Valnerina erano deplorevoli prodotti di pessima rosticceria, come l’agliatissimo e misero filetto alla brace. Lo chef ha raggiunto il grottesco con un filetto al pepe verde che era una vera e propria fetta di torta per gli sposi, fiammeggiata al Glen Grant, la cui buona carne era sommersa da una montagna di panna su cui risplendevano come confetti i grani di pepe.
Per dessert ci è poi stata imposta una vera e propria burla: fragole al pepe verde, preparate proprio come il filetto! Avevamo incominciato a bere un gradevole ed equilibrato vino bianco della casa, poi ci è capitato un Castel Grifone di Lungarotti dell’85: un liquido sgraziato con un forte sapore di caramella alla fragola; abbiamo concluso con un rosso S. Giorgio del 1979, disarmonico e pesante. Il prezzo anche in tempi che non erano di Festival tendeva all’alto. «La moglie stanca??!! Ma benone! C’è sempre il Quarto a disposizione!» dice una scritta pubblicitaria del locale; ma noi vi consigliamo di rimanere in casa.

Da Arnalda
Abbiamo sempre la speranza che l’aria dimessa e un po’ scostante di certi posti «rustici» nasconda tesori di gastronomia. Così ci siamo fermati Da Arnalda, in via Cesare Beccaria 1, un posto un po’ fuori mano. Oltre il cortiletto ghiaioso ci sono le due stanze del ristorante ai cui tavoli bada una signora dai modi piuttosto sbrigatavi, ma questa volta non abbiamo trovato nessun tesoro nascosto, anzi! Le penne agli asparagi erano scotte e troppo piccanti, per cui andava completamente perduto il delicato sapore degli asparagi selvatici; i ravioli di patate al ragù erano avviliti dal sugo stantio e dall’eccesso di formaggio; la pasta corta alla Cornelia era, manco a dirlo, a base di panna, piselli e funghi, così banale da farci sorridere. Non abbiamo sorriso però davanti alle pelli bruciacchiate delle trote mal arrostite, perché dentro la pelle non si trovava la trota; il baccalà in umido non aveva sapore, ma è stato servito così caldo che scottava il palato. Carciofi spappolati e viscidi e rivoltanti fagioli sconditi erano i tristi contorni. I dessert erano i soliti «prefabbricati». Eravamo abbastanza abbattuti per quello che ci toccava mangiare: per fortuna ci ha confortato per tutto il pasto un ottimo Grechetto dell’Umbria di Montefalco, del 1984, un vino a indicazione geografica, dal profumo di uva spina e con un felice connubio di acido e salato. Il conto ci è parso contenuto, ma non era ancora tempo di Festival.

Tre Fontane
Abbastanza vicino al Teatro Romano, in una strada nascosta, al 15 di via Egio, oltre un bell’arco con la volta in mattoni, c’è il ristorante pizzeria Tre Fontane, con un bel giardino dove è piacevole sedere in estate. Parliamo subito di quello che propone la cucina: una scelta abbastanza vasta tra piatti di pizzeria e di ristorante. La prima sezione sforna pizze dalla pasta croccante condite con ingredienti freschi e gustosi. I piatti del ristorante sono invece un disastro totale. Ci rincresce dirlo, perché ci siamo trovati ad avere a che fare con persone simpatiche, seppure un po’ arruffone! Dal forno della pizzeria ci è dapprima arrivata una buona focaccia al rosmarino, con un tenero e dolce prosciutto; ma fin dai primi, la musica è cambiata: il risotto ai funghi porcini faceva sentire solo la cipolla e la qualità del riso non era quella giusta, per cui risultava a «pallocchette»: gli strangozzi alla spoletina avevano il sugo di un’arrabbiata troppo diluito da un acquoso pomodoro; le penne pasticciate, con la panna, erano squilibratissime, con una prevalenza fastidiosa di dolciastro e di acido; il misto di carni alla griglia rinsecchito da far paura, l’agnello alla spoletina era indistinguibile dalle carni della grigliata, le scaloppine alle Tre Fontane, pur essendo preparate con una salsa gustosa erano poco apprezzabili, perché la carne era troppo fresca e quindi gommosissima. La cantina aveva un vasto assortimento di vini, ma che sembravano mal tenuti e poco conosciuti agli stessi gestori: vini di pregio che abbiamo scovato da soli, mischiati a vini qualunque, annate recenti e annate troppo vecchie, alla rinfusa; abbiamo bevuto: come aperitivo un gassosissimo Chardonnay Borgovilla, senza sapore; quindi un bianco della casa veramente buono, fresco e profumato, e poi il, da noi amato, Grechetto della Rocca dei Fabbri, finendo con un buon Cabernet del Collio, Rosade Furlan, profumato di erbe e peperone verde. Ci hanno fatto notare che il tiramisù era casalingo, ed infatti era semplice e ingenuo.
Il conto era entro limiti ragionevoli e accompagnato da una finale generosa offerta di superalcolici ed amari. Per farci dimenticare?

La Mangiatoia
Sono molti i bei posti sulle colline intorno a Spoleto. Il ristorante La Mangiatoia a Petrognano di Spoleto si può raggiungere in pochi minuti di automobile per una strada che sale dolcemente. Di notte, il luogo ha un’aria appartata e in questa stagione è bello mangiare sulla terrazza che guarda la pianura sottostante. Siamo stati accolti e serviti da un giovane uomo con l’aria cortese ed attenta. Eravamo poco disposti all’indulgenza, perché avevamo appena visto «La signorina Giulia» di Strindberg, che, come potrete leggere su questa stessa rivista non ci era piaciuta per niente. La lista dei piatti era molto variata e comprendeva una scelta di carni e pesci; la cosa ci ha favorevolmente colpito, anche se, data l’ora tarda in cui siamo arrivati, dopo l’ennesimo spettacolo, abbiamo preferito chiedere quelli che risultavano essere i piatti del giorno, per non creare in cucina troppo trambusto. Cominciò la bella sorpresa degli antipasti: crostini al tartufo, fatti a regola d’arte, profumati di buon olio e con una buona dose del tubero, che, seppur scorzone, era profumato e sapido; gradevoli anche i crostini di caccia. Gli strangozzi alla boscaiola, con asparagi, pomodoro, aglio ed olive, erano cotti al punto giusto e il sugo era saporito, ma forse un po’ lento; le tagliatelle alla Mangiatoia erano buone, le avremmo giudicate addirittura ottime, se non fosse stato per la presenza, insieme con la salsiccia, della panna che pur molto contenuta, spegneva un po’ la vivacità del sugo. I secondi erano tutti davvero eccellenti: vitello arrosto con tartufo, dalla buona carne condita senza avarizia, e così anche il coniglio, ugualmente al tartufo; gustosi la faraona alla leccarda e l’agnello alla cacciatora, dai sapori ricchi e fragranti; le melanzane e le zucchine gratinate, dal buon ripieno, erano rimaste però un po’ troppo nel forno. Abbiamo bevuto prima un Trebbiano della Cantina sociale di Spoleto dell’ultima vendemmia: lo consigliamo a tutti perché molto più «vispo» di quello dell’anno precedente, beninteso che più indietro negli anni non si dovrebbe comunque mai andare con questi vini bianchi. Poi il solito Rosso di Montefalco, imperversante da queste parti, ma buono.
Al momento del dessert siamo stati preavvisati che la scelta era tra alcune preparazioni industriali; così ci siamo accontentati di un liquorino.
Il conto è stato veramente basso: avevamo dimenticato la signorina Giulia.

La Casetta
Al Km. 122 della via Flaminia a «tre minuti da Spoleto» c’è La Casetta, ristorante di cucina spoletina che afferma di avere tartufo tutto l’anno e vanta come specialità il cinghiale. C’è il parcheggio, il giardino con veranda e l’interno è un accogliente ambiente rustico, con molto legno e quadri pretenziosi alle pareti. Vale però la pena di subire lo strazio di una cena che si può solo definire col banale aggettivo «cattivissima» per bere un umile, ma simpatico rosso in caraffa? Sostengono di produrlo direttamente con le uve delle loro vigne di Montefalco: Aleatico, Merlot…ma lo dicono con aria un po’ imbarazzata.
Come aperitivo, avevamo prima apprezzato un dignitoso Bianco d’Arquata di Adanti, dal buon profumo e ricco di sfumature.
Quella sera eravamo di buon umore; il Festival era lì lì per iniziare e volevamo a tutti i costi mangiare bene. Abbiamo fatto sforzi erculei per convincerci che gli antipasti fossero mangiabili, che la poltiglia di tartufo non fosse quella solita che infesta troppi ristoranti dell’Umbria, che la crema di olive non
fosse di barattolo e che il paté avesse per antenata un’oca di Strasburgo; ma ora dobbiamo proprio confessarlo: quegli antipasti erano quanto di più squallido e miserevole un commensale possa augurarsi per aprire un pasto.
Gli gnocchetti verdi al ragù sembravano medaglioncini di «pongo», su cui ovviamente nessun sugo avrebbe potuto «prendere»: meglio così, perché quell’acquetta almeno è rimasta tutta in fondo al piatto; sia i maccheroni fatti in casa, al sugo di rigaglie, sia gli strangozzi alla spoletina, avevano la pasta ben fatta ma tradita dai sughi insipidi e lenti. Il cinghiale è una specialità, forse nel senso che qui è cucinato in modo specialmente orrendo, tant’è che i bocconcini erano grumi di carne gommosa e nient’altro; l’arista, sebbene non fosse del tutto sgradevole, era ricavata da una parte non appropriata dell’animale e l’abbacchio a scottadito era rancido; sopportabile c’è parsa invece una frittata di cipolle. La crescionda e il tiramísù erano dilettanteschi.
Il prezzo decisamente alto. L’allegria ci tornò soltanto quando risentimmo l’eco dei nostri passi in Piazza del Duomo.

24 – Luglio ‘86

martedì, 1 luglio 1986

Acchiappafarfalle

Il compito di scrivere ogni anno quello che dovrebbe essere il «cappello» ai due numeri che PSICOANALISI CONTRO dedica a Spoleto e al Festival dei Due Mondi comporta qualche difficoltà. Volendo allontanare da queste pagine il sospetto dell’adulazione e non essendo nelle intenzioni di denigrare nulla e nessuno, si viene a creare per i Farfalloni una situazione strana: di chi intende guadagnarsi il rispetto del maggior numero possibile di persone, operando nel massimo rispetto degli altri e di se stessi.
Le voci che si levano da Spoleto e intorno a Spoleto, a favore o contro la grossa impresa culturale che vede nel Festival il momento più esaltante – ed esaltato -, sono così numerose e fanno tanto rumore che il rischio, per alcuni, è di non essere uditi. Gli orecchi degli esseri umani sono infatti abituati ad operare una selezione dei suoni circostanti, in base a criteri di interesse che variano e si adattano alle condizioni specifiche. Gli spoletini e gli ospiti di Spoleto hanno orecchi molto sensibili – soprattutto in questi giorni – e la sensibilità è direttamente proporzionale alla «importanza» delle fonti del suono: il flatus votis, appena bisbigliato, di uno può così riuscire a varcare soglie uditive altissime, mentre lo strepito di altri non riuscirà a superare i più
bassi livelli.
I due Farfalloni hanno capito il gioco e per questo si danno molta «importanza», ma hanno anche capito che, quando il potere non è molto, è importante guadagnarselo. C’è un potere che è semplicemente acquistabile: i Farfalloni non hanno però denaro abbastanza per comperare di questa merce. C’è inoltre il potere che si acquista per delega di altri, e anche in questo caso i Farfalloni non possono vantare deleghe importanti. C’è ancora il potere che si può acquisire attraverso il ricatto: i Farfalloni non hanno intenzione di farvi ricorso, non soltanto perché sono gentiluomini, ma anche perché sanno che i ricattatori sono, a loro volta, facilmente ricattabili. Non resta, a, questo punto, ai due Farfalloni, che costruirsi, ritagliarsi e inventarsi gli spazi in cui l’eco delle loro voci possa essere percepita.
Dopo tre anni, si può dire che un poco di spazio è stato ricavato – troppo poco per qualcuno, troppo per alcuni altri -. Certo, se ne potrebbe ricavare di più, se si derogasse alla regola-base del rispetto, ma i Farfalloni sono molto rispettosi di tutti quanti e rispettosissimi di sé.
Rispetto che qualche animo piccino vuole scambiare per timore e che i magnanimi vogliono considerare con benevola condiscendenza. Entrambi gli atteggiamenti sono inevitabili – almeno per ora – e i Farfalloni, benché siano molto permalosi, non se la prendono più di tanto: sanno infatti che il mondo è pieno di «acchiappafarfalle».