Archivio di marzo 1982

Psicoanalisi contro n. 5 – Il crepuscolo del fallo

lunedì, 1 marzo 1982

Entrò nel mio studio, era la prima volta, un ragazzo di circa venticinque anni, aitante, sicuro, forse troppo sicuro. Si sedette sul divano, in atteggiamento un po’ rigido e molto aggressivo. Mi chiese un posacenere, io gli dissi che nel mio studio non si fuma; mi domandò il perché, con rabbia e con sfi­da; a questa domanda io, da tempo, non ri­spondo più con la ingenua frottola psicoa­nalitica che durante la seduta non si fuma per impedire che il paziente scarichi l’ansia attraverso la sigaretta e che perciò è meglio che l’emotività rimanga libera perché se ne possa usare l’energia nel lavoro analitico; più sinceramente, gli risposi che a me dà fa­stidio il fumo. Rimase un po’ disorientato dalla risposta per nulla tecnica e un po’ au­toritaria.

Iniziò a parlare di un mio articolo che aveva appena letto, si era preparato qualche os­servazione erudita, poi, all’improvviso, tac­que. Dopo qualche momento di silenzio, gli ri­volsi le solite domande; mi rispose in tono aggressivo sempre, ma un po’ più stanco. Nella stanza si infiltrò, sottile sottile, il suono di una sonata di Scarlatti, proveniente dal piano di sotto: la pianista coi gatti. Si sentì un po’ rinfrancato; mi disse, tutto d’un fiato: — Sono venuto qui perché sono diventato impotente. — Mi chiese, automa­ticamente, di nuovo, un posacenere; io non risposi e lui non si stupì. Aveva la sigaretta spenta tra le labbra; incominciò un raccon­to, simile a tanti altri e diverso da tutti.

Quindici giorni prima, a letto con una ra­gazza bella, anzi bellissima, il suo pene era rimasto inerte, senza una ragione apparen­te, totalmente insensibile ad ogni sollecita­zione. Due giorni dopo, facendo l’amore con la sua ragazza, quella «ufficiale», il pe­ne si ammosciò appena introdotto nella va­gina, e prima era bene eretto. Non osò fare più altri tentativi. Se si masturba tutto fun­ziona bene, regolarmente; ma, adesso, è si­curo che «lui» non gli obbedisce più; lo sen­te come un’entità ostile e separata.

Potrei fare, a questo punto, una serie di considerazioni su come la nostra cultura ca­la le persone dentro alla loro pelle: troppo spesso il corpo è un’entità separata dalla psiche e addirittura scisso in tante parti. Estremamente pesante è, per il maschio, l’obbligo dell’erezione e della potenza ses­suale. Una ingenua e superficiale letteratu­ra moralistica ha parlato, anche troppo, del maschio infoiato ed egoista che penetra e possiede la donna e poi, soddisfatto del pia­cere raggiunto, se ne allontana e si addor­menta. Certo, esistono anche questi ma­schi, ma la mia esperienza di persona che parla con tanta gente mi ha portato a sco­prire una grandissima quantità di maschi che vivono il rapporto sessuale con timore, preoccupati di non raggiungere l’erezione e di non far «godere» la donna. Il loro massi­mo piacere è quello di sentirsela «godere» tra le braccia. Per molti maschi, spesso, il coito è un doloroso sforzo di trattenere ]’eiaculazione. Per ognuno di noi, purtrop­po, troppo spesso il piacere sessuale pensa­to è più intenso e libero di quello vissuto con il corpo di un altro. Tutti siamo, sem­pre, anche un po’ scissi.. questa è la nostra ricchezza. Io vivo e mi sento vivere, io guardo gli altri. e mi guardo. Io non sono la mia mano: io sono nella mia mano; qualche volta, però, la mia mano non è in me. L’essere umano è, sempre, anche uno spec­chio frantumato: in ogni frammento una piccola storia, una piccola rappresentazio­ne. Se l’essere umano fosse compatto ed unito, sarebbe eternamente identico a se stesso, coerente, ma monotono. La scissio­ne, la sovrapposizione e la contraddizione rendono ogni essere umano irripetibile. È importante, però, che le innumerevoli sto­rie e gli innumerevoli personaggi siano per­corsi da qualche cosa che li leghi: il deside­rio.

È dolorosissimo e paralizzante sentirsi spez­zati; allora, anziché la ricchezza di possibi­lità derivante dall’essere sempre anche altri, si vive la frustrazione dell’alienazione. L’alienazione consiste nel sentirsi espro­priati. L’espropriazione disorienta e rende impotenti. Credo che, da sempre, comun­que da tantissimo tempo, gli esseri umani, nel loro vivere insieme, cerchino di espro­priarsi a vicenda, nel bizzarro tentativo di riappropriarsi, appunto, espropriando. Gli esseri umani, nel tentativo di vivere piena­mente, si sono costruiti una vita piccolina e spaventata. Ecco la paura di non essere po­tenti; ed ecco pure il potere di spaventare. Non vorrei parlare soltanto male della pau­ra: la paura è una situazione esistenziale an­tica come l’uomo; ho detto «situazione esi­stenziale» e non «emozione» perché mi di­spiace che la si possa credere qualcosa di aggiunto e di posticcio.

Espropriazione e riappropriazione sono termini, per un verso, precisi e, per un altro verso, oscuri. Difendersi dall’impotenza espropriante è di tutti; ma non tutti i mec­canismi di difesa sono moralmente e politi­camente accettabili. L’impotenza non è sol­tanto quella del pene che non si gonfia. L’impotenza è anche sentire il piacere lontano dal sé, incontrollabile.

Due sono, secondo me, gli atteggiamenti psi­chici ed esistenziali che impoveriscono la vita umana: il moralismo e la follia. Tutti e due sono frutto di uno scacco, conseguenza di una difesa solitaria e delirante. Il moralista è colui che afferma di essere sincero, spontaneo e limpido e di essere sé stesso in ogni istante. Il moralista è colui che si pro­clama tutto di un pezzo, senza voler capire che essere tutto di un pezzo significa essere rigido ed ottuso: vuoi dire aver scelto una parte ed un ruolo e recitarli ossessivamente. -Ogni ruolo è frutto di una menzogna, perchè è frutto della fantasia, della proiezione e dell’identificazione. Quella del moralista è una menzogna triste, perché dice di essere la verità, l’unica verità.

Nessuno di noi è libero o schiavo: ognuno di noi è ciò che è, anche, sempre, diverso. Che ne so io se il gesto che ho compiuto è l’unico che avrei potuto compiere? Il signi­ficato al mio gesto non lo do soltanto io, il suo significato è anche frutto del desiderio dell’altro, delle proiezioni e delle identifica­zioni altrui.

lo credo che la coerenza sia impossibile: soltanto l’incoerenza permette all’essere umano vivere con se e con gli altri senza troppo ingannare. Se l’inganno e gioco ben venga, ma se l’inganno  è lo sbandieramento di una coerenza impossibile lo si abbando­ni.

Il moralismo della coerenza imprigiona, ma difende. Da che cosa? Difende soprattutto dall’affollarsi dei desideri e difende dalla paura dell’irrealtà. Aiutandoci a rimanere saldi in una certezza: la certezza che noi co­nosciamo noi stessi e conosciamo anche le nostre menzogne.

L’altro atteggiamento è, come ho detto, la follia. Non la poetica follia dei libri, né la follia del diverso e dello stravagante. Vo­glio qui parlare di quella che i manuali di psichiatria chiamano «psicosi». La psicosi è difficilissima da definire, ma è quotidiana­mente presente, si esprime attraverso il ri­fiuto del dialogo e del rapporto. Lo psicoti­co sembra che non ti veda, il suo sguardo passa oltre la tua persona, ma in realtà egli non ti vuole vedere; è un persecutore-perse­guitato. Molto spesso, la psicosi è frutto della solitudine. Vorrei dare della psicosi un giudizio morale, ma non moralistico: un giudizio politico. La psicosi è frutto di una difesa che, anzichè compattare la persona la ha spezzata, annientandola e rendendola impotente.

Questi meccanismi non sorgono però sol­tanto dall’interno della psiche individuale: vengono costruiti, giorno per giorno, nei rapporti sociali, sessuali e familiari. Il risul­tato é l’impotenza del singolo.

Vorrei tornare ora a parlare del ragazzo di cui ho detto prima. La sua impotenza era la sua separazione. Il suo pene era un «lui» che ricercava il piacere contro il piacere dell’altro “lui”. Certo, le motivazioni del pene a comportarsi così furono messe in lu­ce dall’analisi. Motivazioni legittime e com­prensibili, ma estremamente dolorose. I due «lui», per un po’, avevano recitato commedie troppo diverse. Poi, per fortuna, la ribellione di quel pene si affievolì e scom­parve.

L’organo genitale maschile è un’entità-per­sona. Ogni essere umano, come ho già detto è diviso in tutte quelle entità che egli sente come parti. La persona si sente divisa non certo secondo le ripartizioni dei trattati di anatomia e di fisiologia; ma ognuno si percepisce come un agglomerato di parti, che si è venuto costituendo e strutturando fin dalle prime esperienze infantili e anche dai primi esercizi di denominazione. Per il maschio e per la femmina, il genitale ma­schile è una parte più parte delle altre parti. È un «lui» persona.

Le ragioni per cui il membro virile ha que­sta caratteristica sono molte e affondano nei misteri della preistoria e dell’inconscio. Concorrono a ciò ragioni banali, come quella del suo essere prominente, ben strut­turato e, tutto sommato, facilmente aspor­tabile. Poi, ragioni più poetiche, la sua estrema variabilità morfologica: il suo ingi­gantirsi, moltiplicando le sue dimensioni, il suo rattrappirsi, il suo rincantucciarsi. Il genitale maschile è forse la parte del corpo più mutevole: lo scroto, talvolta si stringe attorno ai testicoli, formando una sacca compatta, altre volte, si allenta, si smaglia, come una borsa semivuota, teneramente pendula. E il pene non muta soltanto per­ché si drizza e si affloscia, muta continua­mente compattezza ed espressione: morbi­damente carnoso, secco e scorbutico. Vi sono poi ancora ragioni più psicologiche ed anche metafisiche. Tutti quelli che pos­seggono un pene sono consapevoli del suo comportamento bizzarro e capriccioso. Ogni maschio lo teme e lo venera e lo pro­tegge. Lo protegge, ma ne è anche protetto. Dà un senso di sicurezza sentirselo tra le gambe, sincero e presente.

L’arte figurativa, dall’antica Grecia ai no­stri giorni; ha costruito una miriade di pic­coli idoli, fatti con materiali diversi, ma sempre uguali: un pene in erezione con sot­to due testicoli che costituiscono il corpo di un uccello. Alla base dell’asta due ali spie­gate, dietro ai testicoli una coda piumata. Il membro ribadisce la, sua autonomia. Que­sto piccolo idolo portafortuna non è soltan­to frutto di un gioco di parole: è una divini­tà autonoma che può librarsi nel cielo. Cer­to, somiglia ad un uccello, e, quando si drizza può anche sembrare che voglia pren­dere il volo, ma non è tutto qui. Con le ali e la coda piumata gli è stata data un’autono­mia e una personalità proprie. Ciò è un be­ne o un male? Non sono in grado di dirlo per due ragioni: la prima è che gli aspetti positivi e negativi di questo organo autono­mo ed amico sono così intrecciati che sono indistricabili; la seconda è che io ho con me il mio sesso di maschio in cui mi identifico e con cui, spesso, mi confronto.

Nell’antica Grecia esistevano le falloforie: cerimonie connesse con l’adorazione di Dionisio, nelle quali si portava in processio­ne un grande pene. Fin da-allora e anche prima, la nostra cultura vive il pene come un’entità-persona e come tale è tuttora vis­suto, dai maschi e dalle femmine.

Ogni rapporto sessuale tra un uomo e una donna ,e giocato tra almeno tre individui: lui lei e fallo. Questo piccolo essere, ma­nipolato, ricercato e strumentalizzato, è presente tra i due proprio come una terza persona, talvolta, addirittura, si comporta da intruso.

Il maschio ha, sempre, almeno un po’, pau­ra di immergerlo nel ventre della femmina perchè teme di vederselo risucchiare e di­struggere. La femmina ha, sempre, anche un po’ paura di sentirselo entrare dentro, per­ché può lacerarla. Eppure, proprio in quell’atto la donna si riappropria di un fallo. L’invidia del pene è spiegata dalla psicolo­gia «classica» in un modo un po’ troppo semplicistico, se pure non falso. Le affer­mazioni della stessa psicoanalisi, del resto, hanno di rado validità universale, anche se, altrettanto raramente sono del tutto assur­de. La generalizzazione in campo scientifi­co, e in quello psicoanalitico in particolare, scade quasi sempre nella buffonata. La storia della scienza, nel suo divenire, ha di­strutto anche i sistemi generali ritenuti più saldi e oggettivi.

Ogni legge scientifica è la descrizjone di Un’esperienza umana. Alcune di queste de­scrizioni costruiscono il mondo attorno all’uomo, lo rendono consapevole di qual­cosa che, da sempre, gli è dentro.

Ciò è vero soprattutto per le leggi stabilite in campo psicologico, psicoanalitico e psi­chiatrico. Spesso chi legge testi di queste materie, si ritrova con emozionante eviden­za nei casi clinici descritti e vede con stupo­re, talvolta, raccontati i propri sintomi. Spesso il discorso eziologico è zoppicante ed improprio; ma il lettore quasi non se ne avvede, troppo impressionato dall’essersi ritrovato su quelle pagine; e allora accetta come verità assoluta anche le argomenta­zioni opinabili che tentano di analizzare le cause di quella sintomatologia.

La psicoanalisi racconta tante storie; molte di queste storie sono accadute e, poichè tut­ti gli uomini hanno molto di simile l’uno/ con l’altro, nessuna storia è mai del tutto ” unica, ed è sempre, anche, un po’ la storia di molti altri.

Allora, le leggi scientifiche che generalizza­no e prevedono il divenire dei fenomeni a che cosa servono? Servono a ciò per cui so­no sempre servite: ad orientare l’individuo nel mondo, a costruirgli un mondo.

lo, psicoanalista, sono uno scienziato, co­nosco leggi in cui credo. Queste leggi sono sempre anche un po’ delle storie; la mia scienza è anche un romanzo.

Proprio perché la psicoanalisi esprime an­che qualcosa di vero e di profondo, con i modi in cui essa, in quanto scienza, descri­ve i modi nei quali la donna prova l’invidia del pene, di fatto, essa sortisce quegli esiti e produce quei sintomi.

Ma il romanzo della donna, e la storia della sua invidia sono qualcosa di molto più va­sto ed articolato, forse di piú profondo e doloroso: la donna invidia anche l’altra va­gina. Questi giochi di invidie si intrecciano, producendo infiniti conflitti; nè l’invidia del pene è sentita solo dalla psiche della donna: anche il maschio infatti conosce questo sentimento.

Il fallo è un oggetto da possedere e da do­minare. Ogni maschio, lo confessi o no, ha sperato, nell’adolescenza, di vedere il pene ingrandire e crescere a dismisura, in modo di riuscire a diventare il portatore del fallo più grosso di tutti. I bambini e gli adole­scenti compiono continui atti di misurazio­ne: c’è sempre l’altro che ce l’ha un po’ più grosso ed allora ecco nascere l’invidia per il pene dell’altro. Si vengono talora a creare situazioni di vero e proprio disagio psichico per una inadeguatezza reale delle dimensio­ni del pene; ma i termini reali hanno assai poco significato in confronto delle fantasie che su questo punto si costruiscono. A questo proposito troppo spesso si so­vrappongono alla realtà la fantasia e il desi­derio. Vi sono ragazzi e uomini oppressi dal timore dell’inadeguatezza del loro organo sessuale. Sono possibili tre tipi principali di comportamento: il primo è l’atteggiamento castrato di colui che si sente sempre inferio­re agli altri,,timido, non aggressivo, accon­discendente, impacciato nei rapporti con l’altro sesso e con gli altri maschi.

Il secondo atteggiamento è quello compen­satorio; l’insicurezza e il disagio vengono compensati esaltando le caratteristiche viri­li; la voce è volutamente resa roca e possen­te, ci si butta nello sport o in una voracità eccessiva per ispessire ed ingigantire il fisi­co, si diviene iper-aggressivi ed esibizioni­sti. Il terzo atteggiamento è quello di una smisurata invidia della vagina.

L’organo ritenuto così inadeguato è vissuto come un figlio mal riuscito, che ha tradito le aspettative dei genitori. Ho detto che il problema della «reale» inadeguatezza è quanto mai vago, perchè le fantasie di po­tenza e sulle dimensioni del proprio fallo sono sempre al di là di un ambito reale. Al problema delle dimensioni è strettamen­te legato quello della potenza. La potenza sessuale interessa non soltanto l’organo ge­nitale, ma tutta la persona. L’erezione del fallo è un problema centrale per la psiche

del maschio. Quasi tutti i maschi hanno avuto una o più esperienze di impotenza per mancata erezione del pene. Per ragioni spesso difficilmente decifrabili, quasi a tutti gli uomini, è capitato, qualche volta, di non riuscire ad ottenere dal proprio membro l’erezione, prima o durante il rapporto ses­suale.

Vi sono maschi perseguitati da questa fo­bia. Alcuni sono seriamente inibiti nell’ap­proccio col partner sessuale proprio per il timore della non erezione. In alcuni casi, non ci sono problemi nelle pratiche mastur­batorie o finché l’altro è sufficientemente lontano, poi, quando i due corpi sono a contatto, l’erezione sparisce. Spesso, tutto il corpo rimane teso, si potrebbe dire «eretto mentre si proba una totale insensibilità dei genitali, che, talvolta, sembrano ritrarsi addirittura.

Come ho detto, il fantasma dell’impotenza è presente nella psiche di tutti i maschi, qualche volta non è riconosciuto; è una per­secuzione dell’inconscio, originaria: una di quelle paure che strutturano e che io chia­mo paure costitutive: A volte, l’impotenza è un espediente che l’inconscio usa per ri­fiutare il partner scelto. La vendetta che la Coscienza non vuole o non osa mettere in atto, si realizza attraverso quell’inerzia del pene.

L’incontrollabilità dell’organo pene è un elemento che ha acquistato una caratteristi­ca di archetipo: la castrazione originaria, o meglio il timore e il desiderio di questa ca­strazione sono diventati ormai un «topos» dell’inconscio.

È difficile reperire le antiche fantasie che affondano le radici nell’oscurità dei secoli trascorsi: il padre potente al quale si offre il pene in olocausto, la madre tirannica che impedisce al figlio di usare quel membro con altre donne.

Due strutture sociali diverse hanno contri­buito, nella storia dell’uomo, ad affollare l’inconscio di fantasmi e fantasie profonde: la società patriarcale e la società matriarca­le. Strutture sociali che sono ben distingui­bili soltanto in teoria; ma che sono di fatto intrecciate e, spesso, sovrapposte.

La psicoanalisi classica ha parlato di orda primitiva, del padre castratore, in un modo forse un po’ rozzo e ingenuo dal punto di vista storico e antropologico; è riuscita, pe­rò, a mettere in risalto alcuni meccanismi che si sono venuti evolutivamente struttu­rando nell’inconscio collettivo.

Indubbiamente, il maschio-re tiranno, «tutti i veri Agamennone»:hanno indotto nei figli-sudditi l’invidia per la potenza del loro pene gigantesco ed eretto. Il capostipite degli Agamennone: Urano, divinità primigenia, ricacciò, per timore e per invi­dia, nel ventre della loro madre Gea i figli che questa aveva con lui concepito. Suo fi­glio Crono, ribellandosi, gli afferrò il mem­bro eretto e con la falce lo recise.

Un mito che adombra aggressività e sensua­lità. Crono, a sua volta, diventò divinità sovrana, per timore e per invidia ingoiò i pro­pri figli. Quante fantasie in questo mito! Il maschio potente che ingoia i propri figli, invidiando la gestazione della femmina, o anche, per il desiderio di possederli facendosi penetrare. Fu compito di Zeus aggredire suo padre Crono e detronizzarlo prendendone il posto, divinità somma, maschio possente e maestoso, in attesa di un nuovo figlio che ripeta l’aggressione. Ma, dopo Zeus, la fantasia si interrompe perché altre fantasie e altri miti vengono a popolare la nostra realtà e i nostri sogni.

Il padre ha paura del figlio, ma lo desidera e lo teme, quanto il figlio desidera e teme il fallò paterno.

Ci sono state anche società delle madri, af­follate di Cibele e Demetre, potenti e sen­suali. E forse queste società sorsero anche prima di quelle patriarcali. La onnipossente dea-madre, espressione, forse, di una reli­gione monoteistica, è il simbolo di una so­cietà in cui la donna è sacra e sovrana. Ciò che avviene nel suo ventre è un mistero. Gli esseri umani non mettendo in relazione il coito, momento di piacere, con il parto, momento di dolore trionfale, vedono la donna come un essere sacro che, da sola, genera la vita. La dea-madre ha al suo fian­co un giovinetto, figlio e sposo, da lei gene­rato per il proprio piacere. Il giovane-prin­cipe sacro è sottomesso alla madre, ed ha il compito di farla godere, per mezzo del pro­prio membro eretto.

Le società matriarcali hanno contribuito a strutturare il nostro inconscio non meno di quanto abbiano fatto le società patriarcali. La madre non è stata, e non è, meno tiran­nica e autoritaria del padre. I mezzi usati sono in parte diversi, ma il fine è lo stesso: la sessualità e il potere. Anche le madri hanno spesso tentato di cOntrollare il fallo dei figli, chiedendo un olocausto; gelose di quel giovane pene, dispensatore di piacere ad altre donne e ad altri uomini.

Il potere della donna, madre e sposa, anche dopo la ribellione del figlio maschio che tenta di capovolgere i rapporti, non è mai venuto meno. Agisce sottilmente nella società e nella famiglia. Al maschio è riserva­to l’onore di essere citato sui libri di storia e di scrivere, anche, i libri di storia, l’onore di morire in battaglia; mentre la donna conti­nua a gestire il proprio potere, di cui poco si parla, il maschio si vergogna di riconoscerlo e alla femmina non conviene che sia riconosciuto. Su questi fantasmi antichi che ancora costi­tuiscono il nostro inconscio si è venuta strutturando una storia che è la nostra sto­ria, della nostra cultura ebraico-greco-ro­mano-cristiano-borghese-comunista, in cui è motivo di orgoglio il pene eretto, sempre pronto, penetrante ed aggressivo. Sembrerà strano a molti e sarà rifiutato con sdegno da alcune donne; ma io affermo che sono le donne, madri, figlie e spose, che hanno costruito il mito del fallo. Per sottili giochi psicologici, economici e politici, la donna vuole il potere su quello che è il simbolo del potere. Il maschio, credendo di ribellarsi, realtà subito il potere della donna sul suo fallo.

Le donne sfruttate dai maschi sono un’in­venzione del socialismo ingenuo, della bor­ghesia decadente e del femminismo ottuso e autocommiseratore. All’interno della stessa classe sociale, maschi_ e femmine si; sono “spartiti il potere e hanno tentato di sopraf­-farsi a vicenda. Il maschio ha espropriato la femmina e la femmina ha espropriato il ma­schio. I maschi e le femmine più ricchi, da millenni, sfruttano e opprimono maschi e femmine più poveri.

La donna non è sfruttata in quanto donna; è più o meno, sfruttata in ragione della sua posizione sociale; lo stesso destino è riser­vato al maschio.

La ribellione di molte donne è stata utile, per mettere in luce l’alienante e frustrante rigidità dei ruoli sessuali e sociali; ma la donna senza potere è un’invenzione di alcune menti stupide, ignoranti e rozze.

Il pene si è sempre ribellato a questi condi­zionamenti, ha cercato, si può dire, una sua autonomia; ma questa ribellione produce a sua volta angoscia e frustrazione. Una ri­bellione che non consiste soltanto nella mancata erezione; può manifestarsi con al­tri sintomi: eiaculazione precoce o ritarda­ta, ipertesia, insensibilità, etc. Questo tipo di comportamento -esprime spesso una si­tuazione inconscia, proprio come la può esprimere il disturbo funzionale di un qual­siasi altro organo. Le conversioni isteriche che si esprimono, ad esempio, con un’ane­stesia «a guanto» oppure «a calza», o con la paralisi di un arto, sono psichicamente vissute in modo completamente diverso dall’anomalo comportamento del fallo. Mentre i primi sono considerati sintomi pa­tologici e sono vissuti con meno vergogna, il pene che si ribella rende ridicoli. Talvolta itpart~itestar6Contriblisce ad au­mentare l’angoscia, quando non ne è la causa principale, con un atteggiamento di irritata insoddisfazione o con eccessive di­mostrazioni di comprensione.

È indubbiamente molto difficile sapersi comportare in modo da non causare danni psichici a chi, mentre sta facendo l’amore con noi, si ritrovi improvvisamente impo­tente. Le «prestazioni» del fallo hanno un significato inconscio molto articolato e fin- portante per la nostra cultura. Come ho già detto, nel fallo si nasconde una «anima», ogni fallo ha una sua psicologia e la sua fisionomia.

Il fallo eretto è segno di potenza ed è moti­vo di orgoglio per il suo possessore, vi è pe­rò anche un aspetto per cui un pene inturgidito è considerato dalla nostra cultura grot­tesco e ridicolo. Priapo è un dio fallico; il suo membro eretto non lo rende, però, nè maestoso nè solenne. La sua figura ha un che di sgangherato. Tra le sue vecchie e massicce coscie si drizza smisurato un pene aggressivo ma anche oggetto di riso. Le sue avventure sono descritte come vicende di un dio rozzo e volgare. Niente di sacro circonda la sua persona e il suo attributo. L’animale a lui consacrato è l’asino, pro­prio quello che gli combinò il brutto tiro di mettersi a ragliare, scoprendolo, mentre tentava di sedurre Semele. E l’asino gli ve­niva sacrificato non tanto per onorarlo quanto per ricordagli la sua avventura, con intenti canzonatori. Il maschio infoiato o congestionato e ansimante è anche conside­rato qualcosa di poco dignitoso; il pene tu­mefatto ed arrossato ha un che di animale­sco, quasi di inebetito. Maschio e fallo di­ventano cose di cattivo gusto, compiono azioni incongruenti e spesso umilianti pur di soddisfare quel desiderio diventato trop­po pressante.

Le donne per bene ne hanno orrore, i fan­ciulli e le fanciulle lo temono e un po’ lo compatiscono. Sono soprattutto le donne e i moralisti estetizzanti che amano descrive­re, ridicolizzandolo, il comportamento del maschio infoiato. Vi è certo una buona do­se di invidia, unita ad un atteggiamento di­fensivo; lo spavento, il raccapriccio, la fu­ga, possono aumentare il desiderio sessua­le. Un atteggiamento ironico di disprezzo, non solo umilia, ma anche abbatte e rende impotenti.

Una donna, in analisi con me da qualche tempo, non prova più desiderio sessuale e non osa confessarlo al marito ed è solita ri­correre ad un espediente quando egli si av­vicina. Mi racconta: «quando mi si accosta per fare l’amore, io non mi ritraggo subito, anzi, gli permetto di spogliarsi; poi, quan­do lo vedo emozionato e in stato di erezio­ne, incomincio a ridacchiare, a canzonarlo un po’; moltissime volte mi va bene: a lui passa la voglia, e può capitare che non si ar­rabbi neppure».

Questa persona si è inibita il desiderio ses­suale per potertnégliOcisa7re il mischio, e ci riesce con sadica precisione: si è castrata -per il piacere sommo di castrare.

Ancora, il fallo eretto, nella nostra cultura, è portatore di angoscia, perché è anche il simbolo della violenza e della mancanza di rispetto del desiderio altrui. L’esibizionista che denuda il proprio membro gode, so­prattutto, dello sgomento che riesce a susci­tare. Molto spesso accade che se l’involon­tario spettatore ha il coraggio di avvicinar­si, manifestando segni di desiderio sessuale, quel pene, prima esibito con proterva ag­gressività, si afflosci. In questo caso, il fal­lo, feticcio che si erge, serve a proteggere proprio dal pericolo di un avvicinamento eccessivo, aggredisce per il timore di un’aggressione.

L’idolo-fallo ha acquistato la sua identità lentamente, come, lentamente, è diventato simbolo di potere. La lotta di liberazione del maschio dall’antico potere matriarcale non è stata né facile né incruenta, e il desi­derio della femmina di castrarlo ha origini ancor più remote, nelle fantasie inconsce di distruggere l’oggetto, dopo che ha procurato piacere.

Quando più intenso è stato il godimento, tanto maggiore è la voglia che l’oggetto di questo piacere non possa più essere di altri.

Attraverso la distruzione di realizza magicamente l’introiezione.

Esistano anche antichissime leggende che testimoniano l’invidia della vagina da parte del maschio. La fantasia ha confini molto più ampi di quanto li abbiano la filosofia e la scienza: «Vi sono più cose, Orazio, in cielo e in terra di quante ne possa pensare la tua filosofia».Così dice il saggio Amleto, vendicatore della castrazione subita dal pa­dre. La scienza e la filosofia non contengo­no che una parte piccolissima delle nostre possibilità di fantasia: la fantasia crea la scienza e la filosofia e le fa progredire. La fretta e, per fortuna, la gente ha fretta.

Perché parlare male della fretta? La fretta è anche allegria, voglia di parlare, di muover­si, di fare subito all’amore. Negativa è se­condo me, soltanto la stupidità. Io ho il so­spetto che la cosiddetta «sperimentazione» sia un po’ stupida, anche se gli esperimenti hanno, accanto alla loro parte stupida, una parte di utilità. La fantasia è l’energia del mondo.

La fantasia significa progettazione, proie­zione, identificazione, ci spinge nel futuro, arricchita dal passato.

Le tre categorie temporali comunemente usate: passato, presente e futuro non costituiscono il tempo, ma la fantasia. Il primo nome che la fantasia ha dato ai suoi oggetti e quello di tempo.

Un’altra oggettivazione della fantasia è lo «spazio». Le dimensioni spaziali fanno si che lo.  spazio sia sempre altrove. te tre di­mensioni della geometria dei solidi: altezza, larghezza e profondità, esprimono l’esten­dersi della fantasia, il suo essere concreta e altrove. In seguito, tempo e spazio hanno trovato tante dimensioni. Essi sono oggetto della fantasia perché sono anche energia. E attraverso it loro rapporto che la fantasia ha potuto dire di se stessa: — io muovo me e l’altro da me —.

Il movimento ha bisogno dello spazio e del tempo, lo spazio e il tempo costruiscono il movimento. Allora, la fantasia è creata dal­lo spazio e dal tempo?

Non mi interessa stabilire che cosa è venuto prima, ma voglio affermare che questi quattro concetti: fantasia, spazio, tempo e movimento, distendendosi si sovrappongono. Gli antichi dicevano che muoversi vuol dire mutare, quindi ciò che muta è im­perfetto, perché può esssere diverso da co­me era prima .Dio, perciò, dicevano, e mo­tore immobile; la sua perfezione non am­mette il movimento. Gli antichi erano sag­gi, ma forse erano atei: attribuendogli la perfezione, avevano tentato di uccidere Dio.

Ma Dio ha usato la fantasia ed è rinato. La fantasia muove se stessa e l’altro. Forse, è l’essenza del progresso. Certo, è l’essenza del cambiamento.

Le vicende umane sono state variamente in­terpretate dai sapienti e dagli uomini comu­ni; i primi e i secondi, però, non hanno fat­to che elaborare le stesse teorie: alcuni ritengono la storia dominata da un principio ciclico, altri da un principio di inevitabile progresso, altri ancora, saldi nel loro pre­sente guardano il passato con nostalgia, ri­tenendolo un’epoca d’oro in cui la vita va­leva la pena di essere vissuta. Tutti, dotti e illetterati, giudicano la storia molto demo­craticamente.

Io non so come si sviluppino le vicende umane; so che le cose cambiano, cambia lo scenario e cambiano i personaggi. La fanta­sia guida il tutto. Mi è difficile dire se l’esse­re umano si vada lentamente perfezionando oppure no. Io credo che esistano alcuni cambiamenti irreversibili, ma non è facile dire se essi portino il progresso. Certo, anch’io fantastico un mondo migliore e mi ostino a cercare di realizzarlo.

Il maschio incominciò a fantasticare sul proprio pene. Decise di ribellarsi alla fem­mina e tentò di toglierle il privilegio della procreazione. La donna divenne la terra da fecondare e il maschio lo spargitore del se­me. Un seme che visibilmente scaturisce dal fallo, mentre la produzione dell’organo femminile non è percepibile. Scienza, filo­sofia e religione, di cui lentamente i maschi si appropriarono, incominciarono a parlare dell’utero come del luogo caldo dove il se­me deposto dal maschio prende forma e nu­trimento, divenendo un essere umano. ; La religione cristiana ha innalzato la donna e grande dignità, privandola però di ogni potenzialità. La splendente vergine è un preziosissimo «vaso», entro cui «avviene» ciò che Dio vuole che avvenga. Il mio non è non è un discorso teologico: parlo di fantasie e di simboli. Io voglio rimanere profondamente radicato in ciò che, secondo me, è la realtà. Proprio per questo uno dei miei campi d’in­dagine è la fantasia umana.

Osservare il mondo da un punto di vista biologico, economico, politico, senza tene­re conto delle fantasie, delle proiezioni e delle identificazioni è un modo delirante ed irreale di affrontare un’analisi scientifica. La scienza che-non tiene conto della fantasia non, è scienza,è un’illusione, ma illusione senza fantasia.

Osservare il  mondo fantastico-mondo reale è simile alla contrapposizione soggetto-og­getto, emotività-razionalità, psiche-corpo. Distinzioni, queste, utili in parte, pericolo­se molto. I giochi fantastici quindi costrui­scono e costituiscono la psiche umana e il mondo dell’uomo.

Non so se la fantasia sia creatrice; certo, è produttiva attraverso i meccanismi della condensazioni, degli spostamenti, delle identificazioni e delle proiezioni.

Lo spostamento è un aspetto importante della condensazione, soprattutto, traslare, cioè operare un tran­sfert affettivo, simbolico, da una rappresentazione ad un’altra e poi a un’altra ancora, e così via.-Fantasticare non soltanto

arricchisce, ripeto, costituisce. Questo suo carattere costituente deve essere preso in considerazione dal ricercatore; natural­mente, con fantasia!

La psicologia dinamica, scoprendo e co­struendo l’inconscio, ha fatto del meccani­smo fantastico uno degli elementi essenziali della sua ricerca. Per tutta la psicoanalisi, anche la più arcaica e rigida, l’elemento fantastico non è soltanto un interessante materiale di indagine, ma è anche un ele­mento che costituisce la personalità umana e l’attività psichica. Un po’ più rigidi sono stati, e ancora lo sono talvolta, molti teorici della psicoanalisi nell’accettare di calarsi nella fantasia e di usarla come parametro per analizzare se stessi.

Nell’incontro-scontro che da millenni ca­ratterizza il rapporto maschio-femmina, entrambi hanno usato la fantasia per co­struire la relazione e per trovare l’identità. L’identità sessuale, chiamata, con espres­sione un po’ ridicola, «identità di genere», non è data tanto dalla struttura degli organi genitali esterni, o dagli attributi sessuali se­condari o dall’atteggiamento assunto verso il mondo esterno, quanto dall’indistricabile gioco fantastico di ognuno.

Attraverso le fantasie sessuali, i corpi si smembrano e si riuniscono; i gesti si proiet­tano gli uni negli altri; il ventre e le cosce si modificano nelle identificazioni; gli atteg­giamenti spostano il loro significato in un gioco di specchi.

In un momento di piacere si condensano anche parole, odori, suoni, percepiti tanto tempo fa.

Il fallo eretto è simbolo di potenza, ma è proprio qui che si annida la paura della ca­strazione. Il castrato, o il pene floscio ed in­sensibile sono il simbolo della frustrazione impotente. È tipico dell’essere umano il ti­more dell’impotenza sessuale, che coinvol­ge anche la femmina.

Nella donna, però, questo timore, si trasforma in paura della sterilità che è qualcosa di molto diverso. La donna sterile si sente anche impotente, ma è un’impotenza che non riguarda direttamente il suo erotismo. È un’impotenza dal significato più sottile ed indiretto.

Il maschio impotente, invece, è colui al quale il fallo non obbedisce.

La femmina, sacerdotessa dell’erezione fal­lica, vuole da sempre essere l’unica a gestir­la, tirannicamente. A questa regola il ma­schio si è sottomesso da sempre.

La prima e originaria castrazione avvenne dunque nella lontanissima epoca matriarca­le. Una castrazione che è consistita soprattutto nella trasformazione del fallo in un idolo autonomo e, appunto, staccato. Stru­mento di piacere tra me e l’altro, tra me donna e l’altro, maschio, tra me maschio e l’altro, maschio. Vorrei dire anche: tra me donna e l’altro, donna; anche in questo ca­so il fallo è presente, ma il discorso si spo­sterebbe e temo che ne perderei il filo. La donna ha fantasticato su questo ogget­to, separato da lei, ma strumento del suo piacere, ed ha voluto che anche il maschio provasse la separazione. Un membro che diventa strumento meccanico, messo in at­tività da apparati involontari e da manipo­lazioni esterne, che con la penetrazione riempie e stimola, che induce invidia e desi­derio di appropriazione.

Anch’io, maschio, provo il desiderio di possedere una vagina, per provare il piacere di sentire il fallo che la penetra, che la col­ma: l’ano è un surrogato, può essere sufficiente? La società, o meglio: le società, hanno iso­lato questo oggetto, hanno fatto della vagi­na il suo negativo; questo non è un discorso biologico; nell’analisi dell’organo maschile si ritrovano tutti gli elementi di quello fem­minile; ma, se pure la costruzione morfolo­gica è simile, quella sociofantastica è ben diversa.

Il maschio, da quando ha scoperto il lega­me tra il proprio pene e la procreazione, ha tentato di affidare a questo suo rappresen­tante il compito di procreare. La donna è il terreno da fecondare: il seme del maschio la feconda: Questo gioco dí competenze ha portato il maschio a volersi sentire autono­mo; la donna, memore dell’antico potere, tenta però di perpetuarlo attraverso il con­trollo sul fallo: accetta di essere strumento di piacere permettendo che il fallo diventi lo strumento del piacere sia del maschio sia della femmina.

Qui stanno le ragioni che portano la donna, priva di pene, a trasmettere l’ideologia ido­latrica del fallo: dalla madre i figli, maschi e femmine, ricevono il messaggio che li in­duce a considerare il fallo come lo strumen­to del piacere e del potere. La madre esalta nel figlio il possesso del fallo che a lei non appartiene, ma che proviene in qualche mo­do da lei e di cui rivendica il diritto esclusi­vo di possesso.

Quanto più il fallo è potente e dispensatore di piacere, tanto più è esaltante riuscire a dominarlo e a goderne. Questo messaggio la madre lo comunica anche alla figlia in proiezioni e identificazioni; si svolgerà poi la lotta per il controllo su quel fallo, poten­te, ma dominabile.

Il dominio sul fallo non è soltanto realizza­bile all’interno del rapporto sessuale; si rea­lizza continuamente, quotidianamente, nel chiuso della famiglia. Ecco perché la donna si è associata da sempre al potere maschile per esaltare il fallo: perché è più gratifican­te attrarre e dominare un fallo potente. Lo sguardo di ammirazione di una donna per il suo maschio che si esibisce, aitante ed ag­gressivo, è soprattutto, uno sguardo di compiacimento per la consapevolezza, tal­volta invero illusoria, di esercitare un pote­re sul simbolo stesso del potere: il fallo. Il fallò è quindi è anche simbolo di un pote­re alienato e alienante, ricco, talvolta, solo di ottusa reciproca presunzione: un idolo capriccioso che scatena fantasia.

È importante liberarsi del fallo permetten­dogli dì tornare ad essere pene, forse è meglio dire, permettendogli finalmente di diventare pene. Le mie fantasie sono frutto della mia situazione di maschio orgo­glioso di possedere il fallo e timoroso di ve­der aggredita questa mia prerogativa, sono anche frutto di un cumulo di fantasie, di maschi e di femmine, passati e presenti.

I miti sono leggibili come frammenti ar­cheologici dell’inconscio cattivo, ma è anche interessante osservarne le successive rielaborazioni. La ricerca filologica dell’esatta vicenda di un mito: come si è formato, il suo significato storico, cultura­le; etc; elementi di carattere molto incerto, sempre. Il mito, infatti, è importante, non tanto per quello che è stato, ma per quello che è diventato, e per come viene recepito dal tempo presente.

Per scrivere questo articolo, che rende ine­vitabile ormai un lavoro di ricerca e di ste­sura da parte mia molto più ampio, ho fat­to ricerche, ho consultato trattati di storia, mitologia, antropologia, storia delle reli­gioni, di ieri e di oggi. Tutti questi testi mi hanno illuminato sul passato prossimo del­la nostra società. Mi sono convinto della validità dell’ipotesi storica stilla esistenza delle società matriarcali, ne ho conosciuto i riti e i miti; poi ho seguito, con metodo scientifico, il cammino percorso dal ma­schio sulla strada della liberazione, attra­verso il rimescolarsi delle popolazioni, la ri­bellioni e le lotte. Ho pensato” realtà so­ciale e su tutto ho costruito le mie fantasie: ho proiettato e mi sono identificato; se io non fossi un maschio, non avrei, probabil­mente, scritto quello che ho scritto. La strada che porta all’affrancatura dalla tirannide del fallo è molto lunga. Ho detto che il fallo deve diventare pene, cioé parte integrante del mio corpo maschio; punto nodale per il mio piacere, e forse, per il pia­cere dell’altro. Le vie del pene incon­trano e convergono verso il mio organo genitale; il suo primato di strumento del pia­cere è difficile da abbattere. È importante però che il fallo, divenuto pene, sappia coinvolgere nel suo piacere tutto il corpo, e non solo per meccanismi feticistici  con i quali a volte i genitali delegano la loro carica di autoritari sacerdoti del piacere ad altre par­ti del corpo. Il godimento sessuale deve li­beramente fluire in tutto l’organismo vi­vente, confondendosi can il piacere degli altri corpi. Il piacere è nel mio corpo, ma sorge dal corpo dell’altro.

Il godimento è come l’inconscio: non è solo mio o tuo, ma si realizza i n «direzione- verso». Ma queste berle frasi consolatorie  non vogliono far dimenticare quelle che adesso sono le modalità reali del pia­cere. Nell’epoca patriarcale, o in quella patriarcale, negare l’altro e violentarlo hanno costituito  uno degli elementi principi della ricerca del piacere, sessuale o no.

Queste mie parole potrebbero sfociare in un discorso assennato ed edificante, del ti­po «dobbiamo essere buoni, rispettare l’al­tro, ricercare nell’altro e in noi un piacere». La realtà è che, ora, figli di una madre e di un padre violenti, dobbiamo guardarci at­torno e conquistarci il piacere che ci è possi­bile, rifiutando d farci consolare dalle parole.

Il fallo deve diventare una parte del corpo del maschio, non un simbolo di violenza, non un oggetto di castrazione. Io, maschio, ripeto, sono orgoglioso di avere il fallo, con tutte le implicazioni, anche negative, che questa affermazione comporta.

Il maschio deve essere capace di sottrarre il suo fallo alla donna, anzitutto, per riappro­priarsene ed imparare a viverselo come pe­ne. Come le madri hanno castrato i figli, così oggi, epoca dei figli, essi devono ca­strare le madri sottraendo loro il fallo.

La liberazione del maschio è indispensabile come lo è la liberazione della femmina. La femmina si è autocastrata diventando una paladina del fallo. Il maschio deve ope­rare la castrazione della femmina, sottraen­dole il fallo, per riappropriarsene.

La sessualità vive di rituali e questi rituali difficilmente possono essere aboliti; ecco perché la strada è lunga e la meta pare ir­raggiungibile. I rituali possono, però, esse­re destrutturati dalla fantasia e dal piacere. Io, maschio, amo il mio corpo e, per il mo­mento, anche il mio fallo: gli ho offerto do­ni e sacrifici per propiziarmelo. Ho ripro­dotto l’antico meccanismo?

Quanto ho scritto mette a disagio, lo so, sia i maschi ben pensanti che le femmine libe­rate. Io non vorrei che mi piacesse il disagio per il disagio; però mi piace avere il corag­gio di provocarmi e di provocare.

Io ho un corpo che non é solo corpo; i mec­canismi della fantasia mi permettono di non essere chiuso soltanto qui ed ora. La storia che-costruito il fallo non è finita.

Psicoanalisi contro n. 5 – Contrappunto a tre voci: musica, arte e psicoanalisi

lunedì, 1 marzo 1982

Si dice che l’arte viva nel regno dell’emotività. Da secoli si dice questo; ma da sempre per me questa affermazione è incomprensibile. Io penso che non sia possibile nell’uomo isolare l’emotività dagli altri aspetti della persona. Per me l’arte è soprattutto bisogno di comunicare secondo determinate regole chiamate regole d’arte. L’arte è: comunicazione per mezzo dell’arte.
Cioè è un gatto che si morde la coda..
Poesia come: fare qualcosa che sia arte.
Questo fare mi sfugge e mi coinvolge, mi destruttura e mi stimola, in queste righe, come psicoanalista, voglio parlare dell’arte e in particolare delle due forme d’arte che mi sono vicine: il teatro e la musica. Costruirò un piccolo contrappunto a tre voci per dire qualcosa intorno ad un argomento che per me è di grande importanza.
La psicoanalisi è sempre stata affascinata dal teatro: i simboli del teatro, i suoi personaggi e soprattutto il suo realizzarsi all’interno di uno spazio immaginario e figurato lo rendono simile ai sogni, con tutta la carica di significati profondi ed oscuri da cui i sogni sorgono.
La terapia psicoanalitica stessa è molto vicina ad una rappresentazione teatrale. Per il paziente operare il transfert sull’analista non vuoi dire altro che recitare con lui la propria storia. Il passato rivive tra le tranquille pareti di uno studio e il terapeuta, rintanato nella sua poltrona, veste, di volta in volta, i panni del padre, della madre, del fratello maggiore, della nonna ecc.
Per fortuna la psicoanalisi non è riducibile a questo scheletrico e riduttivo teatrino. Il teatro della psicoanalisi è ben più ricco e profondo. Non è il caso, però, di affrontare qui questo argomento.
La musica, invece, ha interessato stranamente molto meno gli psicoanalisti sia nella loro pratica che nel momento dell’elaborazione teorica. Penso che il motivo principale di questo disinteresse sia dovuto ad un elemento fortuito e anche un pò squallido: i grandi padri della psicoanalisi e della psicologia dinamica, Freud in testa, erano desolatamente ignoranti in campo musicale. In séguito, vi sono stati psicoanalisti che si sono sforzati di colmare questa lacuna; senza però riuscirvi. .
La psicoanalisi si è sempre trovata più a suo agio quando ha avuto a che fare con le espressioni artistiche della letteratura e delle arti figurative che con il mondo dei suoni: i saggi di Freud e di Kris ne sono la dimostrazione.
Pare essere in contraddizione con queste constatazioni il fatto che la psicologia, addirittura prima della psicoanalisi, abbia usato la musica come mezzo terapeutico.
Oggi il termine e la pratica della «musicoterapia» sono diventati di moda. In Italia, però, sulla musicoterapia in particolare, o, più in generale, sulle relazioni tra psiche ed espressione musicale, ci sono studi molto scarni che si richiamano soprattutto ad esperienze geograficamente lontane, e che queste esperienze ripetono in modo rozzo e acritico.

II

Psicoanalisi Contro ha sentito, fin da subito, il fascino degli intrecci complessi relativi al rapporto con i problemi estetici ed artistici ed ha tentato di porsi con i suoi strumenti psicoanalitici anche di fronte all’espressione artistica. Le ragioni di questo interesse sono forse altrettanto fortuite e banali di quelle che stavano all’origine del disinteresse che la psicoanalisi mostrò per la musica: il fatto è che Sandro Gindro ha un passato e un presente di compositore musicale e di autore di teatro. Una storia per altro molto tradizionale: preparazione «classica», studi di pianoforte, armonia, contrappunto, ecc.; poi la gavetta nei teatrini off: molto impegnati, allegri e anche un po’ angoscianti. Le prime musiche di scena dal rock all’imitazione del barocco; poi la voglia di fabbricare, oltre che le musiche, anche le situazioni, scrivere le parole, inventare i gesti: il teatro acquista un autore.
Io sono stato affascinato, oltre che dal teatro per adulti anche da quello per bambini.
Mi verrebbe voglia di dire che i bambini sono più…..degli adulti per qualche aspetto; ma più che cosa? Forse è più saggio e meno scorretto dire che sono bambini e basta.
Pian piano, intanto, gli studi di psicologia e di psicoanalisi in particolare, stavano acquistando importanza e significato: la mia analisi personale e gli stanzoni di un ospedale psichiatrico in cui vengo a trovarmi, prima come studente e poi come uno che cerca di fare qualcosa,. mi stravolgono e mi destrutturano. Contemporaneamente, soprattutto la notte vivevo romanticamente la boheme della musica e del teatro.

III

La grande importanza psicologica del teatro non deriva soltanto dal fatto che le sue produzioni fantastiche permettono giochi mentali quali l’identificazione o la proiezione con o sui personaggi; e neppure perché l’inconscio lo usa, spesso, per i suoi giochi simbolici. Sarebbe forse più corretto dire che il teatro non tanto è importante per la psiche, quanto coincide proprio con la psiche. La psicoanalisi classica ha unito e nello stesso tempo ha staccato dall’Io individuale una formazione psichica inconscia chiamata Super-Io.
Questa misteriosa unità non è soltanto la coscienza morale di ognuno di noi; è anche un occhio che ci osserva, cioè uno spettatore. Questa è una delle più geniali intuizioni di Freud: ognuno di noi è attore e spettatore di se stesso. Una psicoanalisi vecchia e tradizionalista vuole che questo spettatore sorga nell’individuo dopo alcuni anni di vita, ad un punto dello sviluppo del bambino, successivo a quello in cui si sarebbe formato l’Io, e questo Io, a sua volta, si formerebbe abbastanza tardi. Questo romanzetto mi sembra poco credibile. Sono convinto che ogni bambino ha, o meglio è fin da subito un Io.
Non abbiamo il diritto di negare all’essere umano appena nato sentimenti, emozioni, gusti e desideri e pensieri organizzati, soltanto perché sono espressi in modi differenti dai nostri e per noi, di conseguenza, difficilmente decifrabili. Oltre che essere convinto che il bambino è fin da subito un Io strutturato, sono anche convinto che egli nasca programmato o per la «relazione» con l’altro. Non solo il neonato si offre al1′altro; ma si esibisce.
Il cucciolo dell’uomo non nasce autosufficiente, le mani dell’adulto 1o accolgono, lo proteggono, e lo violentano. Non ha senso affermare che il bambino abbia un rapporto privilegiato con il seno materno.
Questa è una proiezione delle madri, ben comprensibile; ma che ha, secondo me, un significato che riguarda soprattutto loro. Il bambino ricerca l’altro e gli si esibisce; gli altri lo toccano, e lo nutrono, lo riscaldano e lo spaventano: il Super-Io è, immediatamente li presente, giudice e spettatore.
Io vado ancora più indietro: penso che il rapporto con l’altro sia cominciato anche prima, in quel ventre caldo, amico ed ostile allo stesso tempo.
Noi recitiamo sempre anche quando siamo soli: per spettatori del passato, del presente o del futuro. Non è soltanto l’allucinazione «schizoparanoide» che proietta all’esterno questo spettatore diventato persecutore.
Ogni essere umano, bambino oppure adulto, non riuscirà mai a «vivere» soltanto; ciascuno «reciterà» sempre un poco.
Poi, in un secondo momento, questo teatro diviene oggettivo; diviene «teatro secondo», cioè cultura; poi ancora diviene «teatro terzo» cioè il teatro vero e proprio.

IV

Il teatro, quindi, come ho detto, non solo ha un significato psichico essenziale; è la struttura stessa della psiche. Una cosa che ritengo, oltre che ridicola, estremamente riduttiva è la favoletta medioevale e continuamente ripetuta che fissa la nascita dell’essere umano al momento in cui viene partorito. Ritengo anche scorretto scientificamente e politicamente, sostenere che la vita intrauterina sia soltanto felice, annegata in un inconsapevole caldo mare protettivo. Questa non è che una stupidissima e delittuosa invenzione borghese, utile a chi vuole continuare a sfruttare nelle fabbriche e nei campi il lavoro della donna incinta: «Tanto ci pensa la natura a protegger quella vita dentro il corpo della donna». Le frustrazioni, gli stress, le angosce della madre, e probabilmente anche le tensioni emozionali dell’ambiente, aggrediscono il feto che si sta preparando a venire al mondo. La vita intrauterina ha caratteristiche sue proprie: probabilmente le immagini visive, i colori e le espressioni verbali non fanno parte dell’esperienza immediata del feto. La sua esperienza consiste infatti in una situazione corporea basata essenzialmente sul ritmo di una pulsazione. Il ritmo scandisce la vita dell’embrione; un ritmo scandito non solo dalle pulsazioni, contrazioni dell’organismo embrionale in contrappunto con l’organismo materno; ma un ritmo in cui il bambino che sta per nascere sente e, forse, aspetta i movimenti, le ‘andature, gli spostamenti anche spaziali della madre. Pulsazioni che forse sono anche suono interiore.
Che cosa è questo se non musica?

V

Io non penso che la musica sia un fatto essenzialmente sonoro, anzi, la musica ha scoperto il suono e se ne è appropriata.
Ogni volta che si tenta di risalire alle origine di qualche cosa si fa della mitologia; questo vale anche per la vita intrauterina quale la ipotizzo io quando parlo del suo significato essenzialmente musicale. Io credo che anche operativamente la musica possa essere un mezzo terapeutico di cui si possano giovare tanto la gestante che l’embrione. Per questo sto mettendo a punto alcune tecniche di intervento che non è il caso qui di esplicitare, anche perché sono per il momento imprecise e nebulose; ma che si rifanno alla mia convinzione che la musica sia un fatto prima di tutto collegato al ritmo vitale e solo poi riportabile all’aspetto della sonorità.
Il teatro e la musica hanno quindi un significato che non è soltanto estetico e possono perciò (a mio parere debbono) essere usati sia quando ci proponiamo di costruire una metapsicologia che quando pensiamo di intervenire in campo terapeutico. Questo è il mio tentativo.
Il teatro e la musica possono essere usati prevalentemente in due modi che sono legati tra di loro da fili sotterranei e tenaci,anche se appaiono molto diversi ad una prima osservazione.
Il primo modo è quello di far agire il teatro e la musica. Far agire il teatro significa stimolare le persone ad esprimersi attraverso tante situazioni teatrali che non sono poi altro che le situazioni che ognuno si trova a vivere, per lo più inconsciamente, in ogni istante.
Fare agire la musica vuole dire stimolare nelle persone le profonde capacità di emettere suoni, esprimersi in un ritmo e in una danza, fino ad appropriarsi di un linguaggio musicale ed essere in grado di cantare e suonare uno strumento, da soli o in rapporto con altri.
Il secondo modo è quello di far subire il teatro e la musica. Cioè: presentare allo spettatore, all’ascoltatore un prodotto teatrale o musicale già costruito.
Quando accenno alla diversità solo apparente di questi due modi di porsi nei confronti del teatro e della musica voglio intendere che non c’è più partecipazione, o più spontaneità, o più creatività in uno che nell’altro. Quando si agisce non si è mai completamente libéri e spontanei, perché si seguono sempre, con maggiore o minore consapevolezza, dei moduli preesistenti e in ogni parte condizionanti, e siamo allo stesso tempo anche spettatori di noi stessi e di chi agisce con noi. Cosi come quando ci poniamo come spettatori non siamo mai completamente passivi, ma interpretiamo e contribuiamo a creare il senso di ciò che si sta rappresentando davanti a noi. La partecipazione emotiva e la lettura interpretativa costruiscono anche la percezione di ciò che stiamo ascoltando od osservando.

VII

L’utilità pedagogica e terapeutica del teatro e della musica quando sono agiti è abbastanza evidente; forse meno evidenti sono i pericoli, talvolta gravi, che possono nascondersi dietro questo agire.
Osserviamo prima gli aspetti positivi: attraverso la rappresentazione di personaggi diversi esibiti a noi stessi e ad altri, riusciamo talvolta a spezzare la barriera di atteggiamenti fisici e psichici stereotipi e irrigiditi;
riusciamo a vivere con accettazione consapevole stati d’animo molto diversi tra di loro che normalmente rifiuteremmo; balzano evidenti desideri rimossi oppure agiti con cattiva coscienza.
Anche l’esporsi costituisce rappresentazione, anche il cercare nuove positure del corpo, ascoltare e percepire la nostra corporeità insieme con quella degli altri: diventa importante acquistare la capacità di toccare il nostro corpo e il corpo degli altri ed imparare a farci toccare. Gli adulti soprattutto hanno il corpo irrigidito da rituali che hanno finito per calarglisi addosso imprigionandoli. Alcuni si ribellano a questi rituali assumendo atteggiamenti e positure fisiche anticonformistiche; spesso il rimedio finisce con l’essere peggiore del male: vediamo in questi casi corpi sgangherati e sudici, ipertesi in una provocazione ritualizzata quanto i riti a cui intende opporsi, talora anche peggio.
La riappropriazione del corpo deve avvenire attraverso il piacere dato e ricevuto nel tentativo di ascoltare e assecondare il ritmo e la musica interni. È necessario essere consapevoli che la «spontaneità» è impossibile, il nostro agire segue sempre dei moduli, l’importante è scegliere quei moduli che siano in accordo con il nostro bisogno di benessere e con le nostre reali possibilità di comunicare con gli altri.
La musica è anche, sempre, linguaggio: importante non è diventare capaci di emettere suoni scoordinati ed autistici; ma imparare ad assaporare il suono, costruendo con esso la possibilità di comunicazione. L’espressività a tutti i costi può costare iì prezzo di una dissociazione psicotica in temperamenti predisposti alla disintegrazione psichica.
Questo dovrebbe essere tenuto presente da molti animatori teatrali i quali senza nessuna preparazione psicologica e psicoanalitica fanno recitare, nella scuola, o altrove, i bambini non essendo in grado, per lo più, di controllare le piccole esplosioni che possono causare nelle personalità in formazione le interpretazioni di certi ruoli o di certi personaggi.
Questi animatori spesso si compiacciono della bizzarria delle soluzioni e della partecipazione emozionale dei bambini che danzano e recitano, senza però rendersi conto che qualche volta favoriscono con ciò gravi attacchi distruttivi alla compattezza del se; attacchi che spingono i malcapitati bambini sulla strada dell’angoscia e del disorientamento piuttosto che su quella auspicata della ricchezza emozionale e dell’appropriazione del piacere e della ricchezza di sensazioni fantastiche. È però altrettanto importante, dal punto di vista terapeutico e pedagogico (oltre che culturale, s’intende) imparare a fare lo spettatore: ad assistere e ad ascoltare, subire una rappresentazione o una musica agite da altri. Nella nostra società è assai difficile trovare persone capaci di ascoltare ed osservare gli altri. Quelli che io chiamo meccanismi narcisistici di chiusura sono continuamente presenti negli pseudo-rapporti che si costituiscono ogni giorno.
Uno spettacolo teatrale o un brano di musica sono strutture articolate e ricche di possibilità emozionali; imparare a leggere con attenzione e partecipazione, senza allontanarsi in fantasie autistiche, è un esercizio psichico fondamentale. L’incapacità di «stare attenti» (espressione, questa, cara alle maestre di vecchio stampo) è il primo impedimento all’arricchimento culturale e alla comunicazione.
Saper ascoltare, saper guardare, sono i modi migliori per spezzare la chiusura narcisistica.

VIII

La psicoanalisi infantile usa da molto tempo l’osservazione del gioco come chiave di lettura dell’inconscio del bambino. Il bambino, giocando rappresenta la sua storia, le sue pulsioni e i suoi conflitti. È indispensabile, quindi, come ho già detto, avere la preparazione e la capacità psichica di partecipare in qualche modo a queste rappresentazioni. Vorrei ora esporre alcune esperienze tratte dal mio lavoro degli anni scorsi. Un gruppo di bambini di ambo i sessi tra i sette e i nove anni, senza particolare problemi psicologici evidenti, inizia una esperienza di ricerca espressiva e sonora. Si inizia con un primo periodo di presa di contatto e di conoscenza, anche corporea, del gruppo nella sua totalità, compreso anche il terapeuta. Bambini e terapeuta indossano soltanto una calzamaglia. Per qualche tempo si parla e si gioca senza alcuna direttiva, poi il terapeuta propone di allestire uno spettacolo teatrale. Non c’è alcun elemento scenico a disposizione, soltanto i corpi. I bambini non vogliono interpretare personaggi, ma propongono una situazione. Unico elemento esterno: due note che vengono fatte ascoltare da un registratore un do e il sol una quinta sopra, che riproducono un disegno ritmico molto dilatato. I bambini decidono di usare questo ritmo come commento di una storia più articolata. In seguito viene presentato uno strumento che emette le due note con ritmi che possono essere scelti e variati a piacere. A questo punto i bambini decidono di distribuirsi le parti.
Usano il corpo del terapeuta e le due note come personaggi. Lentamente si fa sentire nei bambini l’esigenza di una musica più complessa. I personaggi della storia divengono via, via sempre più precisi. I brani musicali, ovviamente in disco, vengono scelti con cura e discussi. A questo punto nel terapeuta sale l’ansia a causa dell’estrema disponibilità corporea dei bambini; cerca di razionalizzare; le chiacchierate si rivelano utili non solo al terapeuta. L’esperienza è articolata in una serie abbastanza numerosa di incontri. È parsa estremamente positiva dal punto di vista pedagogico e psichico, molto limitata però da un elemento che si rivela determinante. I bambini e il terapeuta avrebbero cioè dovuto essere completamente nudi e il terapeuta avrebbe dovuto avere meno paura delle richieste erotiche dei bambini. A inibire il potenziale di questa esperienza sono state, è vero, anche le preoccupazioni per le conseguenze giudizi arie possibili; ma si è trattato soprattutto dell’impossibilità e dell’incapacità del terapeuta di gestire la situazione e la propria ansia. Se, con sprezzo delle leggi, i! coinvolgimento fisico con i bambini si fosse realizzato, l’ansia del terapeuta si sarebbe però trasferita sui bambini stessi. Le considerazioni psicologiche che si potrebbero trarre da questa esperienza, per quanto astratte, sono molte. Le principali sono:
l) i bambini hanno un profondo desiderio nei confronti degli adulti. La continua frustrazione di queste richieste ha indubbiamente un profondo significato nella nostra cultura;
2) una educazione al contatto epidermico dei corpi nella loro totalità riuscirebbe a sbloccare il rituale ossessivo della nostra cultura, irrigidito nella ipervalutazione del fallo e nella centralità sessuale degli organi genitali e del coito;
3) fondamentale è stato l’intervento della musica come fattore scatenante delle pulsioni libidiche.

IX

L. era un ragazzetto di circa otto anni, diagnosticato psicotico grave con forti componenti autistiche ed esplosioni autodistruttive. Trascorreva i giorni in modo abbastanza tranquillo, un po’ assente, amava mettere in ordine gli oggetti dell’ambiente in cui si trovava e anche manipolarsi i genitali a lungo. Quando si dedicava a quest’ultima occupazione assumeva un’espressione seria e un po’ sofferente. Spesso, ma non sempre, dopo queste manipolazioni assumeva un atteggiamento prima ansioso e poi esaltato e tentava di ferirsi, o comunque di procurarsi lesioni scaraventandosi, per esempio, contro gli spigoli delle pareti o dei mobili. Passata la crisi ritornava una relativa calma.
Il terapeuta avvicinò per la prima volta L. durante una crisi abbastanza violenta. Aiutato da un’assistente, prese L. tra le braccia, stringendolo molto fotte. L. si dibatté a lungo senza però gridare né piangere; poi si assopì, il terapeuta si sdraiò sul lettino tenendo L. su di lui. Durante gli altri incontri L. fece richiesta di sdraiarsi nuovamente sul corpo del terapeuta. Dopo qualche tempo il terapeuta incominciò un movimento ritmico del proprio corpo e a poco a poco i due corpi incominciarono quasi a danzare. Successivamente il terapeuta sempre stringendo i! corpo di L. tra le braccia, si mise, durante gli incontri, a suonare, con una certa fatica, i! pianoforte. Per tutto il periodo (otto mesi) per cui durarono gli incontri, non ci furono più atteggiamenti autolesionistici; ma non scomparvero gli altri atteggiamenti di assenza. Furono anche possibili alcuni dialoghi, dai quali emerse, con evidenza, che L. aggrediva il proprio corpo per appropriarsene e per ricercare un contatto con altri corpi. Forse per desiderio di imitare il terapeuta, ma, pensiamo, non solo per questo, L. espresse più tardi i! desiderio di iniziare lo studio del pianoforte.

X

M. era una donna di circa quaranta anni, ricoverata da dieci anni in ospedale psichiatrico, inizialmente in seguito ad un episodio schizofrenico di tipo persecutorio, era poi andata sempre più decadendo fisicamente e psichicamente, ancora in grado comunque di fare qualche lavoretto di pulizia; il linguaggio era poverissimo ed abbastanza disarticolato. Il terapeuta arrivando un giorno in reparto si sentì dire che M. era stata molto cattiva ed aggressiva con una suora.
Il terapeuta entrò nella stanza in cui erano sistemati gli strumenti musicali e si mise all’organo, iniziando a suonare. M., avvicinatasi, disse di voler cantare. Usando un modulo musicale molto semplice, dalla struttura estremamente arcaica, diffuso in tutta l’Italia centrale, M. cominciò a cantare a squarciagola, raccontando ed aggiungendo, sempre cantando, tutta una serie di osservazioni e di riflessioni sull’accaduto.
Altre volte M., sempre usando lo stesso stereotipo melodico, volle cantare, a condizione però di essere accompagnata all’organo dal terapeuta, racconti relativi ad episodi della vita d’ospedale o avvenimenti della vita passata. Il linguaggio si rivelava sempre abbastanza ricco con punte espressivamente molto efficaci ed anche umoristiche. Una volta, avvicinandosi al terapeuta, indicando l’organo, M. disse: «Per favore, chiacchieriamo un poco».
La musica, il ritmo, il corpo, la rappresentazione, sono stati usati negli esempi sopra citati, utilizzando sempre parametri psicoanalitici e avendo sempre intenti di analisi. Il problema era di poter stabilire un minimo di comunicazione e rendere attuali i desideri. L’importante è che ci rifiutiamo di usare in modo semplicemente comportamentistico qualunque tecnica noi intendiamo usare e quindi anche la musicoterapia od ogni altra terapia espressiva. La riappropriazione deve avere sempre come fine la consapevolezza. Lavorare per costruire solo automi obbedienti e magari anche felici non mi interessa. In Italia, ancora più che altrove, la musica e l’espressività sono usate essenzialmente per condizionare, per manipolare, le persone senza permettere loro di riappropriarsi, realmente, di nulla.
Sono parecchi gli studi che sono stati fatti, nel corso dei secoli per studiare l’influenza.
della musica sugli stati d’animo. Già Platone aveva sostenuto che esistono diversi tipi di musica che inducono nell’individuo emozioni diverse: musiche esaltanti e musiche snervanti. Molte persone, per lo pm non musicisti, credono tuttora in questa ingenua stupidaggine. Sono state fatte addirittura ricerche per determinare quali siano i genere di musica o addirittura i compositori che inducono questa o quella emozione.
Sono state messe appunto tabelle con le quali si tenta di dare al musicoterapeuta sprovveduto alcuni parametri di intervento, assolutamente ridicoli, in base ai quali, per esempio, il tal compositore romantico indurrebbe sentimenti di calma e quell’altro un po’ di depressione, e come e quando e quanto di tale musica va «somministrata»..
Quell’ouverture sarebbe esaltante e quel preludio rilassante e così via.
È vero, forse, che vi possono essere brani musicali che per alcuni aspetti esteriori possono essere definiti, grossolanamente, tristi o allegri, energici od estenuanti ecc. La credenza popolare ha addirittura inventato le ninne nanne per indurre il sonno nei bambini: la monotonia melodica e la pacata ritmicità di questi brani può effettivamente in molti casi, rilassare il bambino ed indurlo a dormire.
Le ninne nanne però hanno effetti diversissimi su ogni singolo bambino, la cosa che le accomuna è che costituiscono un tentativo per combattere la noia di chi culla il bambino e non sa come passare il tempo. La ricerca delle musiche da usarsi in campo musicoterapeutico deve essere sempre estremamente mirata; il lavoro deve essere fatto per ogni singola persona e, soprattutto, insieme con ogni singola persona. Un esempio che valga per tutti: ad un soggetto ansioso e molto sensibile alla musica viene fatta ascoltare una ninna nanna che possiede, almeno apparentemente, tutte le caratteristiche di sviluppo melodico e ritmico in grado di indurre la calma e la distensione che da una ninna nanna ci si aspetta. Invece, quasi subito, la persona in questione non riesce a stare ferma, a controllarsi, si alza dal letto in preda ad un attacco di ansia molto forte che, lì per lì, pare inspiegabile al terapeuta. In seguito, dopo un lavoro di analisi si viene a scoprire che proprio quella era la canzoncina cantata al paziente dalla madre, nei primissimi anni di vita; poiché si era venuto in seguito a formare un grosso nucleo inconscio di conflittualità intorno al rapporto con la figura materna, il richiamo causato dalla ninna nanna era stato fortemente ansiogeno e quando mai inatteso.

XII

Io credo che ogni persona abbia introiettato alcuni moduli musicali che sono divenuti suoi tipici. Moduli ritmici, elementari, intervalli e così via. Questi moduli musicali hanno iniziato a formarsi nell’inconscio individuale, probabilmente, fin dalle prime esperienze dei ritmi interni del ventre matérno. Queste prime introiezioni hanno determinato i primi elementari meccanismi di selezione sonora che, a loro volta, introiettati, sono venuti a formare la preistoria dei gusti musicali dell’individuo. Ovviamente, poi, la storia personale ha lentamente modificato ed arricchito i moduli musicali interni, giungendo talvolta persino ad inibire la capacità di cogliere il linguaggio della musica.
Ogni persona possiede però, questi moduli ritmo-melodici propri; ed è possibile determinarli con una tecnica abbastanza semplice. Riproposti all’ascolto della stessa persona questi moduli riveleranno la capacità di produrre risonanze psichiche stupefacenti. Su questi moduli, inoltre, è possibile condurre un’indagine strettamente psicoanalitica oppure, anche, lavorare per costruire più o meno complicate composizioni musicali.

XIII

A questo punto si aprirebbe il discorso relativo all’educazione musicale: è estremamente complesso. Per il momento, voglio solo dire che ogni persona dovrebbe essere in grado di comporre musica come è in grado di comporre frasi con il linguaggio verbale. Il semi-analfabetismo musicale che ci affligge è molto diffuso persino tra coloro. che sono in grado di strimpellare uno strumento. Tutti i bambini sono compositori potenziali è partendo dai loro moduli musicali personali è possibile metterli in grado di comporre con estrema facilità. Essere in grado di diventare Beethoven o Strawinsky è poi un altro discorso, come altro è parlare e’ altro essere Shakespeare.
La musica è un linguaggio che tutti posseggono, ma che in moltissimi è stato distrutto o troppo rimosso. Come abbiamo detto, il bisogno di teatralità è ineliminabile perché è il modo stesso di muoversi della psiche. L’essere umano recita sempre. È però estremamente grave aver operato nella nostra cultura la castrazione dell’aspetto musicale.
Il lavoro sul teatro, sull’espressività e sulla musica è appena iniziato per Sandro Gindro e per Psicoanalisi Contro.
Ci siamo fermati un po’ a riflettere.
Le esperienze sono state molte; ora cerchiamo di trarre alcune conclusioni che servano operativamente.
Conclusioni che non vogliono essere punti di arrivo ma punto di partenza.

Psicoanalisi contro n. 5 – Preghiera ad Orfeo

lunedì, 1 marzo 1982

Nonostante le parole.

Che cosa vuol dire un brano di musica?
Ogni gesto umano tende a dire qualche cosa, quindi, anche il gesto: «musica». Ma è possibile capire che cosa voglia dire? Se vuol dire: «dice». L’oscurità si annida nella breve espressione «che cosa». Mi sento un po’ ridicolo perché parlo di musica con le parole. D’altra parte, se ne parlo, debbo usar” parole e non suoni. Voglio parlare della musica e sento le parole inadeguate, o meglio: esterne. Eppure anche quando sento la musica, mi si affollano alla mente parole che parlano di quella musica. Schopenhauer affermava che contemplando l’opera d’arte, l’arte musicale in particolare, la volontà di vivere sospendeva per un istante la sua· tirannide dolorosa. Può darsi che, ascoltando un quartetto di Mozart, io sospenda la mia volontà di vivere, ma non riesco a sospendere le parole.
Eravamo in do maggiore, il secondo violino discende: re, do, si, la, sol, fa… un mi bemolle: ecco la improvvisa ombra del do minore. Due parole mi si presentano: «minore» e, anche, «bello». Sono due parole estranee a quella piccola collana di note, ben lo so. Però la mia mente le ha pensate insieme con quelle note. Mi sono anche venute in mente delle immagini? Quella piccola scaletta discendente mi ha fatto forse pensare ad una collana? Forse so anche a quale collana. Tutto questo però l’ho pensato dopo. Adesso che parlo e scrivo di musica, mi risuona nella mente la breve scaletta del secondo violino; me la sono anche riguardata sulla parti tura che adesso è lì, spalancata sul leggiO del pianoforte: il secondo violino e gli altri tre strumenti, silenziosi per qualche misura, e poi, in accordo, hanno ribadito che quel mi bemolle voleva dire, armonicamente, do minore. Mi ritornano alla mente due espressioni: «do minore» e «bello».

Il teatro della musica.

Mi si ripresenta la domanda: – Che cosa vuol dire la musica? – C’è chi, per spiegarlo, fa ricorso alle immagini e vede in un allegro una radiosa mattina di sole, con scampanio e contadini che ballano; nell’andante, un bosco ombroso e un po’ malinconico; e casi via. Fantasie ingenue, direi anche un po’ sciocche. Qualcuno mi potrebbe obiettare che molti compositori hanno tentato di realizzare questo accoppiamento: le Stagioni di Vivaldi, la Sesta di Beethoven, la Moldava di Smetana. Qualcuno più erudito potrebbe chiedermi che significato ha l’uso del canto degli uccelli fatto da Messiaen.
Io so che la musica è altrove, non si trova . certo nelle goffe imitazioni, di un rumore della natura. Ha detto che l’arte è sempre anche un’imitazione, perché è sempre teatro. lo credo che la musica sia teatro. È il racconto dell’avventura dei suoni? Anche; ma non soltanto. lo credo che voglia dire qualcosa, ma mi chiedo, di nuovo: «che cosa?»

I finali rossiniani

Ogni composizione musicale riceve, da parte del compositore, una particolare attenzione nel momento finale. È difficilissimo, anche oggi, trovare brani di musica che terminino in sordina, con tempi dilatati e molli. Il finale è quasi sempre dinamico e iperteso, drammatico o allegro che sia. Questo perché la musica vive essenzialmente come spettacolo. Il compositore lo sa, perciò tenta di creare una situazione emotiva tale da favorire l’applauso dello spettatore. Esistono opere d’arte che non siano teatro o spettacolo? Non lo credo. Anche un romanzo o una scultura «rappresentano», sempre, qualche cosa. Sono, più o meno, distesi nel tempo; ma il loro modo di essere è, sempre, un racconto.

Oltre i dodici suoni.

La musica ha varcato la soglia del novecento con un’identità precisa e un linguaggio ancora intatto. La melodia infinita di Wagner e le ricerche sonore di Webern e Schoenberg non avevano ancora messo in crisi questa identità: dodici suoni, accordati prendendo come punto di riferimento le quattrocentoquaranta vibrazioni al secondo del «la» stabilito nella Convénzione di Vienna. L’esempio di Rossini, che aveva fatto battere gli archetti dei violini sul leggio era stato soltanto un gesto scanzonato ed ironico.
In seguito, la musica si è tesa a spezzare l’involucro dei dodici suoni; la crisi della sua identità è iniziata allora. La musica ha cercato la concretezza dei rumori e la ricchezza del suono infinito; ma non è diventata, per questo, più comprensibile.
Potrei dire, allora, che la musica è caratterizzata dall’architettura di elementi acustici; dicendo ciò vado, però, contro le mie stesse convinzioni. È molto tempo ormai che io vado dicendo, e l’ho scritto più volte, che la musica è, prima di tutto, un «fatto» tattile. La musica sorge dal pulsare del mio corpo e della mia libido; ha la sua origine nelle mie pulsioni interne che tendono ad estrinsecarsi, ad esprimersi, a mostrarsi. lo ritengo, infatti, che l’elemento sonoro sia per la musica una acquisizione successiva. Ma, allora, se la musica non è neppure un’architettura di elementi acustici, che cosa è? Come si può cercare il significato di una cosa che, forse, non esiste?

Prima della musica.

Una persona o una cosa trovano la loro identità attraverso l’identificazione. L’essere umano prende dall’altro le prime caratteristiche che lo faranno essere individuo: distinto ed unito allo stesso tempo. Le cose divengono tali non per una loro intrinseca forza gestaltizzante, ma perché sono simili ad altre cose e da queste cose ha inizio la loro identità. È impossibile determinare la prima identificazione: è prima della persona; è prima della cosa; è prima del soggetto e dell’oggetto.
L’identificazione è anche riconoscimento.
Il riconoscimento è, anche, dare un nome; ma il nome non e parola; è, soprattutto, corpo: De Saussure dice che il significante è il suono convenzionale che sta per l’oggetto; ma non esistono suoni convenzionali.
Né le leggi sociali sono patti frutto di una . convenzione, né le leggi linguistiche. Il termine «convenzione» è il termine più bugiardo della nostra lingua, o, meglio, è il termine in cui si può annidare il maggior numero di bugie.
È musica ciò che viene riconosciuto come musica, ciò cui viene dato il nome di musica; ma il nome e il riconoscimento sono ciò che si vuole sia musica; e ciò che si vuole sia musica è qualcosa che non è musica, perché è prima della musica. La musica non è un linguaggio originario per il semplice fatto che non esistono linguaggi originari; essa è però il più antico di tutti.
Riconosco che in quest’ultima affermazione c’è la presunzione e il dogmatismo di un musicista.
La musica è, quindi, un semplice gesto fatto di elementi acustici, ma non soltanto; prima vi è qualcos’altro, difficile da riconoscere come musica.

Struttura, gesto e storia..

La musica è anche storia della musica. La musica non è un linguaggio universale; ogni cultura ha la sua musica e le sue musiche. La critica letteraria, applicando le teorie strutturaliste ai prodotti della letteratura, ha creduto di fare. cosa molto nuova. In realtà, da sempre, l’analisi di un testo musicale si è fatta, anche e forse soprattutto, mediante l’analisi dei suoi elementi strutturali. Il che non toglie che siano stati usati anche molti altri parametri. Ad esempio, i teorici medioevali analizzavano testi musicali anche con strumenti di tipo ossessivo-metafisico: il famoso diabulus in musica, il «tritono», era allontanato dagli schemi compositivi, per ragioni esterne allo stretto discorso musicale. Non si può tacere, peraltro, che si tratta, anche, di un intervallo difficile da intonare per la voce umana.
Un brano musicale può essere osservato da almeno tre punti fondamentali: l) l’analisi strutturale, con la quale si analizzano, scomponendoli, gli elementi melodici, ritmici ed armonici, nella ricomposizione dei quali si opera il tentativo di comprendere l’architettura nel suo significato complessivo;.2) l’analisi emotiva, che consiste nel cercare il significato dei gesti sonori che il compositore vuole compiere nel tentativo di coinvolgere gli ascoltatori comunicando loro il suo stato d’animo e/o tentando di far sorgere in essi stati d’animo particolari;
3) l’analisi storica, che consiste nella lettura del brano musicale come espressione di un momento particolare della storia della musica, o in relazione alla storia della cultura più generalmente intesa.

L’impossibilità della negazione.

Certo, la musica non si esprime attraverso concetti; le parole riescono ad imprigionarla in definizioni oltremodo imprecise. Si può definire un brano musicale allegro, malinconico o tragico; ma le sfumatura sono infinite, sfuggono al limite imposto dalla parola. Come può, per esempio, la musica esprimere il «no»? con il silenzio? con pause cariche di sospensione? Non riesco a crederlo. La musica è come il sogno, non può esprimere la negazione, e come i sogni e come l’inconscio non conosce morte. Conosce il malinconico trionfalismo delle marce funebri, fatte dai vivi per altri vivi, per commuoversi meglio. La musica riesce a rappresentare solamente il sì e la vita.
Questo è l’unico significato certo della musica; ma ho il sospetto che questo sia il significato di ogni gesto e non del gesto musicale in particolare. Quale espressione dell’arte e dell’attività creativa umana può realizzare, realmente, la morte? I nostri gesti, fin che siamo, saranno gesti di vita e di vivi. La musica, perciò, non ha nessun significato altro che quello che decidiamo di attribuire ad ogni brano singolo.

Preghiera ad Orfeo.

Orfeo è il salvatore. La musica è la sua parola che salva.
Io, spesso, trovo la mia salvezza nella musica; perché nella musica mi sono perso e mi sono ritrovato L’eternità della musica vive nella dimensione temporale di ogni brano. Forse il significato della musica sta in tutto ciò che non è musica.

81 – Marzo ‘92

lunedì, 1 marzo 1982

È andato in scena al Teatro Argot di via Natale del Grande 21, presentato dalla Compagnia Teatro della Città, un nuovo testo di Franco Bertini, autore di quel Track che ebbe l’anno scorso un buon successo e di cui si è avuta nel frattempo anche una versione cinematografica. Macchine in amore, questo è il titolo del nuovo spettacolo, ci ha sorpreso ed entusiasmato; ci siamo trovati davanti ad una scrittura schietta e teatralmente efficacissima. Si passa da un inizio sciolto, ammiccante e divertito, con appena un accenno inquietante, ad un dramma che si fa sempre più consistente fino alla tesissima realistico-astratta catastrofe finale. Spesso gli interpreti parlano un romanesco di chiara derivazione pasoliniana, asciutto e tuttavia ricco di poesia e sincerità. Molti bozzetti, quasi gags quotidiane, si succedono, veristiche, accattivanti e divertenti.
Tre ragazzi, un coattello, un depressone e un bellone «sfigato», decidono di andare a puttane in un casino nascosto dietro ad un cantiere di chissà quale periferia romana. Il bellone, Edoardo, è afflitto da un dramma famigliare, poiché il fratello Simone è sofferente di gravi turbe emozionali che ne fanno un disadattato, diagnosticabile forse come ragazzo-Down. La situazione drammatica nasce dalla decisione di coinvolgere Simone nell’avventura sessuale del gruppo. I tre giovanotti danno inizio ad un gioco di reciproca provocazione e stimolo, di netta cannotazione omosessuale, come succede quando la complicità si rafforza e la donna diventa un pretesto per provare insieme sentimenti a forti tinte ed il corpo dei compagni, vero e inconscio oggetto del desiderio, può venire così esaltato e percepito, come sensuale e potente. Questo gioco tutto sommato gestito sufficientemente dai tre, non può essere invece controllato da Simone, il quale lo converte in fantasie terribili e tenerissime verso la donna vagheggiata e mai posseduta.
L’epilogo di una tale tesissima situazione non può che essere di una insostenibile drammaticità. Sia il regista, Giulio Bose, sia gli attori, Gianmaria Tognazzi, Paolo Fosso, Franco Pistoni ed Enzo Marcelli sano riusciti a rendere tutto questo con un ritmo secco e stringato, delineando personaggi vivissimi e di grande suggestione. Un particolare apprezzamento merita a nostro avviso la lucidità can cui è stato affrontato il problema del «matto». Per una volta abbiamo visto una lettura del disturbo psichico non compiaciuta a pietistica, ma malto sobria, studiata ed allo stesso tempo umanamente partecipe. Le musiche sono di Marco Manusso e la scena iper-realistica è firmata da Tiziano Fario.