24 – Luglio ‘86

luglio , 1986

Rosso e Nero
L’amore degli amici è una cosa stupenda: i Farfalloni sono soltanto due, ma hanno tanti amici disposti al sacrificio. Noi cerchiamo sempre di andare al ristorante circondati dalla gente che ci è più vicina nel lavoro e nella vita, non solo perché è meraviglioso stare insieme a tavola, ma anche per un motivo molto più bieco e utilitaristico; così possiamo infatti assaggiare il maggior numero possibile di piatti, tra quelli che scegliamo per noi e quelli che imponiamo loro. Dopo l’esperienza del Rosso e Nero, la pizzeria di Via Martani, solo la grandezza d’animo delle care persone che ci stavano intorno le ha trattenute dal prenderci a schiaffi e dall’assicurarci che in certi posti è meglio che ci andiamo da soli! Abbiamo cominciato chiedendo l’aperitivo della casa e ci è stato portato, senza neppure preavvertirci, un bitter analcolico e per tutto il pasto abbiamo bevuto una insipida birra alla spina. Il primo terrificante piatto si fregiava dell’altisonante titolo di antipastissimo: salumi e prosciutti totalmente insapori, fagioli gelidi e sconditi, un triangolo di pan cassetta verde e un altro marrone il cui sapore era meglio non cercare di sentire, una terrificante insalata, forse di riso, o forse di pollo, o forse ancora di riso e pollo. In mezzo al piatto ovale un bel fico, sbucciato e spaccato a formare un fiore. Poi sono venute le pizze: sul disco secco di pasta pallida e con la consistenza della scorza d’albero, i vari intrugli che corrispondevano alle diverse possibilità della lista: Vesuvio, napoletana, povera, della casa, etc.. Sarebbe impietoso descriverle una per una.
Il conto si è tenuto sui livelli consueti.

Acropolis
Noi ci rammarichiamo spesso su queste pagine che la ristorazione spoletina offra un panorama che sfiora la monotonia: sempre crostini al tartufo, strangozzi e misti alla brace; per cui ci siamo accostati con entusiasmo e disposti anche all’indulgenza – sentimento raro per i due Farfalloni – alla cucina del ristorante Acropolis, nella frazione di Uncinano su una delle belle colline intorno a Spoleto. Come si può intuire dal nome del locale, messo in posizione suggestiva, si tratta di una cucina soprattutto greca, e noi siamo amanti della Grecia, antica e moderna. Allietati dalle note un po’ ovvie di un sirtaki sentivamo anche la gentile signora che ci proponeva i tipici nomi delle specialità greche che per lo più già conoscevamo e che siamo soliti apprezzare quando sono ben fatte. Ma fin dal primo boccone abbiamo rimpianto gli strangozzi perduti. L’antipasto miserello – quasi avanzo di banchetto nuziale – era composto di vol au vent con insalata russa (sic!), tartine,di pan cassetta rinsecchito, con tonno e con tarama, ma appena velate, dolmades troppo simili a quelle che si trovano nelle boutiques gastronomiche confezionate in più o meno eleganti scatole e scatolette. Le tiròpita erano sfogliatelle vetrose, rivuote, anziché ripiene, di cattivo formaggio indecifrabile; arrivarono poi inattesi e strani wurstel avvolti in una pastella troppo fritta, polpette di carne rinsecchite, più barbare che greche; una mossakà indecente senza nessuna consistenza, e poi i souvlaki, spiedini di carne dolciastra accompagnati da patate pre-fritte. Per dolce ci venne offerta la baklavà, ma la sfogliatella al miele e pistacchi si appiccicava al palato e alle dita. Da bere ci fu proposta una gran varietà di bianchi e rossi in caraffa e in bottiglia, ma nessuno risultò bevibile. Cattiva persino la Metaxa. Il conto non ci è sembrato poi tanto basso. Non sono infortuni come questo che basteranno a disamorarci della Grecia e della sua cucina.

Antica Trattoria del Quarto
Il giardino interno e una certa discrezione nell’aspetto invitano a entrare all’ Antica trattoria del Quarto, in via C. Cattaneo 1 (Piazza Collicola), condotta da nuovi gestori dall’aprile scorso. La seconda impressione, in sala, lascia sospesi tra il piacere di trovarsi in un ambiente raccolto e il disagio di un soffocante grigiore. La cucina qui è pretenziosa, senza però essere all’altezza di quel che pretende, per cui all’avventore vien voglia di domandarsi perché non la smettano di giocare ai «grandi cuochi». Quando ci siamo stati gli unici due piatti mangiabili -anzi decisamente gradevoli- erano due preparazioni di strangozzi: una alla spoletina, col sugo fresco e profumato di pomodoro ed erbe, l’altra al tartufo, delicata e gustosa, entrambe dalla perfetta cottura. Gradevole anche, a fine pasto, la crescionda. Ma non appena si usciva dai binari, tutto il resto diventava irritante e sgradevole per il palato. L’antipasto misto, dall’aspetto invitante, era però composto da: una mousse acidula ed evanescente, un salato e cattivo crostino alle olive, una triste e insapore insalata di riso, i soliti carciofini, e non bastavano a salvare il piatto la bruschetta fragrante e i croccanti bocconcini di fonduta fritta. Presuntuoso e disastroso il risotto all’arancia: il sapore del frutto non legava col forte del formaggio, dando una sensazione di contrasto tra dolce e rancido e c’era una quantità di panna spaventosa. Né le cose andavano meglio con i secondi piatti: lo spiedino misto e i fagotti alla Valnerina erano deplorevoli prodotti di pessima rosticceria, come l’agliatissimo e misero filetto alla brace. Lo chef ha raggiunto il grottesco con un filetto al pepe verde che era una vera e propria fetta di torta per gli sposi, fiammeggiata al Glen Grant, la cui buona carne era sommersa da una montagna di panna su cui risplendevano come confetti i grani di pepe.
Per dessert ci è poi stata imposta una vera e propria burla: fragole al pepe verde, preparate proprio come il filetto! Avevamo incominciato a bere un gradevole ed equilibrato vino bianco della casa, poi ci è capitato un Castel Grifone di Lungarotti dell’85: un liquido sgraziato con un forte sapore di caramella alla fragola; abbiamo concluso con un rosso S. Giorgio del 1979, disarmonico e pesante. Il prezzo anche in tempi che non erano di Festival tendeva all’alto. «La moglie stanca??!! Ma benone! C’è sempre il Quarto a disposizione!» dice una scritta pubblicitaria del locale; ma noi vi consigliamo di rimanere in casa.

Da Arnalda
Abbiamo sempre la speranza che l’aria dimessa e un po’ scostante di certi posti «rustici» nasconda tesori di gastronomia. Così ci siamo fermati Da Arnalda, in via Cesare Beccaria 1, un posto un po’ fuori mano. Oltre il cortiletto ghiaioso ci sono le due stanze del ristorante ai cui tavoli bada una signora dai modi piuttosto sbrigatavi, ma questa volta non abbiamo trovato nessun tesoro nascosto, anzi! Le penne agli asparagi erano scotte e troppo piccanti, per cui andava completamente perduto il delicato sapore degli asparagi selvatici; i ravioli di patate al ragù erano avviliti dal sugo stantio e dall’eccesso di formaggio; la pasta corta alla Cornelia era, manco a dirlo, a base di panna, piselli e funghi, così banale da farci sorridere. Non abbiamo sorriso però davanti alle pelli bruciacchiate delle trote mal arrostite, perché dentro la pelle non si trovava la trota; il baccalà in umido non aveva sapore, ma è stato servito così caldo che scottava il palato. Carciofi spappolati e viscidi e rivoltanti fagioli sconditi erano i tristi contorni. I dessert erano i soliti «prefabbricati». Eravamo abbastanza abbattuti per quello che ci toccava mangiare: per fortuna ci ha confortato per tutto il pasto un ottimo Grechetto dell’Umbria di Montefalco, del 1984, un vino a indicazione geografica, dal profumo di uva spina e con un felice connubio di acido e salato. Il conto ci è parso contenuto, ma non era ancora tempo di Festival.

Tre Fontane
Abbastanza vicino al Teatro Romano, in una strada nascosta, al 15 di via Egio, oltre un bell’arco con la volta in mattoni, c’è il ristorante pizzeria Tre Fontane, con un bel giardino dove è piacevole sedere in estate. Parliamo subito di quello che propone la cucina: una scelta abbastanza vasta tra piatti di pizzeria e di ristorante. La prima sezione sforna pizze dalla pasta croccante condite con ingredienti freschi e gustosi. I piatti del ristorante sono invece un disastro totale. Ci rincresce dirlo, perché ci siamo trovati ad avere a che fare con persone simpatiche, seppure un po’ arruffone! Dal forno della pizzeria ci è dapprima arrivata una buona focaccia al rosmarino, con un tenero e dolce prosciutto; ma fin dai primi, la musica è cambiata: il risotto ai funghi porcini faceva sentire solo la cipolla e la qualità del riso non era quella giusta, per cui risultava a «pallocchette»: gli strangozzi alla spoletina avevano il sugo di un’arrabbiata troppo diluito da un acquoso pomodoro; le penne pasticciate, con la panna, erano squilibratissime, con una prevalenza fastidiosa di dolciastro e di acido; il misto di carni alla griglia rinsecchito da far paura, l’agnello alla spoletina era indistinguibile dalle carni della grigliata, le scaloppine alle Tre Fontane, pur essendo preparate con una salsa gustosa erano poco apprezzabili, perché la carne era troppo fresca e quindi gommosissima. La cantina aveva un vasto assortimento di vini, ma che sembravano mal tenuti e poco conosciuti agli stessi gestori: vini di pregio che abbiamo scovato da soli, mischiati a vini qualunque, annate recenti e annate troppo vecchie, alla rinfusa; abbiamo bevuto: come aperitivo un gassosissimo Chardonnay Borgovilla, senza sapore; quindi un bianco della casa veramente buono, fresco e profumato, e poi il, da noi amato, Grechetto della Rocca dei Fabbri, finendo con un buon Cabernet del Collio, Rosade Furlan, profumato di erbe e peperone verde. Ci hanno fatto notare che il tiramisù era casalingo, ed infatti era semplice e ingenuo.
Il conto era entro limiti ragionevoli e accompagnato da una finale generosa offerta di superalcolici ed amari. Per farci dimenticare?

La Mangiatoia
Sono molti i bei posti sulle colline intorno a Spoleto. Il ristorante La Mangiatoia a Petrognano di Spoleto si può raggiungere in pochi minuti di automobile per una strada che sale dolcemente. Di notte, il luogo ha un’aria appartata e in questa stagione è bello mangiare sulla terrazza che guarda la pianura sottostante. Siamo stati accolti e serviti da un giovane uomo con l’aria cortese ed attenta. Eravamo poco disposti all’indulgenza, perché avevamo appena visto «La signorina Giulia» di Strindberg, che, come potrete leggere su questa stessa rivista non ci era piaciuta per niente. La lista dei piatti era molto variata e comprendeva una scelta di carni e pesci; la cosa ci ha favorevolmente colpito, anche se, data l’ora tarda in cui siamo arrivati, dopo l’ennesimo spettacolo, abbiamo preferito chiedere quelli che risultavano essere i piatti del giorno, per non creare in cucina troppo trambusto. Cominciò la bella sorpresa degli antipasti: crostini al tartufo, fatti a regola d’arte, profumati di buon olio e con una buona dose del tubero, che, seppur scorzone, era profumato e sapido; gradevoli anche i crostini di caccia. Gli strangozzi alla boscaiola, con asparagi, pomodoro, aglio ed olive, erano cotti al punto giusto e il sugo era saporito, ma forse un po’ lento; le tagliatelle alla Mangiatoia erano buone, le avremmo giudicate addirittura ottime, se non fosse stato per la presenza, insieme con la salsiccia, della panna che pur molto contenuta, spegneva un po’ la vivacità del sugo. I secondi erano tutti davvero eccellenti: vitello arrosto con tartufo, dalla buona carne condita senza avarizia, e così anche il coniglio, ugualmente al tartufo; gustosi la faraona alla leccarda e l’agnello alla cacciatora, dai sapori ricchi e fragranti; le melanzane e le zucchine gratinate, dal buon ripieno, erano rimaste però un po’ troppo nel forno. Abbiamo bevuto prima un Trebbiano della Cantina sociale di Spoleto dell’ultima vendemmia: lo consigliamo a tutti perché molto più «vispo» di quello dell’anno precedente, beninteso che più indietro negli anni non si dovrebbe comunque mai andare con questi vini bianchi. Poi il solito Rosso di Montefalco, imperversante da queste parti, ma buono.
Al momento del dessert siamo stati preavvisati che la scelta era tra alcune preparazioni industriali; così ci siamo accontentati di un liquorino.
Il conto è stato veramente basso: avevamo dimenticato la signorina Giulia.

La Casetta
Al Km. 122 della via Flaminia a «tre minuti da Spoleto» c’è La Casetta, ristorante di cucina spoletina che afferma di avere tartufo tutto l’anno e vanta come specialità il cinghiale. C’è il parcheggio, il giardino con veranda e l’interno è un accogliente ambiente rustico, con molto legno e quadri pretenziosi alle pareti. Vale però la pena di subire lo strazio di una cena che si può solo definire col banale aggettivo «cattivissima» per bere un umile, ma simpatico rosso in caraffa? Sostengono di produrlo direttamente con le uve delle loro vigne di Montefalco: Aleatico, Merlot…ma lo dicono con aria un po’ imbarazzata.
Come aperitivo, avevamo prima apprezzato un dignitoso Bianco d’Arquata di Adanti, dal buon profumo e ricco di sfumature.
Quella sera eravamo di buon umore; il Festival era lì lì per iniziare e volevamo a tutti i costi mangiare bene. Abbiamo fatto sforzi erculei per convincerci che gli antipasti fossero mangiabili, che la poltiglia di tartufo non fosse quella solita che infesta troppi ristoranti dell’Umbria, che la crema di olive non
fosse di barattolo e che il paté avesse per antenata un’oca di Strasburgo; ma ora dobbiamo proprio confessarlo: quegli antipasti erano quanto di più squallido e miserevole un commensale possa augurarsi per aprire un pasto.
Gli gnocchetti verdi al ragù sembravano medaglioncini di «pongo», su cui ovviamente nessun sugo avrebbe potuto «prendere»: meglio così, perché quell’acquetta almeno è rimasta tutta in fondo al piatto; sia i maccheroni fatti in casa, al sugo di rigaglie, sia gli strangozzi alla spoletina, avevano la pasta ben fatta ma tradita dai sughi insipidi e lenti. Il cinghiale è una specialità, forse nel senso che qui è cucinato in modo specialmente orrendo, tant’è che i bocconcini erano grumi di carne gommosa e nient’altro; l’arista, sebbene non fosse del tutto sgradevole, era ricavata da una parte non appropriata dell’animale e l’abbacchio a scottadito era rancido; sopportabile c’è parsa invece una frittata di cipolle. La crescionda e il tiramísù erano dilettanteschi.
Il prezzo decisamente alto. L’allegria ci tornò soltanto quando risentimmo l’eco dei nostri passi in Piazza del Duomo.