Archivio di agosto 1984

Psicoanalisi contro n. 6 – Il giudizio universale

mercoledì, 1 agosto 1984

Il concetto di sublimazione è un concetto soltanto apparentemente semplice. All’interno dei pensiero freudiano ha una collocazione precisa ed è organico e coerente con quel sistema teorico nel suo complesso: la pulsione sessuale non si dirigerebbe sempre e direttamente verso la propria soddisfazione, ma si trasformerebbe, spesso, fornendo così l’energia sufficiente alla realizzazione delle attività più importanti per la società civile: l’arte, la scienza. L’energia sessuale, incanalata in queste attività, sarebbe soprattutto quella perversa, cioè quella che più massicciamente viene repressa, o meglio, rimossa tramite l’educazione. I desideri perversi non sono anomalie di una personalità malata, ma sono presenti in tutti, dice S. Freud, fin dai primi istanti di vita. Due tendenze, una interna all’individuo e l’altra esterna, contribuiscono durante l’infanzia e la prima adolescenza, a costruire l’essere umano psichicamente sano; la pulsione sessuale, dall’interno, nella sua ricerca di soddisfazione, lentamente, supera ostacoli, trova modi e oggetti per sfogarsi secondo natura; l’educazione e i precetti sociali, dall’esterno, contribuiscono a far sì che tutto questo avvenga e non è dato di sapere quale tra le istanze sia la più importante. Il concetto di sublimazione descriverebbe ed espliciterebbe l’uso che l’evoluzione naturale e i condizionamenti sociali fanno del di più di energia sessuale che rimane inespressa.
Che in tutte le attività umane e quindi anche nella produzione artistica e scientifica sia palesemente presente il desiderio sessuale sembra così evidente da non richiedere nessuna dimostrazione. Il concetto di sublimazione sembrerebbe perciò quanto mai ovvio e consequenziale alla teoria freudiana; in realtà, così come lo ha enunciato S. Freud e collocato nel suo pur geniale pensiero, è un concetto o inutile, pleonastico, o addirittura antieconomico; è inutile in quanto non spiega nulla, antieconomico perché pone una serie di problemi irrisolvibili che si affollano, rendendo eccessivamente complicato ed oscuro il concetto stesso di sessualità. Questo è il destino di ogni sistematizzazione teorica, che quanto più è coerente, tanto più vede affollarsi attorno le contraddizioni e scagliarsi contro una varietà di concetti oscuri. Da quando esistono scienza e filosofia nessuno è ancora riuscito a produrre una teoria organica e coerente non solo nei confronti del mondo esterno, ma neppure nel proprio interno. Allora i casi sono due: o si smette di elaborare teorie oppure si accetta questo dato di fatto. L’esaltazione della contraddizione come elemento vivificatone è giusta e mortifera allo stesso tempo. Giusta in quanto esprime l’accettazione della vita, così com’è, nonostante tutto; mortifera perché contraddice questa stessa accettazione, disorientando l’essere umano che, nel suo vivere, nonostante tutto, vuole capire ed avere punti di riferimento.

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Il concetto di sublimazione è però più pericoloso e contraddittorio di altri, anche all’interno del pensiero freudiano; perché impoverisce, rendendola praticamente incomprensibile, la pulsione sessuale e ancor più impoverisce queste due attività umane già sufficientemente ambigue che sono l’arte e la scienza. Freud ha sempre contrapposto alla pulsione sessuale un altro tipo di pulsione: in una prima teorizzazione vi ha contrapposto la pulsione dell’io e di autoconservazione, in una seconda teorizzazione vi ha contrapposto la pulsione di morte che opponendosi alla pulsione di vita si contrappone anche alla sessualità che di quest’ultima fa parte. La pulsione è energia dice Freud e questa energia dalla natura e dall’educazione deve essere in qualche modo, incanalata, guidata e manipolata. Non soltanto i desideri sessuali vengono in parte rimossi e deviati: anche altre energie pulsionali non sessuali non sempre trovano il loro soddisfacimento immediato, ad esempio, un desiderio di cibo prolungatamente frustrato o una pulsione aggressiva inibita come trasformano la loro carica energetica? Di ciò non si parla. Se l’arte e la scienza si caricassero anche di questa energia diverrebbero una specie di polveriera pericolosamente instabile, ma nonostante tutto non si capisce perché sia proprio il desiderio sessuale stesso a defluire nell’arte, nella scienza. Dietro a tutto, inoltre, viene dato per scontato ciò che scontato non e, cioè che l’arte e la filosofia siano le due attività superiori del vivere civile quasi fossero le uniche. Ma allora la sessualità che cosa è? La terza tra le attività superiori dell’essere umano? Oppure non è altro che una penosa necessità? Anche sul genio dei grande viennese pesano millenni di repressione sessuale.
Senza dubbio pesano, come pesano su di me che scrivo e su voi che leggete. Queste contraddizioni però sono eccessive, sia perché antieconomiche e sia perché esprimono una profonda e spaurita difesa nei confronti della sessualità. La psicoanalisi e non soltanto quella freudiana, in genere, ha avuto sempre due spauracchi: la biochimica, la farmacologia, la psicofarmacologia da un lato e l’arte dall’altro. Il primo fa paura perché umilia il desiderio di onnipotenza della psicoanalisi insinuando che la psiche potrebbe essere controllata anche da elementi chimici che talvolta sortiscono effetti più rapidi e immediati della parola illuminante dello psicoanalista. Perciò la psicoanalisi ha scelto di negare questo tipo di intervento; non ha scelto di contestarne la validità che pur sarebbe segno di un atteggiamento vitale nei confronti del problema ma di negarne l’esistenza. La psicoanalisi lascia che gli interventi farmacologici siano gestiti dagli psichiatri, visti o come alchimisti o come pazzi irresponsabili. Il secondo spauracchio, l’arte, disorienta del tutto per un motivo molto semplice: è troppo simile alla psicoanalisi. E allora se l’arte è così simile alla psicoanalisi, la psicoanalisi può non essere una scienza e si troverebbe a braccetto con l’impalpabile assurdità della poesia e della musica, della pittura ed del teatro; e gli psicoanalisti sarebbero troppo simili a quegli stravaganti esseri chiamati artisti; grandi magari, ma tutti leggermente squilibrati. Lo psicoanalista deve capire l’artista e l’artista non ha bisogno di capire, deve accettare di farsi capire. Come sono stupidi gli scienziati. Quando vogliono essere scienziati! Io sono uno psicoanalista e sono anche un artista; non sono però uno psicoanalista – artista o un artista-psicoanalista: sono scisso? No: sono una cosa e l’altra. Sono più artista o più psicoanalista? Questo proprio non mi interessa. Mi sono chiesto spesso se sono un bravo artista o un bravo psicoanalista. Queste sono domande che mi fanno paura. Credo, però. che un essere umano si debba sempre chiedere se fa bene quello che fa.
Non voglio riportare qui il caso di una persona che fa analisi con me; voglio, un po’ esibizionisticamente parlare di me. Io mi ritengo un artista che sa fare il suo mestiere: lavoro con cura alle mie opere, una attenta cura artigianale. Io non so che cosa sia l’ispirazione, o forse non voglio saperlo. Io sono una persona entusiasta di tutto quello che fa e non solo quando fa l’artista. Certo, ci sono momenti in cui mi sembra che le cose mi riescano meglio; non so quando mi riescono meglio, se di giorno o di notte, se in città o in campagna, quando sono allegro o triste, sobrio o ubriaco. So soltanto che quando sono profondamente innamorato e l’amore riesce ad avvolgermi in un’intensa attività sessuale lavoro meglio come artista; capisco di più gli altri, me, il mondo, e queste mie produzioni strane, che sento mie ed estranee nello stesso tempo. Allora la sublimazione cosa è? So di aver lavorato bene anche nei momenti in cui la malinconia e la mancanza mi opprimevano, però, l’entusiasmo che tutta la mia persona prova quando un altro corpo si fonde con il mio, mi dà un’energia tale per cui ho l’impressione di lavorare meglio; sono consapevole che ciò non è del tutto vero, ma sono certo che non lavoro peggio. E allora che ne è della sublimazione?

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Perché io sono diventato anche un artista? Perché alcune persone dicono di essere artisti? Quando si decide di diventare artisti? Non lo si decide mai, perché artisti lo si è tutti e sempre. Ho detto una banalità, ma è una banalità teneramente vicina al vero: tutti gli esseri sono artisti, perché nessuno è mai se stesso. L’artista è il menzognero per eccellenza, purché sia menzognero per amore! E tutti viviamo anche un po’ per amore. Se vivessimo soltanto l’odio, l’aggressività, la distruttività, l’egoismo, non saremmo esseri umani, saremmo qualcos’altro, forse il diavolo? Non saremmo esseri umani. Eros abita un po’ in ognuno di noi, da sempre, ed Eros ci insegna a recitare, cioè ad esprimerci, raccontando favole, con le mani, con i piedi, con il corpo, con i colori, con i suoni, con gli occhi, con i genitali. Io passo molto tempo tra gli ulivi, in una casa nei dintorni di Roma: a pochi chilometri c’è un villaggio, antico borgo medioevale, dice l’ente di turismo su di un cartello; in una stradina, poco dopo un arco, una stradina meravigliosa, che sa ancora di fumo di legna, una ragazzetta stava badando ad un bambino che teneva tra le braccia e gli raccontava una storia, in una mano aveva un bastoncino: il bastoncino roteava, quella ragazza era bella, coi capelli castani; quel bastoncino era il giudizio universale.
Ma se siamo artisti, chi è l’artista? Perché qualcuno si dice artista? Soltanto per un gioco di mercanti, di sale di concerto, di editoria quello che fanno viene prezzolato, proprio come il gioco assurdo delle collezioni di francobolli? Indubbiamente è anche così: un essere umano viene preso, quello che produce viene definito prodotto artistico, perché così viene etichettato, può essere venduto come le arance, nella buste di plastica, con su scritto: tarocchi. Ma non è soltanto così; tutti vorrebbero essere artisti e grandi artisti, solo alcuni diventano artisti e ancor meno grandi artisti. Sempre ritorna il prezzo, sempre ritornano i mercanti, le sale di concerto e gli editori. Ma non è tutto qui: artisti si nasce. Per essere grandi artisti dobbiamo avere Eros dentro di noi e vivere teneramente innamorati, sempre, perennemente innamorati; poi si sarà schivi come Beethoven, aggressivi come Caravaggio o direttamente incarneremo Eros come uno solo ha saputo fare nella storia dei mondo: W.A. Mozart. Ma senza l’amore non si può neppure cominciare: ma tutti ne hanno almeno un po’ e tutti possono cominciare; poi qualcuno si ferma, perché ha paura, perché deve fare altro, perché ha vergogna. Ma chi non ha paura, chi non vuole fare altro, chi non ha vergogna, che cosa deve fare? Deve imparare una tecnica. È un artista, con l’etichetta, soltanto colui che conosce una tecnica, imparata con cura, con fatica, prima da un maestro e poi da sé, sempre nel ricordo del maestro. L’artista è solo colui che possiede una tecnica, tutti gli altri sono esseri umani.

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Perché uno diventa psicoanalista?. Per la stessa tecnica. Le doti naturali sono qualcosa di così ambiguo e inessenziale che sono impossibili a definirsi. Indubbiamente per essere psicoanalisti come per essere artisti bisogna, essere sani. Sani dove? Sani nella persona e sani perché non si ha paura di Eros e poi perché si ha voglia di comunicare. Ma se la psicoanalisi stessa è una tecnica, allora gli psicoanalisti e gli artisti sono la stessa cosa? No, non sono per nulla la stessa cosa; però sono entrambi esseri umani che debbono avere acquisito una tecnica questa e tecnica li definisce.
Io sono uno Psicoanalista e sono un artista. Non ho detto quale è la mia arte e adesso che vorrei dirlo non ho più spazio.

6 – Luglio & Agosto ‘84

mercoledì, 1 agosto 1984

Noi amiamo e apprezziamo l’Umbria – e Spoleto in particolare – da molto tempo e crediamo di conoscerla abbastanza bene anche dal punto di vista enogastronomico. Durante i giorni del festival noi abitiamo da queste parti proprio per poter goderne a pieno le meraviglie. Abbiamo parlato dei luoghi di ristorazione che abbiamo finora conosciuto in modo sincero e senza pudori; di alcuni bene, di altri male, di altri ancora malissimo. Noi rispettiamo la serietà di tutti coloro che sono impegnati con il loro lavoro in questo difficile settore, per questo esprimiamo senza riserve il nostro parere, ben sapendo che si può anche non essere d’accordo. Nel tentativo di dimostrare in qualche modo spirito di collaborazione vorremmo premettere ai giudizi che ancora andremo scrivendo due considerazioni.
La prima è che nella stragrande maggioranza dei ristoranti, osterie, trattorie, abbiamo trovato menù di una monotonia esasperante, indipendentemente dalla più o meno buona realizzazione. Siamo stufi di vederci sempre e soltanto presentare crostini al tartufo, strangozzi al tartufo, penne alla norcina; e grigliate miste, scaloppe ai funghi e tartufi, abbacchio scottadito; con le uniche variazioni – se mai – dei piatti più scottanti della ristorazione standard: ragù, tortellini, quella cosa detta alla milanese. Dei dessert poi non parliamo: sembra che in Umbria non esistano. Tutto questo mentre, invece, la cucina umbra è semplice, ma ricca di ricette, sapide, raffinate e originali. Possibile che non abbiamo mai trovato tra i primi quei buoni tagliolini all’acqua e farina, fatti in minestra con un semplice battuto, chiamati «blo-blo»; o i «frascarelli», specie di potentina di farina di grano; o la zuppa di farro; oppure l’impastoiata. Perché non inserire, tra i secondi, le varie preparazioni di anguille e agoni del Trasimeno, i lucci e le tinche in umido coi piselli di Bettona, per non parlare di sofisticatezze come la regina in porchetta o ancora: il sanguinaccio, la lingua in parmigiana, i mazzafegati. Tra i dolci di questi posti ricordiamo il brustengolo, di granturco, mela e mistrà; le ciarramicole all’alchermes, il torcolo o i panmalati. Insomma: certo i cuochi dell’Umbria ne conoscono più di noi!
La seconda considerazione riguarda i vini: sulla tavola vi portano sempre solo Trebbiano o Orvieto tra i bianchi, oppure, tra i rossi quello dei Colli perugini – che a noi non piace – il Montefalco, che a volte si trova eccellente. Ogni ristorante, anche semplice, non dovrebbe essere sfornito di quei sei o sette vini che in ogni zona possono facilmente essere reperibili, tra d.o.c. umbri e vini locali.

Enoteca Provinciale Umbra
Per proseguire il discorso sul vino: consigliamo una sosta in via Saffi, dove una targa in legno sulla porta di una ex antica bottega reca la scritta Enoteca Provinciale Umbra. All’interno un ambiente con scaffalature e bancone in legno chiaro, dove, con garbo e competenza, alcuni buoni vini umbri sono proposti alla degustazione – naturalmente possono essere acquistati in bottiglia. Vi diremo di quello che tra le altre cose, noi vi abbiamo trovato e gustato: un Grechetto Caprai dell’82, dal limpido colore giallo paglierino, leggermente profumato, dall’aroma non molto persistente ma gradevolissimo, che secondo noi è ormai giunto al suo limite di invecchiamento. Ci piace questo vino delicato e gentile, nato da uve di Grechetto e Malvasia, con piccole aggiunte di uve che variano secondo la località e il produttore e che va bevuto non troppo freddo. Tra i bianchi ancora un Trebbiano del Consorzio Provinciale, dell’83, leggermente frizzante, dal bel colore chiaro e dal sapore acidulo molto gradevole. Ancora un bianco d’Assisi dell’82, vinificato alla perfezione, che scivola in bocca, con un sottile profumo di rosa canina. Una Vernaccia di Cannara dell’83, rosso dal colore mattone brillante, di buona stoffa, che può accompagnare piatti anche abbastanza robusti.
Per finire, un Sagrantino di Montefalco dell’8l di Angelo Fongoli, dal colore rosso carico che, pur dichiarandosi secco, ha qualcosa di dolce, sul fondo amaro, e un buon profumo di viola mammola. Inoltre, gentilmente assistiti, si possono gustare piccole sfiziosità: piadine ripiene, bruschette, crostini, ecc.. Noi consigliamo di non accompagnare mai la degustazione dei vini, oltre che con il fumo delle sigarette, con quelle patatine industriali, dette chips, perché stravolgono il palato.

La Barcaccia
Alla Barcaccia, il ristorante di Piazza dei fratelli Bandiera, sembrerebbe che in cucina tengano un barile colmo di una pappetta in cui sia mescolata tra molti altri poco chiari ingredienti, un poco di tartufo; questa salsa viene poi profusa un po’ dappertutto: sui crostini, sugli strangozzi scotti, sulla trota desolatamene sola nel piatto e sul delirante e arrostito galletto amburghese. Ciò nonostante ancora più tristi sono i piatti – pochi – in cui non si ritrova l’onnipresente pomata, come i crostini al pomodoro e aglio e gli strangozzi alla spoletina. Nel dubbio se avremmo trovato o no l’ingrediente base anche nella zuppa inglese siamo usciti dal locale troppo grande e frastornante a rigenerarci alla vista della bella fonte di Piazza del Mercato, a due passi da lì.
Il conto è stato alto per un servizio non efficiente e i vini sono offerti con poco criterio e scelti con nessuna cura.

Tony’s
La trattoria e pizzeria «dei Duchi», da Toni, si trova in un luogo troppo bello: su diversi livelli, alcuni ampi locali, al pianterreno di uno dei solidi edifici storici della città, in via Saffi, ammiccano al turista, usando tutti gli specchietti dello stereotipo rustico-mondano, quindi noi ci siamo entrati con molta diffidenza. Il menù presentava una gamma di proposte più estesa del solito, persino i bocconcini alla umbra e la crescionda, con alcune escursioni bizzarre: tra gli antipasti la bottarga al limone e il palmito tropicale e tra le faziosità la frittata di mais. Anche la lista dei vini ci pare più variata del solito, sebbene un po’ assurda: il Matheus e il Custoza affiancati al Frascati e al Turà rosato.
Abbiamo assaggiato, come primi, un risotto ai funghi porcini ghiaioso, colloso di panna, con pezzi di fungo di incerta identità; le strengozze spoletine di fattura industriale, acquosamente al pomodoro; le pennette all’arrabbiata erano scotte e altro il palato non percepiva. Poi la girandola dei secondi, in ogni piatto una bandierina di una nazione del mondo – come nelle gelaterie italiane di Amburgo – sventolate su isolotti incredibili alla vista e al gusto: filetto al pepe verde, di un verde che tingeva le labbra e di sapore vinilico; i bocconcini alla umbra affogavano in un giallo ocra inspiegabile; la mozzarella al tartufo, di un bianco spettrale non si staccava dal suo tegame; la costata alla pizzaiola stingeva in rosa. Tra i contorni amarissime le melanzane al forno, crude e bruciate; l’assurda frittata al mais era gelata. Le bevande: per primo abbiamo degustato il bianco della casa, non sgradevole, denunciato come Frascati, ma per noi irriconoscibile; poi un insipido Custoza Montresor bianco, amaro e acidulo con un leggero sentore di tappo.
A questo punto fummo stupiti dalla buona qualità di un Merlot di Spello, di un bel rosso rubino, armonico e gradevole. Per dolce, gli affogati al whisky, perché la crescionda era finita, concludendo con una buona scelta di amari. Un conto eccezionalmente mite. Toni dichiara di essere un prestigiatore; noi pensiamo che non sia un mago della cucina.

La cantina
Se volete star leggeri, rilassati, in un angoletto splendido, e bere un delizioso Grechetto, dalla buona fisionomia e servito alla giusta temperatura, andate alla Cantina, dietro alla bella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo: un grande cantinone, con pochi tavoli fuori, manifesti di James Dean e reminescenze West Coast anche nella musica, semisgradevole come tutta la musica leggera. Mangerete una zuppa di verdura, che sarebbe più piacevole se non fosse troppo fredda, una buona frittata di zucchine, un carpaccio di buona carne (l’avremmo voluto un po’ piu condito), un vitello tonnato piacevole e dei peperoni buoni ma che, come non si deve, erano stati appena tolti dal frigorifero; una sopresa è una torta di frutta, non imbastardita, come al solito, dal liquore, con una panna freschissima e frutta dolci e saporite; non sappiano dirvi se provenga dalla cucina o venga fatta arrivare da altrove. Il prezzo è decisamente moderato.

Bar Gelateria Primavera
Se avete molto caldo e volete ristorarvi con uno squisito mangia-e-bevi, andate al bar gelateria Primavera, nella piazza del Mercato. In una grande coppa un ottimo gelato di e con frutta, una frutta fresca, profumata e saporita. Sono ottimi anche gli altri gelati, cremosi, dolci e non dolciastri. Per di più – ed è una cosa a cui badiamo molto – siete serviti in modo gentile e simpatico.

Gelateria Cordova
La gelateria bar Cordova, sulla piazza del Mercato segnala con un cartello che lì il gelato è «prodotto esclusivamente con latte intero, panna, zucchero e uova (cinque per litro)». Noi non lo mettiamo in dubbio, ma neppure voi metterete in dubbio che il risultato è assolutamente deludente. Una signora un po’ scorbutica dall’accento anglosassone vi offre una crema troppo gelida e a tocchetti, gelato all’amarena e acquoso e acidulo, un cioccolato scialbo e il gusto del gelato al caffè richiama alla mente il sapore lungo lungo dei caffè inglesi. Sul bancone spiccano due vasche di gelato rosa e azzurro: è il velato dei «puffi», noi volevamo assaggiarlo, ma, scandalizzatissima, la figlia di Albione ci ha informato che era delizia riservata esclusivamente ai bambini.

Raniero e Noemi
In un luogo un po’ anonimo, non lontano dalle fonti del Clitunno, sorge un grande edificio rustico-moderno; è il ristorante «Benedetti» di Raniero e Noemi. In un ambiente troppo vasto, con le pareti di pietra viva e nicchie con orciuoli, vi offriranno una cucina senza infamia e senza lode; con un innegabile pregio: un prezzo molto, molto contenuto. Tavoli puliti, servizio rapido, anche appena brusco. Noi abbiamo bevuto un buon rosso di Montefalco dell’81. Cosa vi diciamo dei piatti? Gli gnocchi col pesto leggermente rigidi, il pesto, corretto ma scarso, da cui esalava il buon profumo dell’olio umbro. La carbonara aveva due difetti; il primo poteva essere un incidente: la cottura passata da un bel po’; il secondo è da attribuire a quel flagello di Dio che è la panna nei sughi; gli strangozzi al tartufo erano ottimi, sapidi e di cottura perfetta. I secondi, sempliciotti, erano un saporito, ma un po’ secco, castrato di agnello alla griglia; un coniglio alla cacciatora, dal sugo debole, ma non spiacevole; una lombata banale e non sgradevole. Come dessert i soliti tartufi al cioccolato di produzione industriale. Un pranzo che, tutto sommato, non lascia né tristezze né acidità di stomaco.

Trattoria dell’Angelo
Una sera faceva caldo, eravamo usciti da uno spettacolo che ci dava da discutere; quasi senza avvedercene, entrammo nel ristorante dell’albergo dell’Angelo, a un passo dall’arco di Druso, a quell’ora silenzioso e quasi deserto. Tentammo di trasformare la discussione sull’estetica teatrale in una discussione su ciò che stavamo mangiando e bevendo; ma discussione non fu: eravamo assolutamente d’accordo sul fatto che stavamo mangiando e bevendo malissimo; poi tacemmo, sperando che tutto finisse in fretta. Dalla porta aperta cominciava ad entrare l’aria fresca.
Il balletto dei vini fu in effetti divertente: a parte il rosso dei colli perugini che – come abbiamo detto – a noi non piace, ci arrivò un inqualificabile Est Est Est, vino bianco, servito caldo, cui faceva pendant un di per sé dignitoso Chianti Frescobaldi dell’81 assolutamente ghiacciato; vedendoci esterrefatti, pensarono di portarci un vino di consolazione: non osammo far aprire quella bottiglia di misterioso e lodato vino spagnolo; tentarono di imporci un Merlot centenario e un Cabernet decrepito; terrorizzati ringraziammo. Intanto nei piatti sostavano ancora strangozzi al tartufo, sconditi; penne all’Angelo, vera pappetta alla panna; un agnello scottadito, troppo grasso; una costata troppo cotta e un gratinato di verdure spappolate. Insperabilmente, tra il resto, ci era stato servito anche un piatto più che gradevole: strangozzi al pizzico, conditi con una specie di bizzarro e spiritoso pesto. Prezzo sui livelli normali. Dopo aver pagato, fuggimmo e riprendemmo in piazza a discutere di teatro.

06 – Agosto ‘84

mercoledì, 1 agosto 1984

Contro?

PSICOANALISI CONTRO suona come una dichiarazione di guerra a qualcuno e a qualcosa.
“Cosa significa? – viene da domandarsi – contro chi e contro che cosa?”
A Spoleto risulta particolarmente faticoso essere “contro” e contemporaneamente rendere chiaro l’atteggiamento di profondo rispetto per la realtà culturale e sociale con cui questo “contro” si è voluto confrontare.
E’ difficile confermare la stima per le persone e l’apprezzamento per le cose cui hanno saputo dare vita e, nello stesso tempo, dichiarasi contro certi eccessi snobistici, che spezzano la realtà e la frantumano in isole non comunicanti.
Uno snobismo, ma non di quello buono, piuttosto di cattiva qualità, di cortigiani che avviliscono gli altri nel ruolo di massa pagante, invocata quando è assente, disprezzata perché è presente.

Essere contro il Festival dei Due Mondi significherebbe essere contro un coraggioso atto di civiltà; ma essere contro il ricatto di una sponsorizzazione selvaggia significa, invece, evidenziare la differenza tra un mecenatismo che, comunque, non potrebbe mai essere disinteressato e un monopolio dei luoghi e dei modi dell’arte a beneficio delle multinazionali.
Essere contro i politici che mediano e organizzano solo se stessi, distribuendo il favore e le cariche non significa negare l’opportunità e la validità della politica; ma significa opporsi alla cultura dell’effimero che vuole gli intellettuali e gli artisti subordinati alle esigenze di entusiasmi metropolitani funzionali al facile consenso.

PSICOANALISI CONTRO rifugge dai luoghi comuni pseudo-rivoluzionari ed estende la sua lotta anche contro ipotesi di distribuzione e di riappropriazione selvaggia di un patrimonio culturale che , in questo caso, appartiene a Spoleto e al suo Festival.
L’aver esercitato un diritto di critica, aver avuto la libertà di giudizio, ha certamente infastidito coloro che giudicano e non vogliono essere giudicati; ma non ha inteso dirigersi contro tutti coloro che, con esiti diversi e nella varietà delle opinioni in merito, agiscono con onestà.
Un “contro”, quindi, che è di parte e che tiene conto anche dei valori morali.
La pratica politica e culturale, nella scienza come nell’arte, per PSICOANALISI CONTRO si fondano sul pensiero di un maestro.
A Spoleto si è realizzato l’incontro con una realtà che dimostra di aver ben chiara l’importanza di un simile fondamento.