Psicoanalisi contro n. 5 – Preghiera ad Orfeo

marzo , 1982

Nonostante le parole.

Che cosa vuol dire un brano di musica?
Ogni gesto umano tende a dire qualche cosa, quindi, anche il gesto: «musica». Ma è possibile capire che cosa voglia dire? Se vuol dire: «dice». L’oscurità si annida nella breve espressione «che cosa». Mi sento un po’ ridicolo perché parlo di musica con le parole. D’altra parte, se ne parlo, debbo usar” parole e non suoni. Voglio parlare della musica e sento le parole inadeguate, o meglio: esterne. Eppure anche quando sento la musica, mi si affollano alla mente parole che parlano di quella musica. Schopenhauer affermava che contemplando l’opera d’arte, l’arte musicale in particolare, la volontà di vivere sospendeva per un istante la sua· tirannide dolorosa. Può darsi che, ascoltando un quartetto di Mozart, io sospenda la mia volontà di vivere, ma non riesco a sospendere le parole.
Eravamo in do maggiore, il secondo violino discende: re, do, si, la, sol, fa… un mi bemolle: ecco la improvvisa ombra del do minore. Due parole mi si presentano: «minore» e, anche, «bello». Sono due parole estranee a quella piccola collana di note, ben lo so. Però la mia mente le ha pensate insieme con quelle note. Mi sono anche venute in mente delle immagini? Quella piccola scaletta discendente mi ha fatto forse pensare ad una collana? Forse so anche a quale collana. Tutto questo però l’ho pensato dopo. Adesso che parlo e scrivo di musica, mi risuona nella mente la breve scaletta del secondo violino; me la sono anche riguardata sulla parti tura che adesso è lì, spalancata sul leggiO del pianoforte: il secondo violino e gli altri tre strumenti, silenziosi per qualche misura, e poi, in accordo, hanno ribadito che quel mi bemolle voleva dire, armonicamente, do minore. Mi ritornano alla mente due espressioni: «do minore» e «bello».

Il teatro della musica.

Mi si ripresenta la domanda: – Che cosa vuol dire la musica? – C’è chi, per spiegarlo, fa ricorso alle immagini e vede in un allegro una radiosa mattina di sole, con scampanio e contadini che ballano; nell’andante, un bosco ombroso e un po’ malinconico; e casi via. Fantasie ingenue, direi anche un po’ sciocche. Qualcuno mi potrebbe obiettare che molti compositori hanno tentato di realizzare questo accoppiamento: le Stagioni di Vivaldi, la Sesta di Beethoven, la Moldava di Smetana. Qualcuno più erudito potrebbe chiedermi che significato ha l’uso del canto degli uccelli fatto da Messiaen.
Io so che la musica è altrove, non si trova . certo nelle goffe imitazioni, di un rumore della natura. Ha detto che l’arte è sempre anche un’imitazione, perché è sempre teatro. lo credo che la musica sia teatro. È il racconto dell’avventura dei suoni? Anche; ma non soltanto. lo credo che voglia dire qualcosa, ma mi chiedo, di nuovo: «che cosa?»

I finali rossiniani

Ogni composizione musicale riceve, da parte del compositore, una particolare attenzione nel momento finale. È difficilissimo, anche oggi, trovare brani di musica che terminino in sordina, con tempi dilatati e molli. Il finale è quasi sempre dinamico e iperteso, drammatico o allegro che sia. Questo perché la musica vive essenzialmente come spettacolo. Il compositore lo sa, perciò tenta di creare una situazione emotiva tale da favorire l’applauso dello spettatore. Esistono opere d’arte che non siano teatro o spettacolo? Non lo credo. Anche un romanzo o una scultura «rappresentano», sempre, qualche cosa. Sono, più o meno, distesi nel tempo; ma il loro modo di essere è, sempre, un racconto.

Oltre i dodici suoni.

La musica ha varcato la soglia del novecento con un’identità precisa e un linguaggio ancora intatto. La melodia infinita di Wagner e le ricerche sonore di Webern e Schoenberg non avevano ancora messo in crisi questa identità: dodici suoni, accordati prendendo come punto di riferimento le quattrocentoquaranta vibrazioni al secondo del «la» stabilito nella Convénzione di Vienna. L’esempio di Rossini, che aveva fatto battere gli archetti dei violini sul leggio era stato soltanto un gesto scanzonato ed ironico.
In seguito, la musica si è tesa a spezzare l’involucro dei dodici suoni; la crisi della sua identità è iniziata allora. La musica ha cercato la concretezza dei rumori e la ricchezza del suono infinito; ma non è diventata, per questo, più comprensibile.
Potrei dire, allora, che la musica è caratterizzata dall’architettura di elementi acustici; dicendo ciò vado, però, contro le mie stesse convinzioni. È molto tempo ormai che io vado dicendo, e l’ho scritto più volte, che la musica è, prima di tutto, un «fatto» tattile. La musica sorge dal pulsare del mio corpo e della mia libido; ha la sua origine nelle mie pulsioni interne che tendono ad estrinsecarsi, ad esprimersi, a mostrarsi. lo ritengo, infatti, che l’elemento sonoro sia per la musica una acquisizione successiva. Ma, allora, se la musica non è neppure un’architettura di elementi acustici, che cosa è? Come si può cercare il significato di una cosa che, forse, non esiste?

Prima della musica.

Una persona o una cosa trovano la loro identità attraverso l’identificazione. L’essere umano prende dall’altro le prime caratteristiche che lo faranno essere individuo: distinto ed unito allo stesso tempo. Le cose divengono tali non per una loro intrinseca forza gestaltizzante, ma perché sono simili ad altre cose e da queste cose ha inizio la loro identità. È impossibile determinare la prima identificazione: è prima della persona; è prima della cosa; è prima del soggetto e dell’oggetto.
L’identificazione è anche riconoscimento.
Il riconoscimento è, anche, dare un nome; ma il nome non e parola; è, soprattutto, corpo: De Saussure dice che il significante è il suono convenzionale che sta per l’oggetto; ma non esistono suoni convenzionali.
Né le leggi sociali sono patti frutto di una . convenzione, né le leggi linguistiche. Il termine «convenzione» è il termine più bugiardo della nostra lingua, o, meglio, è il termine in cui si può annidare il maggior numero di bugie.
È musica ciò che viene riconosciuto come musica, ciò cui viene dato il nome di musica; ma il nome e il riconoscimento sono ciò che si vuole sia musica; e ciò che si vuole sia musica è qualcosa che non è musica, perché è prima della musica. La musica non è un linguaggio originario per il semplice fatto che non esistono linguaggi originari; essa è però il più antico di tutti.
Riconosco che in quest’ultima affermazione c’è la presunzione e il dogmatismo di un musicista.
La musica è, quindi, un semplice gesto fatto di elementi acustici, ma non soltanto; prima vi è qualcos’altro, difficile da riconoscere come musica.

Struttura, gesto e storia..

La musica è anche storia della musica. La musica non è un linguaggio universale; ogni cultura ha la sua musica e le sue musiche. La critica letteraria, applicando le teorie strutturaliste ai prodotti della letteratura, ha creduto di fare. cosa molto nuova. In realtà, da sempre, l’analisi di un testo musicale si è fatta, anche e forse soprattutto, mediante l’analisi dei suoi elementi strutturali. Il che non toglie che siano stati usati anche molti altri parametri. Ad esempio, i teorici medioevali analizzavano testi musicali anche con strumenti di tipo ossessivo-metafisico: il famoso diabulus in musica, il «tritono», era allontanato dagli schemi compositivi, per ragioni esterne allo stretto discorso musicale. Non si può tacere, peraltro, che si tratta, anche, di un intervallo difficile da intonare per la voce umana.
Un brano musicale può essere osservato da almeno tre punti fondamentali: l) l’analisi strutturale, con la quale si analizzano, scomponendoli, gli elementi melodici, ritmici ed armonici, nella ricomposizione dei quali si opera il tentativo di comprendere l’architettura nel suo significato complessivo;.2) l’analisi emotiva, che consiste nel cercare il significato dei gesti sonori che il compositore vuole compiere nel tentativo di coinvolgere gli ascoltatori comunicando loro il suo stato d’animo e/o tentando di far sorgere in essi stati d’animo particolari;
3) l’analisi storica, che consiste nella lettura del brano musicale come espressione di un momento particolare della storia della musica, o in relazione alla storia della cultura più generalmente intesa.

L’impossibilità della negazione.

Certo, la musica non si esprime attraverso concetti; le parole riescono ad imprigionarla in definizioni oltremodo imprecise. Si può definire un brano musicale allegro, malinconico o tragico; ma le sfumatura sono infinite, sfuggono al limite imposto dalla parola. Come può, per esempio, la musica esprimere il «no»? con il silenzio? con pause cariche di sospensione? Non riesco a crederlo. La musica è come il sogno, non può esprimere la negazione, e come i sogni e come l’inconscio non conosce morte. Conosce il malinconico trionfalismo delle marce funebri, fatte dai vivi per altri vivi, per commuoversi meglio. La musica riesce a rappresentare solamente il sì e la vita.
Questo è l’unico significato certo della musica; ma ho il sospetto che questo sia il significato di ogni gesto e non del gesto musicale in particolare. Quale espressione dell’arte e dell’attività creativa umana può realizzare, realmente, la morte? I nostri gesti, fin che siamo, saranno gesti di vita e di vivi. La musica, perciò, non ha nessun significato altro che quello che decidiamo di attribuire ad ogni brano singolo.

Preghiera ad Orfeo.

Orfeo è il salvatore. La musica è la sua parola che salva.
Io, spesso, trovo la mia salvezza nella musica; perché nella musica mi sono perso e mi sono ritrovato L’eternità della musica vive nella dimensione temporale di ogni brano. Forse il significato della musica sta in tutto ciò che non è musica.